Questi pensieri, che l’avevano tanto attratto in gioventù, per molti anni non si erano più ripresentati. Ma adesso… Forse l’età? Era già vecchio o si poteva ancora considerare di mezza età? Per quanto ne sapesse, il problema della morte poteva riguardarlo solo di lì a molti anni a venire.
E non era la morte a preoccuparlo. Non ne faceva un dramma. Era inevitabile. Essa era la stessa essenza dell’ esistenza: ciò che dava senso ed inizio alla vita.
Perlomeno per tutto il regno animale. E lui, per quanto appartenesse ad una specie nobile, ne faceva parte. Non era mica un sasso. E neppure un angelo o un vegetale. Anche i vegetali, per ciò che ne sapeva, potevano avere i suoi stessi problemi rispetto alla vita o alla morte.
No, non era la morte che lo preoccupava. Da quando quel suo amico aveva iniziato a parlare di reincarnazione, non riusciva a pensare ad altro.
Esisteva la reincarnazione? O era uno dei tanti stupidi appigli ai quali ci si aggrappa per esorcizzare la morte? Inferno, Paradiso Purgatorio… quante cose avevano inventato per non arrendersi.
Esiste la vita dopo la morte? E se esiste come sarà? C’è un’età in cui questi pensieri si fanno ricorrenti? Forse lui ci era già arrivato? Sua madre era morta più vecchia e suo padre anche. Non c’era motivo per pensare che di anni di vita davanti non ne avesse ancora parecchi. Ma c’era quel tarlo ricorrente della reincarnazione. Quel pensiero si ripresentava in continuazione e lo assillava. Si, di vero e proprio assillo si trattava perché non riusciva ad accettarlo, né a scacciarlo.
In sé l’idea poteva anche non essere negativa. Era un modo come un altro (beh no, forse era l’unico modo) per continuare l’esistenza su questa terra. Reincarnarsi in un essere più elevato poteva anche essere auspicabile. Ma in cosa poteva reincarnarsi lui che apparteneva già alla specie più nobile al mondo?
Così pensava, guardando per terra, dove piccoli esseri si trascinavano nel fango. Vedere le forme di vita che popolavano il suolo lo rattristava. Quegli esseri brulicanti e frettolosi, che pareva non si fermassero mai, dove correvano e a che fine?
Anche loro avevano la loro civiltà, si affannavano per procurarsi il cibo, per rendere omaggio ai loro capi, come probabilmente facevano tutti gli altri animali. Ma gli pareva che quello fosse un correre senza scopo. Un girarsi eternamente in tondo conducendo un’esistenza meschina. E – mamma mia! questo lo metteva davvero a disagio- veramente poteva anche lui ritrovarsi in una vita futura, nel corpo di uno di quegli esseri striscianti che non sollevavano mai il capo e il pensiero al cielo?
Era questo che lo faceva veramente avvilire e che non accettava. Ma cosa aveva mai fatto quel suo amico a tirare fuori la storia della reincarnazione. Ma meglio morto! Meglio il nulla eterno che ritrovarsi nelle spoglie di quelle bestie infami.
Così pensava…
Così pensava il corvo dall’alto del suo ramo guardando gli uomini laggiù.
Il Buco nero
Non poteva farne a meno. Non sapeva perché ma non poteva farne a meno.
Da quando l’aveva scoperto, ne era irresistibilmente attratto. Sentiva che costituiva un pericolo incombente, ma non lo disse a nessuno. Non passava giorno che non ci tornasse e non andasse a vederlo.
(…)
Scherzo macabro
-La vedi quella porticina di legno sotto l’edera?
-Certo che la vedo.
-Ecco, appena puoi, vattene da quella parte.
-Ma sono qui per fare l’iniziato! … Non devo andarmene.
-Dammi retta. È chiusa, ma da dentro si può aprire, ha solo un catenaccio a scorrimento. Il lucchetto che lo blocca è aperto.
Da quel lato, la porta di legno era l’unico segno di discontinuità nel lungo muro di pietra. Giorgio lo seguì con gli occhi per tutta la lunghezza. Davanti si perdeva nell’oscurità del parco. Alla sua sinistra, svoltava ad angolo retto dietro la villa verso il cancello d’ingresso. Non voleva andarsene ma, più tardi, si sarebbe pentito di non aver seguito quel consiglio.
(…)
La cava nascosta
Paolo era uguale a lui. E per quello adesso era lì, in quel letto d’ospedale e stava morendo.
Ripensò a quando aveva la sua età e suo padre lo portò per la prima volta a vedere la cava. La chiamavano così, in realtà era una vecchia miniera dove suo nonno ci aveva ancora lavorato, prima che la vena si esaurisse e venisse abbandonata. Restò affascinato da quel posto e, da quel giorno, ci tornò parecchie volte da solo. Gli piaceva percorre quei cunicoli, osservare le pietre, i piccoli animali che si muovevano nelle pozze d’acqua. La fantasia galoppava e, come tutti i bambini, viveva sempre nuove avventure.
Ma quelli erano ricordi ormai lontani. Aveva dovuto crescere in fretta, cercare un lavoro che non c’era, adeguarsi a fare mille mestieri umili per guadagnare una miseria. Poi, un lavoro glielo offrirono. Quello era un posto dove si guadagnava bene e lui accettò.
Quando i capi cercarono un luogo adatto a nascondere “la monnezza”, il pensiero gli volò alla cava: quello era il posto giusto per un lavoro del genere.
(…)
L’isolotto di Margherita
– Fermo, fermo. Non si può passare. –
– Ma devo andare al mercato. Devo vendere i formaggi e le uova. –
– Oggi di qua non si passa. Devono bruciare la strega e il ponte non si può usare. –
Il contadino accarezzò l’asino pensando a quale altra strada avrebbe potuto fare. Sull’isolotto in mezzo al torrente stavano ammassando delle fascine. Al centro, una giovane legata ad un palo. I loro occhi s’incontrarono.
(…)
La settima morte
Io sono morto. Ma voglio raccontare la mia storia perché il mio caso venga studiato ed altri non debbano soffrire quanto ho sofferto io. Vi chiederete: come posso essere qui a raccontare la mia storia? Ecco, questo è il punto. I medici mi hanno sempre detto che non sono morto, perlomeno non definitivamente. Ma io so che non è così. Quello che è vero è che non sono morto una volta sola e so che la prossima sarà la più atroce, la più straziante.
Potrei raccontarvi com’è andata l’ultima volta e perché ho deciso di venire qui, in alta montagna, lontano da tutto, ma è meglio che parta dall’inizio.
Ero in casa. Non ricordo cosa stessi facendo, ma non è importante. Quello che mi successe è che, ad un tratto, non sentii niente sotto i piedi. Il pavimento e le pareti attorno non c’erano e cominciai a precipitare verso il basso. Stavo cadendo. Non so come: ma stavo cadendo! Sono certo di non essermi trovato sul balcone o in un altro posto dal quale possa essere scivolato, eppure la strada e il marciapiede si avvicinavano vertiginosamente. Da quell’altezza non ci poteva essere scampo. Infatti l’impatto fu devastante: sentii le mie ossa rompersi, la carne spiaccicarsi contro l’asfalto, il mio cranio aprirsi ed il cervello uscirne. Poi fu la morte. La mia prima morte.
(…)
Il ricordo del drago
Naturalmente, non fu una cosa facile. Ucciderlo, intendo.
Erano anni che si parlava del drago. Che abitasse nelle terre oltre la montagna. Che fosse potente, terribile, abilissimo. Come potevo non tenerne conto, io, il principe, l’erede al trono? Era diventata la mia ossessione: dovevo trovarlo, affrontarlo, sconfiggerlo. Fin da bambino avevo sentito parlare di lui ed era diventato il mio chiodo fisso.
– Lascia perdere. Pensa a diventare un buon amministratore per il tuo popolo. –
– Ma padre, come possiamo ignorare una minaccia simile ai confini del nostro regno? –
– È proprio questo il punto: lui abita nelle terre di nessuno. Non abbiamo notizie che sia sconfinato nei nostri domini. I nostri sudditi non hanno subito attacchi e i contadini non si lamentano di devastazioni o uccisioni di bestiame. Io sono vecchio e presto dovrai prendere il mio posto. Sono questi i pensieri che dovrebbero girarti per la testa.
Sapevo a cosa si riferiva. Mio padre, il re, ma ancor più la regina, volevano che prendessi moglie, che fossi felicemente sposato e che dessi loro dei nipotini. Prima che la vecchiaia e la morte li privassero di queste gioie, dovevo farlo. Dal momento che ero follemente innamorato della nobile Rosanna, accontentarli, più che un dovere, sarebbe stato un piacere.
Ma prima… prima… un vero principe doveva dimostrare a tutti il suo valore.
(…)
Cervelli in fuga
– Ma lei è pazzo! –
– Veramente io sarei il nuovo psichiatra – risposi.
– Comunque, lei è malato. Ha sicuramente le rotelle fuori posto! –
– Non credo proprio. –
– Le ho sentito dire cose assurde, poco fa, quando parlava alla caporeparto.-
– Stavo solo dicendo che le medicine che prendono i pazienti non vanno bene. Bisognerebbe diminuire le dosi e sostituirne molte. –
– Ah si? –
– So quel che dico. È il mio mestiere. Ci sarebbe un miglioramento generale. Molti potrebbero avere un’assistenza saltuaria a domicilio. Altri potrebbero anche ritenersi guariti. Pensi che bel risultato. –
– Già, diminuire le dosi, cambiare farmaci… e magari dimetterne la metà. –
– Beh, sì. Quelli che non hanno bisogno di cure intensive potrebbero tornare a casa loro.-
– E questo per lei sarebbe un bel risultato. Vede che lei è un cretino?-
– Come, scusi?-
– Lei è un perfetto idiota. Non si chiede cosa andremmo a fare noi, se i pazienti lasciassero l’istituto?-
La misura era colma. Per quanto mi fossi imposto di restare calmo e tranquillo, mi agitai sulla sedia. Dall’altra parte della scrivania, il mio interlocutore era sempre più teso e irascibile: era ora di troncare la discussione.
– Lei qui è il direttore, ma io non le permetto di insultarmi così. Ho capito, di questo lavoro non se ne parla.-
Quando avevo letto quell’inserzione non volevo crederci. Quel posto di lavoro sembrava ritagliato su misura per me. Ero stanco di vivere all’estero, altro che cervello in fuga, sarei diventato un cervello di ritorno. Quella clinica non era molto distante da casa mia. Col mio curriculum e l’esperienza che mi ero fatto presso le cliniche più prestigiose, avevo i requisiti per quel posto. Avrei finalmente potuto tornare ad abitare a casa, riprendere a frequentare gli amici e soprattutto lei. Le avevo promesso che sarei tornato, ma non mi facevo illusioni. Adesso, finalmente, quell’inserzione mi schiudeva nuovi orizzonti.
Non avevo detto a nessuno che sarei andato a quel colloquio. L’avrei detto a cose fatte, una volta firmato il contratto d’assunzione. A lavoro acquisito, avrei organizzato il rientro, facendo una bella sorpresa a tutti.
Prima di alzarmi, guardai la porta dell’ufficio. In piedi, a braccia conserte, due armadi in divisa bianca da infermiere mi stavano squadrando. Mi rivolsi nuovamente al direttore.
– Questo lavoro mi sarebbe piaciuto, ma lasciamo perdere. Me ne vado. –
– Ah lei pensa di andarsene così. –
– Ma certo. Perché? –
– Perché noi non abbiamo bisogno che lei vada in giro a raccontare delle differenze tra le nostre diverse visioni sulle terapie da somministrare.-
– Ma cosa sta dicendo? – sbottai. Mi alzai, rosso in viso dalla collera.
– Dia retta a me, lei è pazzo, si fermi con noi. Le somministreremo una cura adeguata. –
I due infermieri fecero un passo nella mia direzione. Lanciai un urlo altissimo.
– Adesso va anche in escandescenze. Vede, glielo avevo detto io: lei è pazzo! –
Sorella Sorte
Si svegliò all’improvviso. Sentiva una presenza in camera. Guardò la sveglia sul comodino, la toccò per accendere la retroilluminazione: le tre di notte. Non si era mai svegliato prima che facesse chiaro. Non si spiegava il motivo di tanta ansia e apprensione e di quella strana sensazione. Si girò sul fianco destro verso la poltrona. Era troppo buio per vedere qualcosa. Con riluttanza accese l’abat jour e la vide. Una bella signora di mezza età, ancora attraente, se ne stava seduta in poltrona con le gambe accavallate e le mani in grembo. Indossava un vestito di raso giallo lungo fino ai piedi, morbidi capelli biondo scuro le toccavano le spalle. Aveva uno sguardo sereno, ma la cosa non lo tranquillizzò affatto. Era terrorizzato: che ci faceva quella donna lì?
(…)
Mutande temporizzate
Carlini l’aveva sperimentato sulla sua pelle. In questo caso, proprio di pelle si trattava, dato che tra le mutande e il suo corpo non c’era nient’altro. Indossava dei bei boxer con dei disegnini allegri come si usava da tempo. Quando l’elastico si allentò fu un dramma. Non si poteva stare con le mutande larghe che, ogni tanto, scivolavano giù.
– Carlini, Carlini … ma proprio lei mi va a combinare un disastro del genere? –
– Mi scusi signor direttore, mi perdoni, ma io l’ho fatto a fin di bene. –
– Ma cosa dice? lo sa benissimo quali sono le disposizioni. –
Sì, lo sapeva bene. Le disposizioni erano di usare quegli elastici che dopo un certo tempo cedevano, si allargavano, si allentavano. Ma da quando l’aveva sperimentato di persona, quel fatto non gli andava giù.
-Vede direttore, – tentò una debole difesa – siccome l’elastico è integrato nel tessuto, vanno comprate delle altre mutande. Ora il punto è: quanto ci mette l’elastico ad allentarsi? Se è un tempo ragionevolmente lungo va bene ma se dura solo pochi mesi la clientela si lamenta. Io sono certo che i clienti ci premieranno. Le nostre vendite aumenteranno e l’azienda ne avrà un notevole beneficio. –
– Ma ingegnere cosa dice? Cosa dice? Le nostre vendite sono rallentate. Non sono mai state così basse. Lo sa benissimo che se il prodotto dura nel tempo il cliente non ha nessun bisogno di effettuare nuovi acquisti. Comunque, l’amministratore delegato è al corrente di ciò che ha combinato. Ci saranno provvedimenti. –
L’ingegnere aveva effettuato l’acquisto di elastici a lunga durata e aveva dato disposizione che nella produzione venissero usati quelli. Era un settore in cui aveva mano libera. Se ne accorsero solo dopo che grandi quantità di biancheria intima erano ormai state immesse nel mercato.
I provvedimenti furono immediati: licenziamento in tronco.
Qualche tempo dopo, fu lo stesso amministratore delegato a urlare a gran voce: – Chiamatemi Carlini, chiamatemi Carlini. –
La sua segretaria e altri membri dello staff uscirono di corsa da porte diverse. Lui si accese un sigaro mentre guardava il direttore.
– Allora, mi ripeta un po’ cosa aveva detto l’ingegner Carlini nella vostra ultima conversazione. –
Con un certo imbarazzo, il direttore disse: -“Sono certo che i clienti ci premieranno, le vendite aumenteranno e l’azienda ne avrà dei benefici”. –
– Già, dobbiamo prendere atto che aveva ragione: a sei mesi dai fatti, si è verificato proprio questo. Dopo i primi mesi di rallentamento, le vendite sono aumentate al punto che abbiamo esaurito le scorte. A spese della concorrenza che le ha diminuite. La crescita non si ferma, non riusciamo a stare dietro alle richieste, è un successone: la nostra ditta non ha mai guadagnato tanto.
Il direttore si guardò bene dal ricordare che era stato proprio l’amministratore delegato ad andare su tutte le furie, a minacciare provvedimenti disciplinari per tutti e a licenziare Carlini. Lo pensò, ma fece bene attenzione a non proferire parola.
La prima a rientrare fu la segretaria, seguita dal resto della squadra.
– Allora, l’avete trovato? Glielo avete detto che lo promuovo? Che lo nomino direttore generale? Beh, cosa sono quelle facce? –
– Signore, mi spiace ma Carlini non può venire. –
– Certo, ormai lavorerà per la concorrenza. Siete stati degli imbecilli a lasciarvelo scappare. –
– No, non è questo è che … –
– Vada avanti, cosa facciamo gli indovinelli? È andato all’estero?
– No. È che la moglie l’ha lasciato. –
– E allora?
– Non riusciva a trovare lavoro, sa come vanno queste cose, nell’ambiente tutti sapevano e nessuno l’aveva assunto. Lui soffriva di depressione. –
– Ebbene? –
– Si è suicidato il mese scorso. –
– Peccato. Un vero peccato –disse il boss.
Lo disse con un’espressione molto contrita e solenne: tutti pensarono che fosse realmente dispiaciuto per la sorte del poveretto. Lui pensava: un vero peccato. Avrebbe potuto farci guadagnare ancora di più.
Barone
– Un giorno mio padre lo portò giù alla fiumara e lo uccise. –
– Come lo uccise? – chiesi, sorpreso – ma non era un cane bravo e intelligente? –
-Il più intelligente che io abbia visto. –
Mio padre si spostò leggermente per sedersi più comodo sul divano. Nonostante la curiosità, non gli feci altre domande. La malattia che lo stava consumando lo indeboliva ogni giorno di più. Nessuno gli aveva detto nulla. Sul tumore maligno, a quel tempo, si stendeva un velo di pietoso silenzio.
– Barone era un cane eccezionale – continuò. -Una volta eravamo in campagna, io e mia sorella Giuseppina, la più piccola. Lui uccise un serpente. Lo teneva in bocca, penzoloni. Era molto grosso. La testa era grande come quella di un gatto.
Che serpente poteva essere? – pensavo -. Probabilmente mio padre era piccolo e a lui appariva più grande di quel che era in realtà. Non potevo credere che mio nonno avesse fatto una cosa del genere. Ma, dopo tutto, cosa sapevo io di mio nonno? Non l’avevo mai conosciuto e per me era solo quel viso severo, coi baffi, che mi guardava dalla foto sulla cassettiera. Una di quelle foto ritoccate col colore, dentro ad una cornice che imitava la madreperla. In realtà qualcos’altro sapevo. Era stato in America: in Argentina, come tanti altri emigranti italiani a cercare fortuna. Ma purtroppo, al ritorno, la banca dove aveva messo i soldi era fallita lasciandolo sul lastrico.
(…)
La Trattativa
Lo smartphone s’illuminò. Prima che suonasse, Hans lo prese e toccò “rispondi”.
– Allora? Che cavolo stai aspettando per chiamare? Avevate appuntamento alle nove: sono le tredici e venti. Lo sai che voglio sapere come stanno le cose. Allora? Lo stronzo ha firmato? –
Hans si allontanò dal tavolino e dal suo ospite greco. Si spostò sulla terrazza del bar, il più lontano possibile. Il suo capo aveva parlato in olandese, lingua che difficilmente l’uomo poteva comprendere, ma urlava e il tono era inequivocabile, meglio non farsi sentire.
– Allora, Hans? Sei diventato sordo? –
– Capo, purtroppo, per adesso… insomma, non ha ancora accettato. –
– Come non ha accettato? Lo stiamo coprendo d’oro. Cos’altro vuole? –
– Beh… sì, l’offerta è senz’altro generosa. Così ha detto, però… –
– Però cosa? Però cosa? Gli stiamo riempiendo il culo di soldi. Cosa vuole di più? –
Hans non sapeva cosa rispondere.
– Allora, hai perso la parola? L’aria della Grecia ti fa male? –
(…)
Se guarisce lo riprendo
– Ancora caduta dalle scale! –
– Certo, cosa vuoi che dica sul lavoro? Che è stato lui a menarmi? –
– Non puoi andare avanti così. Mollalo. –
– Sei matta? L’unica volta che ne ho fatto cenno mi ha detto che mi avrebbe ammazzato. E sai benissimo che è capace di farlo. –
– Povera Sonia, non vorrei essere nei tuoi panni. –
– E pensare che avresti dovuto esserci. Era a te che faceva il filo. –
– Già, ma tu sei stata molto più brava di me a sedurlo. –
– Non l’avessi mai fatto. –
Sonia riagganciò il telefono e andò in bagno. Si apprestava a incipriarsi, ben sapendo che non sarebbe riuscita a nascondere il blu che le incorniciava l’occhio sinistro.
Sul lavoro, alla faccenda della caduta dalle scale non ci credette nessuno. Ma nessuno le fece domande indiscrete. Sonia sapeva che, ormai, tutti la compativano.
(…)
Il teschio
Mi guardava, dalle sue orbite vuote, da sopra il camino.
Per quanto tempo era rimasto lì?
Mia madre era disperata. Solo adesso capisco quello che le ho fatto passare. Per lei, così superstiziosa, doveva essere stato terribile convivere con un teschio in casa.
Oggi ho incontrato Giulio. Lui si ricorda benissimo di quella storia e, come altre volte, mi invita a raccontarla a chi non la conosce. Io non me ne ricordavo o, inconsciamente, preferivo rimuoverla. Giulio, credente da sempre, forse ha visto le cose da un punto diverso dal mio. Certamente anche mia madre, credente e superstiziosa come solo certe donne meridionali sanno essere.
Certo, il fatto di aver tolto un teschio dal suo giaciglio naturale, cioè la tomba dove riposava, ai più può apparire cosa di non ordinaria quotidianità.
(…)
i.lorettamaria
Originale e divertente. L’autore esprime capacità di collegare la fantasia con la realtà, immergendo il lettore in un mondo fantastico catturandone l’attenzione dall’inizio della storia sino alla fine del racconto.
Vladimiro Celanti (proprietario verificato)
Incuriosisce il titolo, poi con Fra Dolcino sicuramente avrà risvolti intensi, non vedo l’ora che arrivi
Ottavio Albis (proprietario verificato)
Condivido pienamente il commento precedente. L’originalità dei racconti, uniti ai riferimenti alla nostra società attuale mi fanno pensare ad un moderno E.A.Poe.
Voto 9
francy9696
Questo libro mi ha colpito molto, non solo per l’originalità dei vari racconti, ma soprattutto per l’abilità dello scrittore nel trascinare il lettore ogni volta all’interno di una realtà differente, con situazioni molto diverse tra loro, reali e fantastiche, con riferimenti più che azzeccati sulla nostra società. Consiglio questo libro a tutte le fasce d’età. VOTO: 9.5