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Consegna prevista Gennaio 2025
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Max, Zeila, Milo, Tambroon e Karim sono i ‘Meno Cinque’, spensierati e scombinati adolescenti che frequentano l’ultimo anno della scuola Chimera della città di Syrako. Circondati da antagonisti ‘Perfetti’ e adulti bizzarri, vivono le loro avventurose giornate in una città ordinata e armoniosa che, però, inizia a mostrare le sue contraddizioni. Le certezze s’incrinano, le persone cambiano, la realtà si rivela contorta e pericolosa. Che mistero avvolge la rosa Excelsa, simbolo della città perfetta e tatuata sui corpi dei nati a maggio? Quali segreti si celano nei sotterranei della città e cosa c’è al di fuori dei suoi confini? Cosa si cela dietro l’apparenza? Giungere alla verità non è facile, specialmente se per farlo bisogna sfidare leggi e convenzioni di una società in cui tutto è già deciso. Ci vorrebbe un eroe. E nessuno lo è, tantomeno Max che, pur controvoglia, si ritroverà a dover fare i conti con l’oscurità di quel mondo e, soprattutto, con se stesso.

Perché ho scritto questo libro?

Perché non ne ho potuto fare a meno. Un giorno, mentre ammiravo un roseto, ecco balzar fuori da una splendida rosa rossa una folla di personaggi con la pretesa di raccontarsi. La storia c’era già, dovevo solo seguire quegli esseri che sembravano vivere di vita propria, divertendomi nel modellare quella materia come fosse creta. Inoltre, sentivo l’esigenza di sviluppare alcuni temi come l’ingiustizia e le discriminazioni, parlare di amore ma anche di violenza. Con un sorriso, a volte, non sempre.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Prologo

La campagna odorava di sangue e di morte. L’oscurità della notte lavava i colori ma non poteva cancellare i bagliori e i crepitii dei fuochi, né poteva soffiare via il vento che sapeva di gelo e cenere. Esplosioni e rombi di tuoni alternati a gemiti umani nutrivano l’aria, corpi disfatti giacevano tra la polvere, mani imploranti s’alzavano, invocanti un aiuto che non sarebbe giunto.

Un guerriero dal mantello lacero e una fiera spada al fianco vagava tra le nere macerie, ultime vestigia di una sanguinosa tirannide. Stringeva tra le mani un piccolo scrigno, in volto dipinta la disperazione.

A un boato più forte degli altri, il cielo color della pece sembrò squarciarsi e mostrare il rosso del sangue. Dalle ferite piovvero massi di fuoco, una cappa di polvere gelata piombò sulla martoriata terra, fulmini saettarono senza sosta. Ma nulla di ciò angosciava il guerriero, se non il vuoto che oramai soggiogava il suo cuore. Arrancò fino al centro di ciò che fu una tetra costruzione e lì, oramai privo di forze, crollò in ginocchio. Lo scrigno cadde con lui, schiudendosi. Gli occhi stanchi videro ciò che mostrava. Fu allora che ricordò e comprese. Non rimase che l’ultima domanda, urlata al vento.

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“Dimmi, dunque: c’è mai stato un momento, una sola volta, in cui tutto questo sia stato reale?” Silenzio.

“La realtà e ciò che noi creiamo”, fu l’ultimo suo pensiero. Lo scrigno si richiuse. Cadde. Gocce di sangue bagnarono la nuda terra dove, per fato o per prodigio, germogliò un fiore.

     Era una rosa.

Fu un intenso profumo a svegliarlo, insieme al sole sul viso e a una voce insistente che chiamava il suo nome. Aprì gli occhi e si accorse di essere disteso su un prato, all’ombra di un albero dai fiori rossi sotto un cielo azzurro e limpido. Una figura, interposta tra lui e la luce, continuava a scuoterlo e a chiamarlo. Ancora intontito dai sogni, riuscì a distinguere una ragazza che gridava qualcosa come: “È tardissimo”, “ti sei addormentato come uno stupido” e qualche altro epiteto poco gentile. Con riluttanza si mise a sedere, fissando in volto la bella fanciulla che aveva osato disturbare il suo riposo. Era Sara, una biondina della sua stessa classe. “Ti rendi conto che gli altri sono già andati via e se la professoressa non ci troverà in aula, ci toccherà pulire i bagni?”

“E tu perché sei ancora qui?” Le sbadigliò in faccia Max.

“Forse hai dimenticato che oggi sono la capoclasse ed è mia responsabilità ricondurre tutti a scuola in orario.”

“Ah, ecco, quindi non mi hai svegliato per gentilezza…” Continuando a sbadigliare, Max tese la mano alla ragazza che impaziente lo invitava ad alzarsi e, per l’attimo in cui furono abbastanza vicini, Max notò tra la base del collo e la spalla, nascosto tra i lunghi capelli che scendevano ondulati, un piccolo tatuaggio stilizzato simile a un fiore. Fu tentato di chiederle cosa rappresentasse, ma resistette nel notare la sua aria indispettita. Gli occhi, che si confondevano con l’azzurro del cielo, lo guardavano con rimprovero e, al contempo, canzonatori. Nonostante fosse ancora un po’ stordito, si rese conto che attardarsi ancora avrebbe creato solo problemi. Quella gita in campagna era stata organizzata dalla scuola con lo scopo di studiare alcune specie vegetali utili a certi esperimenti di botanica che stavano conducendo in classe, trenta, bravi e solerti studenti delle classi superiori dell’Istituto “Chimera”.

Senza indugiare oltre, Sara lo tirò per la manica, lamentandosi del suo comportamento e di mille altre catastrofi che sarebbero accadute per colpa sua. Sicuramente non potevano definirsi amici, pensò Max, arrendendosi all’atteggiamento deciso di quella ragazza bella e ricca ma anche eccessivamente viziata e snob. Figlia di persone potenti, frequentava i circoli più esclusivi e a scuola era tra le più brave e ammirate. Lei e i suoi amici erano quelli che lui definiva i ‘Perfetti’, al cui vertice c’era Federico, il ragazzo di Sara, figlio del Delegato cittadino, un ‘numero dieci’, bravissimo in ogni materia, eccellente in ogni sport, ottimo pianista, direttore della “Gazzetta dello Studente” e, probabilmente, futuro leader della città di Syrako. Max era nella loro stessa classe e come loro si sarebbe dovuto diplomare quell’anno ma, a differenza dei Perfetti, il suo attuale stato era un ‘numero quattro’ e per essere promossi bisognava giungere almeno allo ‘stato cinque’, e non mancava molto alla fine dell’anno scolastico. La numerazione era data ai ragazzi non solo dall’andamento scolastico, ma anche dal loro comportamento, le amicizie frequentate, la posizione sociale dei genitori. Max, anche se si fosse seriamente impegnato, non avrebbe mai potuto aspirare a più di una sufficienza, giacché i suoi genitori erano semplici scrivani e per ciò che riguardava il suo comportamento e le compagnie frequentate… beh, diciamo che il suo gruppo era formato da ragazzi messi giornalmente in punizione e richiamati almeno due-tre volte al giorno dal monitor domestico. Questo non significava che se la passasse male, anzi, era uno dei ragazzi più popolari della scuola, con la sua aria scanzonata e i modi affascinanti, gli occhi magnetici che variavano dal grigio al verde piene di pagliuzze dorate come i suoi capelli. In ogni modo, un ‘numero quattro’ come lui non era ben visto da una ‘numero nove’, futura ‘dieci’ quale era Sara, che non poteva permettersi una macchia scolastica come quella di arrivare in ritardo alle lezioni con la terribile professoressa di biologia, soprattutto se quel giorno era anche capoclasse.

Si avviarono con passo deciso verso l’edificio scolastico che si ergeva maestoso in cima alla collina e, se non correvano, era perché Sara non riusciva a trascinarsi dietro il compagno. Giunti ai limiti della recinzione, notarono con disappunto che all’esterno sembrava non esserci anima viva e questo poteva significare solamente che tutti erano già in aula. La ragazza si affrettò, intimando a Max di fare altrettanto e, per evitare indugi, lo afferrò per la camicia e lo spinse con forza attraverso il cancello, da cui si accedeva all’area verde antistante alla scuola. Siepi fiorite ornavano il viale d’ingresso. A sinistra si poteva ammirare un delizioso laghetto circondato da panchine e fontane. A destra un largo prato verde su cui gli studenti nelle belle giornate si allenavano nelle discipline sportive previste nei programmi scolastici. Alcuni alberi secolari si stagliavano davanti all’edificio regalandogli ombra. Tutto in quel giardino era ben ordinato e curato, grazie al signor Cemento, il giardiniere della scuola.

Del giardiniere, però, non c’era traccia. Sara e Max si guardarono stupiti e, allo stesso tempo sollevati, perché, sebbene fosse una fortuna non essere visti, era strana l’assenza di Cemento, essendo sempre da qualche parte a sistemare un vaso, interrare una piantina, potare una rosa o semplicemente osservare l’andirivieni di studenti e professori. Cemento era difatti soprannominato dai ragazzi ‘Centralino’, giacché sapeva sempre tutto di tutti e, a volte, anche prima degli interessati. Giunti davanti alla gradinata, si trovarono di fronte i due enormi e deformi leoni in pietra dalle fauci spalancate e le lunghe zanne che concludevano l’atmosfera ridente del parco e preannunciavano quella tetra dell’edificio.

La signorina Piselli, la segretaria, li osservò contrariata dalla sua scrivania. “Dunque?” Chiese, con voce stridula, togliendosi gli occhiali dal naso e poggiandoli sulla scrivania.

Sara si fece avanti. “Siamo spiacenti per il ritardo, ma abbiamo avuto un contrattempo.”

La signorina Piselli sorrise, con aria comprensiva. “Capisco. Sono cose che possono capitare. Tuttavia vi devo portare lo stesso dal Preside, è mio dovere.” Lo sguardo dei due passò in un istante dallo speranzoso al deluso. Lei continuava a sorridere, ma gli occhi brillavano di un che di maligno, o almeno così sembrò a Max.

“Sapete bene che è mio compito far sì che le regole d’ingresso e uscita dalla scuola siano strettamente osservate. Inoltre, devo fare attenzione che non ci siano infrazioni alla morale e alla condotta richieste in questo Istituto.” Fece una breve e teatrale pausa, per poi concludere, inforcando nuovamente gli occhiali e sporgendosi dalla scrivania, con le mani ben piantate sul piano: “Che devono essere irreprensibili.”

“Signorina, mi sono solo slogata una caviglia e il mio amico mi ha aiutato.” Le parole di Sara erano accompagnate da un’inedita nota di sofferenza. “Ci abbiamo messo un po’ a percorrere il tragitto fino a scuola. Non vorrà mica fare perdere del tempo prezioso al Preside per un’inezia del genere, giusto?”

La segretaria smise di sorridere e li osservò a lungo, cercando di mettere a fuoco le due figure. “Beh, forse.” Poi con gli occhi a fessura si concentrò sulla ragazza. “Tu sei una ‘numero nove’, se non ricordo male…” Tossì, riflettendo. “Beh, sì, meglio non disturbare il preside. Che non succeda mai più. Non è certo decoroso vedere due studenti insieme, soli, entrare a scuola in ritardo.” Abbassò il tono di voce e gli si avvicinò attraverso la scrivania. “Chissà cosa si potrebbe pensare di voi! Via, via! Andate!” Si voltò e iniziò a scarabocchiare nervosamente qualcosa su un foglio, senza degnarli più di attenzione. I due si affrettarono ad allontanarsi.

“Non credevo fossi così brava a mentire.” Max rideva, mentre le porgeva garbatamente il braccio per sostenere la sua caviglia. Sara per tutta risposta lo squadrò con un’espressione di rimprovero, facendogli cenno di affrettarsi.

Trascorsero almeno altri dieci minuti prima che, accompagnati dall’eco dei loro passi, ebbero attraversato stanze e androni dagli alti soffitti a volta e le pareti affrescate, salito e sceso più e più volte rampe di scale, percorso lunghissimi corridoi tappezzati dai ritratti di generazioni d’illustri docenti che li seguivano coi loro sguardi burberi, per giungere finalmente in un’anticamera al cui centro c’era una botola. Da essa si accedeva a un cunicolo sotterraneo terminante in una porta blindata, da cui si entrava nell’aula di biologia e chimica che era stata ricavata interamente nella roccia. Il fatto era che molti degli esperimenti che lì si tenevano – alcuni persino di dubbia legalità – avrebbero potuto avere ripercussioni nel resto dell’edificio o, almeno, disturbare, in modi svariati, le lezioni. Le esplosioni o le dispersioni di gas tossici o l’allevamento di specie vegetali e animali impunemente modificati (di cui a volte si perdeva traccia) erano frequenti e il pericolo aumentava se a condurre i vari esperimenti c’era gente incapace o distratta, come – tanto per citare qualcuno – Max e la sua compagnia dei ‘Meno Cinque’. Così erano soprannominati dai ‘Perfetti’, Max, Karim, Zeila, Tambroon e Milo. A dirla tutta, molti altri erano i simpatizzanti del gruppo, tuttavia solo loro era l’onore di essere puntualmente interrogati e di ricevere sempre gli stessi voti: due, tre, quattro e, solo in rari casi, un miracoloso cinque.

Non appena i due entrarono, furono investiti da un insopportabile puzza di uova marce e da ventotto paia d’occhi che, come lancette d’orologio sincronizzate all’unisono, si voltarono verso la professoressa, la quale, impegnata a rimescolare qualcosa, non si era accorta del loro ingresso. Lo fece non appena il singolare silenzio calato nella stanza ne catturò l’attenzione. Sollevato lo sguardo, con la bacchetta che stava usando per mescolare la pozione ancora gocciolante di un liquido viscido e verdastro, si sistemò gli occhiali. Strinse gli occhi per visualizzare meglio le due figure impacciate bloccate sulla porta d’ingresso, diede qualche colpo di tosse e, riconosciuto chi aveva davanti, abbozzò il suo sorriso di battaglia.

“Bene, bene, bene. Vedo che il signor Maximillian ci ha degnato finalmente della sua presenza”. Lo sguardo della professoressa puntava il ragazzo. Fece una pausa, poi continuò scandendo bene le parole. “Arriva giusto in tempo per dirci che cosa ne facciamo di questo decotto” – indicando una casseruola di rame da cui proveniva l’odore nauseabondo – “che, come sicuramente ben sa, abbiamo ottenuto filtrando insieme Gatula Limpida e Fineum Vulgare.” E, melliflua: “Si ricorda, vero, quelle due piantine, una verde e l’altra rossa, che abbiamo colto questa mattina?” Incalzò, con tono improvvisamente duro: “Quando lei, con meticolosa attenzione, strofinava dell’Urtica Urticans sulle orecchie del povero signor Gasper!” E, senza concedere il minimo spazio ai tentativi del poveretto di abbozzare una qualche giustificazione, scandendo ogni singola parola in un crescendo spaventoso, esplose: “Non crede che sia almeno suo dovere scusarsi per questo ingiustificato ritardo? Lei è un incapace, un sovversivo, uno scansafatiche che non arriverà mai a nulla. E anche sciatto: si sistemi la camicia nei pantaloni! Ed è per questo”, concluse, “che oggi, finite le lezioni, andrà in punizione. Potrà rendersi utile lavando i bagni del primo piano!”

Schizzi di pozione verdastra e puzzolente erano sparsi tutto intorno e lo scialle nero, che era solito indossare per difendersi dalle correnti d’aria, era finito a terra, tanto era il tremore causato dalla sfuriata. Max era rimasto immobile davanti all’ingresso quando, prontamente, fu tirato per la manica da Zeila che lo fece sedere con lei nel banco. Sara, rossa in volto, raccolse lo scialle profondendosi in mille scuse poi, ammutolita, sedette vicino a Federico, al primo banco. La professoressa la guardò comprensiva. “Capisco che non è colpa sua, Sara, anche i migliori possono avere problemi con certi elementi”. La voce si era un po’ addolcita. “Lei è ancora giovane, lo comprendo, tuttavia deve abituarsi a trattare con questa gente nel modo più opportuno, poiché nella vita è destinata a grandi cose”. Tirò un sospiro. “Con l’invidiabile posizione sociale che si ritrova! Avrà compiti e impegni di una certa rilevanza, amicizie e contatti d’alto livello. Non vorrà mica avere inutili esitazioni con la… ehm, gestione della servitù, no?”

Ricompostasi, la professoressa si aggirava adesso tra i banchi, sognante, parlando con sussiego dei compiti e meriti delle classi alte e colpendo, ogni tanto, con la bacchetta ‘certi elementi’. “Ci vuole mano ferma, carattere, decisione. Bisogna far capire chi comanda. La superiorità, cari ragazzi, è un talento. Prendete esempio dal caro signor Federico, lui sì che ne farà di strada, lui che è l’orgoglio, il fiore all’occhiello della nostra scuola, che dico, della nostra intera comunità!”

“Con il padre Delegato che finanzia la scuola e la maggior parte degli insulsi esperimenti della professoressa…” Zeila aveva parlato sottovoce, ma era stata udita da Tambroon che rise un po’ troppo rumorosamente.

“Zitti! Silenzio, ho detto! Adesso il nostro caro signor Federico ci aiuterà gentilmente a portare a termine il nostro esperimento, sempre che ne abbia voglia e se non ci saranno ulteriori interruzioni, s’intende”, e guardò di sbieco Max.

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Maria Elisabetta Giarratana
Nessuno conosce la sua età. Pare che abbia svolto così tanti lavori da averli dimenticati tutti. Forse è una strega – dicono – forse un’eterna viandante. Comunque ama scrivere e leggere, viaggiare, la natura, coltivare l’orto, i gatti, lo yoga, il gelato e le sue due figlie, anche se non in questo esatto ordine. Questo è il suo primo libro. Sta scrivendo il seguito, ma ha anche tante altre idee in cantiere.
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