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La voce di Olga

La voce di Olga
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Consegna prevista Febbraio 2024
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Durante i mesi del lockdown iniziai a sentire la voce della poetessa leningradese Olga Bergolts. Proprio la sua voce durante gli 871 giorni dell’assedio di Leningrado aveva fatto miracoli: ogni giorno lei parlava alla radio, infondendo coraggio ai suoi concittadini stremati
Mi raccontava la sua vita, senza seguire l’ordine cronologico, ma semplicemente assecondando il flusso dei ricordi. E così venni a sapere della sua infanzia al tempo della Rivoluzione d’Ottobre, del primo marito, della sua gioia nel diventare madre. E poi tutti i dolori: la prigionia negli anni del Grande Terrore, la perdita delle due figlie, il baratro dell’alcolismo. Mi raccontò di essere stata una fervente comunista, ma di avere capito presto quanta menzogna vi fosse in quel regime.
Ad un certo punto, spinta dal bisogno di vedere i suoi luoghi, mi recai a San Pietroburgo in un viaggio più immaginario che reale. Qui ebbi la conferma del fatto che tra realtà e fantasia intercorrono rapporti complicati.

Perché ho scritto questo libro?

Mi ha sempre interessato capire in che misura la Storia influenzi le storie dei singoli individui. Questo libro è il frutto del mio interesse per la poetessa Olga Berggolts: leggendo i suoi diari, mi ha sorpreso come in lei convivessero una forza estrema ed un’altrettanta estrema fragilità. Ad un certo punto ho iniziato a sentire la sua voce e a conversare con lei, quasi fosse una mia amica che vive lontano. Le voci superano le distanze temporali e raccontano storie.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Non ricordo dove e quando incontrai per la prima volta il suo nome: Olga Berggol’ts.

In un primo momento pensai che si trattasse di un’ebrea russa, ma una rapida consultazione della rete mi fece ricredere e mi rivelò le sue origini tedesche o baltiche. Prima di essere una persona realmente vissuta, Olga fu per me una voce, una voce che mi giungeva nelle situazioni più disparate della mia vita, ma quasi sempre in quelle di difficoltà, di smarrimento. Perché di una cosa ero certa, la sua vita era stata infinitamente più difficile della mia. La voce di Olga era capace di assumere tonalità diverse, di farsi dolce come il sussurro di una madre amorevole, imperiosa come il richiamo di una maestra o pacata come il conversare di un’amica comprensiva. Iniziai a cercare materiale su di lei, acquistai prima una biografia, poi un’altra, andai a vedere la facciata dell’edificio in cui aveva vissuto per molti anni, mi recai sulla sua tomba a San Pietroburgo. Ad un certo punto la voce si trasformò in un corpo, in una silhouette che camminava al mio fianco ogni volta che ero colta da una vertigine e tendeva la mano per sostenermi, in una testa posata sul mio cuscino quando i fantasmi notturni mi impedivano di dormire.
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Durante i mesi del lock down o dell’autoisolamento, come lo chiamano i russi, il colloquio con Olga si fece molto più intenso: le frontiere con la Russia erano chiuse, io non sempre riuscivo a comunicare con i miei amici russi, a volte temevo addirittura che la cortina di ferro fosse ricomparsa. Ed ecco giungermi la sua voce, a tratti soave, a tratti imperiosa, ma sempre con quell’inflessione pietroburghese, quella pacatezza che è segno di stile e di misura.

Olga, morta oltre quaranta anni prima, era per me più reale e presente di tanti vivi, il dialogo con lei era costante, a lei andava il mio pensiero ogniqualvolta la vita mi sembrava un fardello troppo pesante, ogniqualvolta avrei voluto dire: “Abba padre, allontana questo calice da me”. E spesso Olga e io ci ritrovavamo sedute davanti ad una bottiglia di vino, e le nostre voci si facevano biascicate nello stesso momento, e ci guardavamo negli occhi divenuti rossi come quelli dei conigli. Quanto più ubriaca era, tanto più il suo desiderio di raccontarmi la sua vita assomigliava ad un fiume in piena. Io la ascoltavo, cercando di non perdere il filo perché il suo modo di narrare ricordava la struttura di un albero secolare: ogni ramo si biforcava in altri rami, vi erano alcuni rami principali e tanti altri secondari e non era certo facile seguirla quando dopo una digressione durata anche mezz’ora ritornava al tema fondamentale. Parlava con me perché ero disposta ad ascoltarla, ma avrebbe raccontato la sua storia a chiunque perché era consapevole del fatto che la sua biografia travalicava la dimensione del personale, assurgendo a storia di un popolo, di un secolo grondante di sangue. Lei che per la stele del cimitero Piskarevskij di Leningrado aveva coniato l’epigrafe: “Nessuno è dimenticato, niente è dimenticato”, temeva l’oblio dei posteri come la peggiore sventura, perché ciò che è dimenticato può ripetersi in qualsiasi momento, e lei aveva assistito a troppi orrori.

Olga non ebbe mai un’alta considerazione del proprio dono poetico: una volta, quando aveva solo 20 anni e la vita non l’aveva ancora maltrattata, si era paragonata ad un piffero di pietra fatto a forma di anitra che al giungere della primavera intona canzoni semplici. Eppure la sua voce sostenne un’intera città nei 871 giorni dell’assedio, la sua voce che fuoriusciva dagli oltre 1500 altoparlanti installati nelle strade di Leningrado.

Ignoro perché quella voce sia giunta anche fino a me, perché tra vivi e morti si stabilisca a volte una “corrispondenza d’amorosi sensi” che annulla le limitazioni spaziali e temporali e riconduce tutti in un unico spazio, fatto di ricordi ancestrali e di empatia.

2023-05-26

Aggiornamento

Questa era Olga da giovanissima.

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Francesca Legittimo
Sono nata a Bolzano nel 1969. Ho studiato a Venezia Lingue e Letterature Straniere. Ho vissuto per alcuni anni a Mosca. Insegno lingua russa all’Università IULM di Milano. Sono l’autrice di una serie di manuali di russo e di un saggio intitolato “La sfinge russa” (Hoepli editore).
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