I poeti che invece sono esistiti vengono parafrasati in scuole medie protette da inferriate, adiacenti a quegli incroci dove i neri girano in cerchio a sgranare il rosario di Bo Diddley:
I’m a man, I’m a man, I’m a man. Intanto i ragazzini masturbano bombolette spray per far rinascere sui muri altri ragazzini morti, come a lasciarsi una consegna al sapore di leggenda, quella che i trafiletti di zizzanie pagati cinque euro a pezzo non raccontano.
I mattoni coloro schiavo sono abbagliati dal tramonto che illumina di arancione l’intero rione, l’inizio della primavera rende il carnaio caotico. Il rumore incessante dei motorini s’intromette tra la poesia e Levnik, che stizzito inspira fumo e bestemmie, alza il volume delle cuffiette per non ascoltare i clacson che salutano, e gli oooooooh! che ricambiano.
Levnik abita una delle case popolari in uno di quei palazzi dove si coltiva la canapa, dove si pratica il sesso meridionale, non diverso da quello negro. Per lui il rione è difficile da metabolizzare, ma il bilico del tramonto lo ha sempre fatto sospirare con una certa tregua interiore, quasi di pace. Nonostante la musica sente il costante lavorio di chi nascosto da qualche parte costruisce lapidi con nomi e cognomi, data di nascita e di morte, che i ragazzi tutta barba e tute sgargianti aspettano per vendicare l’ultimo cristo tradito, e sputano a terra alla vista delle gazzelle dei romani. Così si consuma lo scisma pagano, dove apostoli di un verbo mal coniugato restano vigili a contendersi dottrine, a riempire di scalpi interi papiri di whatsapp.
Sente suo ogni muro scrostato, il tufo di ogni mattone diventato polvere. Non è un ragazzo, non si sente ancora un uomo. Ha un lavoro che gli permette di mangiare, comprarsi le birre, il fumo necessario, certo non di vivere.
Levnik è stato concepito in una splendida primavera del 1981, ha iniziato a vivere da embrione il grembo largo di una ragazza mai diventata donna. Nato nel febbraio dell’anno successivo riceve carezze che si posano nella memoria del corpo, la madre muore giovane lasciando il figlio con uno strano nome e un lutto scritto per sempre sul volto. Appena impara a leggere forma la sua educazione sulle parole, di sua madre non vuole nemmeno sentir parlare, non vuole ascoltare banalità bagnate da una commozione spesso artificiosa. L’avrebbe conosciuta solo scavandosi dentro, stillando esso stesso dalla sua anima tutto l’aroma riconducibile a lei. Il padre rientra nel ruolo solo qualche anno dopo, quando di colpo trova una bellissima donna disposta a prendersi i dolori di questa famiglia monca, e Levnik, scostante preadolescente, si tuffa nei riccioli e nei sorrisi di Rosaria, la nuova madre, quella grazie a cui (re)esiste.
Ama leggere, molto meno lo studio. Dopo il diploma il padre lo inserisce in un salumificio, un lavoro per nulla appagante che accetta solo perché gli dà il tempo di leggere la sera, ascoltare musica nel furgone e garantirsi il fumo che ultimamente sembra mai bastargli.
A trent’anni si masturba regolarmente, ha pochissimi amici, passa la maggior parte del tempo libero a leggere, ascoltare musica, spesso entrambe le cose insieme. Solo a Miriana apre davvero il cuore, ma l’ha fatta andare via, e si è portata dietro tutto il sesso sfrenato e feroce che praticavano nell’unico scenario che rendeva possibile il loro rapporto: le quattro mura. A letto con Miriana non si sentiva a disagio, si comportava secondo le regole del corpo e dei suoi bisogni. Lei lo accoglieva morbida, elastica, spesso profumata di birra, e solo là dentro si metteva in pari col mondo, si sforzava di mettere in pratica l’utopia. Gli amplessi erano cazzotti travestiti, non si scambiavano solo piacere, soprattutto rabbia. Gli orgasmi seppur da uniti, li vivevano per conto proprio. Gli equivoci resero lontano il giorno in cui l’abbordò all’università nel giorno dello sciopero dei mezzi pubblici. Voleva solo capezzoli da mordere, occhi sicuri da bere. Geloso del suo crepuscolo si riconosce solo nella vedovanza, la felicità che Miriana gli offriva non era cosa per lui.
Il tramonto è diventato sera, la sera notte.
Un mozzicone sfrigola sul davanzale, smanioso nel letto è illuminato dalla tv che col volume azzerato trasmette slide di statistiche nazionali. Si sente parte dei 3,5 dei “non so”, o dei “preferisco non rispondere”. Non è del tutto assonnato ma la spegne. Il frasario dei talk show ha il linguaggio di chi tiene lezioni dietro cattedre da happy hour, e pagano lauree honoris causa a mance da 2,50 euro. Si arruola tra le file dei “preferisco non rispondere”.
Si spengono anche le luci dei lampioni, il buio entra nelle strade del rione come sangue in vena. Levnik è con occhi sbarrati a sfogliarsi i battiti e contare minuti che sempre di più lo avvicinano alla sveglia.
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