Alzò il cuscino del sedile della poltrona e prese in mano la pipetta di vetro con il sacchettino di plastica contenenti i cristalli di metanfetamina. Tornò in bagno, chiuse la porta e fermò l’uscita dell’acqua. Si adagiò lentamente nella vasca e appoggiò il sacchettino e la pipetta sul bordo. Prese un cristallo e lo inserì nella pipetta. Scaldò l’estremità con l’accendino e prese una lunga boccata.
Appoggiò la testa al bordo della vasca e lasciò che la sua mente viaggiasse.
Mentre ripugnanti espressioni facciali si disegnavano mutevoli sul suo volto, le sue pupille ormai completamente dilatate avevano visioni di enormi occhi che lo fissavano attraverso il riflesso dell’acqua. Le bolle nella vasca erano diventate degli inquietanti bulbi bianchi e vitrei. Lo guardavano, lo giudicavano. Poteva sentirne i pensieri, udirne le risate nascoste e percepirne le intenzioni malvagie. Quei globi oculari si sollevavano e gli giravano intorno, come un piccolo sistema solare, di cui lui ne faceva da Sole. Cercava di scacciarli come avrebbe fatto con delle mosche fastidiose, ma invano. Non andava bene, per niente. Lo sguardo gli cadde sulla finestra e vide anche lì due enormi occhi perfidi ad osservarlo. Dallo specchio appannato, attraverso la passata di mano che aveva fatto prima, una moltitudine di piccoli occhietti rossi erano puntati su di lui. Allucinazioni o realtà, non riusciva a distinguere le differenze. Era davvero in bagno o in una prigione? E la vasca in cui era immerso era colma d’acqua o di sangue? Chiuse gli occhi. Ora poteva sentire solo le risatine sibilline nella sua testa. Riaprì gli occhi. Era in una vasca piena d’acqua, ma gli sguardi attorno a lui non se n’erano andati. Uscì dalla vasca a tentoni, scivolando sul bordo e rovinando a terra. Era rivolto a faccia in su, con la schiena poggiata al pavimento freddo e duro. Si mise in ginocchio: voleva fuggire da quella stanza, non sopportava la presenta di tutti quegli occhi che lo guardavano. Sapeva che erano gli sguardi della gente che ogni giorno lo giudicava, lo classificava come reietto e appestato di una società che non lo desiderava. Spasmi alle mani e ai piedi gli impedivano di alzarsi e camminare, quindi, trascinandosi come uno storpio, raggiunse la maniglia della porta. Perché in presenza di Rose lo stupefacente non aveva avuto quell’effetto? Era parso più lucido e padrone del proprio corpo e della propria mente, mentre ora vagava in un limbo di allucinazioni che lui, però, cominciava a riconoscere come tali.
Dentro di sé sapeva che quegli occhi erano frutto della sua mente. Ommetafobia, lo aveva letto da qualche parte. Gli occhi lo perseguivano, a volte, anche mentre dormiva. Ancora nudo e fradicio arrancò verso la camera da letto. Cera una coperta ripiegata su una sedia. La afferrò e se l’avvolse. Biascicava frasi che nemmeno lui comprendeva. Era capitato altre volte di avere delle allucinazioni, ma mai così tanto terribili. Soggiogato da un'insopportabile nausea, che proprio non voleva saperne di trasformarsi in vomito, Ryan si spostò in un angolo del salotto e lì vi rimase insonne fino al mattino.
La sua mente stanca stava ormai smaltendo gli effetti dell'allucinogeno quando si accorse che tre uomini erano entrati in casa sua e si trovavano di fronte a lui. Ne poteva vedere solamente le scarpe. Un paio di lucide scarpe nere, un paio di scarpe da basket bianche e rosse e un paio di scarponcini marrone chiaro. le loro punte convergevano verso di lui. Sentiva indistintamente le voci dei proprietari di quelle scarpe, ma non le riconosceva. Non sapeva da quanto tempo erano lì e che cosa volessero. Sinceramente, si disse, non si era neppure reso conto che erano entrati in casa. Sperò che non avessero forzato la serratura della porta d'ingresso: non voleva spendere soldi a ripararla. L'uomo con gli scarponcini s'inginocchiò e lo liberò della coperta, gettandola in un angolo.
«Cristo, è sporca di vomito!», disse qualcuno.
«Ed oltretutto lui è nudo», commentò qualcun altro.
«Marshall, va' di là e trovagli qualcosa da mettere. Io da Satterwhite, ridotto così, non ce lo porto».
«Va bene.»
L'uomo con le scarpe da basket si girò e se ne andò.
Uno dei due rimasti lo sollevò e lo fece sedere sul divano. Lo dovevano tenere entrambi, altrimenti rischiava di collassare a terra. Ryan non aveva nemmeno la forza di alzare lo sguardo, si era ormai arreso e stava lasciando che gli intrusi facessero di lui quello che desideravano. Un paio di ceffoni lo colpirono, prima da destra e poi da sinistra.
«Non serve a niente», commentò quello che aveva dato l'ordine a Marshall.
Marshall: quel nome gli ricordava qualcosa e, fiocamente, gli si formò in mente l'immagine dell'uomo di colore che aveva conosciuto il giorno prima.
«So io cosa fare», proseguì l'uomo.
Ryan non fece in tempo a rendersi conto di essere effettivamente ancora nudo che una secchiata di acqua fredda lo colpì in pieno volto, facendolo scattare in piedi, furioso.
«Chi siete? Che ci fate in casa mia? Cosa volete?», gridava dimenando le mani, fissando però il pavimento con gli occhi spalancati. Tutti e due gli uomini lo afferrarono e lo costrinsero a sedere nuovamente.
L'effetto della droga svanì completamente nel giro di dieci minuti, durante il quale Ryan ricevette in faccia un asciugamano preso dal cassetto del bagno, insieme all'ordine di asciugarsi e vestirsi. Quando, finalmente, poté camminare senza inciampare su sé stesso, Ryan raggiunse la cucina, seguito dai tre uomini. Si preparò un caffè istantaneo e si avvicinò al tavolo. Gli altri si sedettero con lui.
Alla sua sinistra c'era Thomas, alla sua destra, Marshall, mentre di fronte un uomo che Ryan non aveva mai visto, il quale lo fissava attentamente, nascondendo la bocca con le mani congiunte.
Era un uomo dal viso triangolare, con la pelle pallida e senza imperfezioni. Aveva degli occhi grandi e rotondi, coperti da un paio di sopracciglia spesse e regolari, mentre le labbra erano una sottile fessura orizzontale sotto un paio di baffetti. Il suo sguardo era inquisitorio e Ryan preferì non incrociarlo una seconda volta.
Fu Thomas il primo a parlare:
«Trovarti non è stato difficile.»
«Cosa volete da me?», chiese Ryan, sorseggiando dalla tazza.
«Il nostro capo ti vuole parlare», rispose Thomas.
Ryan voltò lo sguardo in direzione dello sconosciuto.
«Siete entrati in casa mia senza permesso. Loro almeno li conosco, ma tu?»
«Mi chiamo Dennis Bailey e lavoro per la persona che vorrebbe incontrarla.»
«E se io rifiutassi?», domandò Ryan.
«Andiamo, Ryan…» mormorò Marshall, ma con un cenno della mano, Dennis lo zittì.
«Signor Butler, non è nella posizione di fare ulteriori domande. Meno sa e meglio è. Quindi si vesta in fretta e venga con noi. Non glielo dirò una seconda volta.»
Ryan si alzò, mise la tazza vuota nel lavandino e, con l’asciugamano avvolto intono alla vita, si diresse in camera da letto e in men che non si dica si era vestito.
Mentre si dava una sistemata ai capelli, Dennis entrò nella stanza.
«Bel completo», commentò.
«Preferisco essere presentabile, almeno all’apparenza», rispose Ryan.
«Com’è che un disgusto umano come lei, che vive in un appartamento lercio e sputa sulla sua vita tra alcool, sigarette e droga, ha un armadio così elegante?»
«Colpa del mio vecchio lavoro.»
«Colpa?»
«Quell’armadio è l’unico ricordo dell’uomo che ero. Ogni giorno lo apro e mi accorgo che man mano che il tempo passa sono sempre più diverso.»
«La vita è tiranna con tutti noi comuni mortali. Ma ha fatto bene a tenere quei vestiti. Al signor Satterwhite non piacciono gli sciatti»
«Il signor Satterwhite?» domandò Ryan.
«L’uomo per cui lavoro. Si chiama Samuel Satterwhite e non ama particolarmente chi non ha un minimo di decoro». Dennis si voltò per tornare in soggiorno. «E nemmeno i ritardatari», aggiunse, prima di lasciare la stanza.
«Sono pronto» disse Ryan, dopo essersi allacciato le scarpe. I quattro uscirono quindi dall’appartamento. Prima di chiudere a chiave la porta, Ryan buttò un’occhiata all’orologio appeso alla parete: erano le undici del mattino.
«Come avete fatto a trovarmi?»
«Non ha importanza» rispose brusco Dennis.
«Dove mi state portando?»
«Non ha importanza.»
Dennis si voltò e lo fissò severamente: «Sono stato gentile perché Thomas e Marshall garantiscono per lei, ma non creda che la mia pazienza possa durare ancora a lungo. Più parla, più male potrei farle.»
Dopo aver ripreso a scendere le scale per un paio di gradini, Dennis si fermò nuovamente e si girò ancora una volta a guardare Ryan.
«E metta in bocca una di queste. Ha l’alito che puzza di vomito», disse estraendo dalla tasca interna della giacca una scatoletta di metallo e offrendo a Ryan una mentina.
Scendendo in strada, Ryan vide che parcheggiata di fronte a lui c’era una macchina che conosceva: la Chevrolet Impala verde di Thomas. I due fratelli salirono davanti, Thomas alla guida.
«Tu vai dietro», disse Dennis rivolto a Marshall, costringendolo a scendere e sedersi accanto a Ryan.
Dopo che tutte e quattro le portiere furono chiuse, l’auto partì per una destinazione a Ryan sconosciuta.
«Metta questi», ordinò Dennis a Ryan, estraendo dal vano porta oggetti un paio di occhiali da sole. Ryan li prese e li indossò.
«Ma non ci vedo!», esclamò.
«Questo perché non deve sapere dove la portiamo. Un cappuccio in testa avrebbe dato troppo nell’occhio, non crede?»
Nonostante non vedesse nulla per colpa degli occhiali, Ryan poteva percepire le curve e la presenza di semafori rossi. Dopo un po' che la macchina viaggiava, però, dovette ammettere di essersi perso e non sapere dove si trovasse. L'auto guidò per una buona mezz'ora, durante la quale nessuno parlò. Ryan cominciava a sentire un certo languorino quando giunsero a destinazione. Venne aiutato a percorrere un tratto a piedi fino a giungere l'interno un edificio. Qui gli dissero che poteva togliersi gli occhiali e Ryan ubbidì. Si trovavano nell'ingresso senza finestre di un fabbricato da poco ristrutturato. Attraversarono l'ampio corridoio di fronte a loro e raggiunsero una porta accanto a dei gradini che portavano ai piani superiori e ad un ascensore. Entrarono dalla porta e scesero una rampa di scale metalliche, raggiungendo il piano interrato. Ryan non riusciva a captare alcun indizio che potesse suggerirgli la sua posizione. In fondo alle scale c'era un uomo di guardia ad una porta di ferro che si fece da parte alla vista dei quattro uomini. Diede due colpetti alla porta, che rimbombò. Un istante dopo si udì lo scorrere di un catenaccio e la porta venne aperta. Dall'altra parte c'era un altro uomo che faceva la guardia dall'interno. Oltre lui, un lungo corridoio illuminato da una serie regolare di neon che si sviluppava per una decina di metri. Percorsero anche quelli e raggiunsero una porta azzurra antincendio. Superata la porta si trovarono in un ampio parcheggio sotterraneo. Mentre i quattro uomini camminavano, i loro passi echeggiavano nel silenzio. Si fermarono dinnanzi alla porta di quella che, molto probabilmente, in origine era la lavanderia del magazzino dove si trovavano. Dennis si girò a squadrare Ryan dalla testa ai piedi e gli diede una rapida sistemata alla giacca.
«Deve entrare da solo», gli disse.
«Non so nemmeno perché mi trovo qui», rispose Ryan, scrollando le spalle.
«Non si preoccupi, il signor Satterwhite vuole solo parlare.»
Ryan era piuttosto teso, mentre Dennis bussava alla porta.
Qualcuno la aprì dall'interno e Ryan entrò.
Si trovava in un piccolo ufficio, spoglio della maggior parte dell’arredamento necessario per una qualsiasi attività. Le pareti fredde, pallide e ammuffite, lasciavano intendere che quella stanza veniva usata di rado, forse per interrogatori o affari loschi. In fondo alla stanza c’era un tavolo con sopra un portatile e dietro un uomo che poco centrava con il posto nel quale si trovava. Era seduto su una poltrona di pelle nera piuttosto comoda, indossava un completo elegante grigio scuro, con una cravatta sartoriale viola a rombi, mentre al polso si lasciava notare un orologio dorato. Mescolava distrattamente un mazzo di carte mentre osservava Ryan studiandolo dalla testa ai piedi.
Anche Ryan lo stava osservando: era un uomo di colore di circa cinquant’anni, calvo, con un orecchino d’oro all’orecchio destro e una leggera ombra di barba. Accanto a lui era arrivato l’uomo che aveva aperto la porta. Si posizionò alle sue spalle, mise le mani dietro la schiena e rimase fermo e in silenzio.
L’uomo seduto indicò una sedia di fronte a lui e Ryan vi si sedette.
«Il signor Butler, suppongo. Mi presento, mi chiamo Samuel Satterwhite.»
Ryan si limitò a fissarlo.
«La stavo cercando da parecchie ore, signor Butler.»
«Posso sapere perché?»
Il signor Satterwhite sospirò e poggiò i gomiti sulla scrivania, continuando a mescolare il mazzo di carte.
«Vede, un paio di giorni fa è accaduto un fatto. Quando ne sono venuto a conoscenza ho subito pensato che si trattasse di una cosa grave. Successivamente, però, i miei uomini hanno fatto delle ricerche e hanno scoperto delle cose interessanti. Non starò a dilungarmi in inutili dettagli, ma vorrei soltanto dirle che sono in debito con lei, signor Butler.»
A Ryan non era ancora chiaro a quale fatto si stesse riferendo in signor Satterwhite, così gli domandò gentilmente: «Potrebbe essere più chiaro?»
«Sono sicuro che queste immagini le chiariranno tutto», fu la risposta. Il signor Satterwhite voltò il computer portatile verso Ryan e fece partire un file video.
Il filmato era di una telecamera di sorveglianza in un bagno pubblico. L’inquadratura proveniva da un angolo in alto della stanza e riprendeva le porte delle quattro cabine.
«Sfortunatamente, il filmato è sprovvisto di audio», disse il signor Satterwhite.
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