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L’alba bianca

L'alba bianca
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Consegna prevista Gennaio 2024

L’alba bianca è un medico nazista che porta con sé tanti segreti e informazioni scientifiche che tiene annotate gelosamente in un quaderno. Nel gennaio 1947, a poca distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale, decide, protetto da un sistema ben organizzato, di raggiungere Genova e da lì il Sudamerica. La sua fuga però, pare non essere così semplice a causa del maltempo e di persone che lo ostacoleranno lasciando dietro di sé troppe tracce del suo passaggio. Alle calcagna dell’Alba Bianca, servizi segreti americani e italiani e il tenente Covili che si trova suo malgrado a gestire una situazione delicata nel suo paesino di montagna che sta cercando di risollevarsi dai danni della guerra. Sotto mentite spoglie di prete, l’Alba Bianca, cercherà in tutti i modi di raggiungere quella nave che lo sta aspettando per portarlo via e con sé tutti i suoi segreti e appunti. Ce la farà il tenente Covili ad aiutare i servizi segreti a rintracciare il medico nazista?

Perché ho scritto questo libro?

Ho iniziato a scrivere per quelli amici che mi dicevano non aver tempo per leggere. Li ho trovati più di una volta in macchina a leggere le pagine dei miei personaggi, mentre mi aspettavano per un aperitivo. Spero accada anche con questo romanzo.

ANTEPRIMA NON EDITATA

GIOVEDI’ 2 GENNAIO 1947

La moto sbandò sul manto innevato, sollecitata dall’ennesima accelerazione. Temperature basse e tempeste di neve avevano paralizzato il nord Italia, arrestando ogni sorta di attività di un Paese che stava cercando di sollevarsi dal secondo conflitto mondiale. Solo i trattori erano in azione per ripulire il passo della Cisa e l’Alba Bianca, questo era il suo nome in codice, lo sapeva benissimo. Ne approfittò per oltrepassare quel tratto di Italia in moto, evitando di prendere il treno, come gli aveva consigliato don Davide Bruseghin.

Da alcune ore era partito da Verona attraversando la pianura mantovana, quella parmense e si era direzionato sul passo della Cisa come gli aveva indicato il sacerdote veronese. Avrebbe dovuto raggiungere Pontremoli dove lo stavano aspettando dei monaci francescani, avvisati dallo stesso don Davide. Così dopo ore di freddo e intemperie, iniziò quello che era il suo ultimo tratto di strada. Seppur addestrato a sopportare condizioni estreme, lui era un ex capitano del Terzo Reich, il freddo iniziò a fare spazio nel suo fisico atletico. Il ghiaccio non facilitò la guida del tedesco che seguiva la strada con difficoltà. Passo della Cisa. Il cartello quasi del tutto coperto dalla coltre bianca, rincuorò l’uomo che per l’ennesima volta diede gas. Girò la manopola dell’acceleratore e la moto, sembrò spegnersi. Sobbalzò per un attimo. Scalciò come un cavallo che vuole liberarsi del proprio fantino, ma si riprese di colpo sprigionando tutta la sua potenza. A fatica riuscì a controllarla. Una curva a destra, poi un’ altra a sinistra. Il fascio circolare di luce del fanale anteriore, tagliava il velo della notte sceso da qualche ora e indicava la strada al motociclista. Scalò una marcia per avere più aderenza sull’ asfalto e diede ancora gas al motore che iniziò a bofonchiare. Tossì. Urlò ancora una volta poi si spense. Seduto a cavalcioni, l’Alba Bianca cercò di sfogare la propria rabbia sul pedale di accensione.

Non poteva permettersi un attimo di ritardo, doveva raggiungere Genova entro sei giorni. A causa del maltempo e della sua irruenza, il motore decise di fermarsi. Forse le candele si erano bagnate e l’ufficiale non sarebbe più riuscito a far ripartire quel motociclo. Si issò per l’ultima volta sul pedale di avviamento. Provò ancora una volta a spingere con tutta la sua forza, ma non ci fu nulla da fare. Tentò l’ultima soluzione possibile. Al fianco del motociclo, accompagnò il mezzo in un’inversione di marcia, si lasciò andare sulla strada in pendenza, e cercò di riavviare il motore. Ma anche in questo caso la moto non diede nessun segno di vita. Ora il buio avvolgeva totalmente il fuggitivo. Dannata moto! Al diavolo! Disse fra sé e sé calciando il mezzo che si adagiò sul quel tappeto soffice di neve. Si guardò intorno. C’era solo lui, la strada e la moto adagiata per terra. Nessun segno di civiltà. Doveva assolutamente trovare un rifugio per passare la notte, lì non sarebbe riuscito a sopravvivere. Da ore era sotto a quella tempesta di neve e il freddo lo avrebbe sicuramente ucciso. Slacciò lo zaino dalla moto e se lo issò in spalla. Si avvicinò al serbatoio e svitò il supporto in ferro con la punta del coltello. Ci mise alcuni minuti, ma riuscì a staccare il piccolo contenitore metallico contenente ancora della benzina che avrebbe utilizzato come combustibile.

Prima di partire pensò di spostare la moto dalla strada principale. La sollevò estraendola dal fango e dalla neve e portata fino al ciglio della strada, la lasciò scivolare nella boscaglia. Il rumore dei rami che si rompevano al passaggio del motociclo, fu ammortizzato dalla neve che smorzò l’eco. Assicuratosi che non fosse possibile notarla dalla strada, si incamminò lungo la via principale. Era abituato a camminare per ore intere, lui era stato un soldato scelto e ore di esercitazioni lo avevano temprato alle intemperie e alla fatica. Ma il freddo, piano piano, lo avrebbe ucciso e lui lo sapeva. Così dopo aver percorso diversi chilometri, pensò di scaldarsi con un infuso di aghi di pino. Il gusto era terribile, ma lo avrebbe scaldato e aiutato a superare la notte. Si allontanò dalla strada lasciandosi andare lungo la pendenza del bosco che costeggiava la via principale. Afferrò un ramo dai pini più vicini alla strada, sondò il terreno e fece il primo passo verso valle. Lasciata la prima frasca, afferrò la seconda, poi la terza e così fece fino a raggiungere un pianoro tra la folta vegetazione. Da quel punto sentì in lontananza lo scroscio di acqua che correva. Si mosse seguendo quel rumore che in pochi minuti si materializzò davanti agli occhi del tedesco. L’acqua gelida correva veloce seguendo la pendenza del proprio alveo e portava con se frammenti di neve ghiacciata.

L’Alba Bianca capì di avere tutto l’occorrente per prepararsi la bevanda calda. Fece cadere la neve da un ramo, lo spezzò e lo posò per terra. Ne staccò un secondo da sovrapporre al primo e vi adagiò lo zaino da cui estrasse un pentolino di latta dal fondo della sacca. Si avvicinò alla riva del ruscello e prese alcuni sassi. Li posò a terra per farne un cerchio e al centro preparò un piccolo rovo.  Vi versò la benzina e con l’acciaino accese il fuoco. Attese fino a che la fiamma non divenne stabile e poi vi adagiò il pentolino nel quale aveva raccolto un po’ di acqua e vi immerse gli aghi di pino. Approfittò di quel tepore che si alzava dal piccolo focolare, per scaldarsi le mani. Bollendo, l’acqua, iniziò a tingersi di un verde chiaro. Sollevò lo scodellino, ancorando due legni sotto il bordo della stoviglia, e lo adagiò qualche secondo nella neve, in modo da poterlo impugnare. Il gusto lo rabbrividì, ma il tepore diede un attimo di sollievo all’ufficiale tedesco. Seduto sulle frasche dei pini si era coperto le spalle con una mantella imbottita e ingurgitava a piccoli sorsi trattenendo con entrambe le mani la ciotola. La nebbia copriva la sommità degli alberi impedendo al tedesco di vedere oltre qualche metro. Erano lontani i giorni durante i quali poteva sorseggiare tazze di caffè italiano che beveva nel campo di concentramento. Ora, solo in mezzo a un bosco con mezzo metro di neve, doveva esclusivamente pensare a sopravvivere. La bevanda fece effetto e ripartì costeggiando il piccolo rivolo. La neve sembrava dare un attimo di tregua al giovane fuggiasco, così come la nebbia che nel punto che raggiunse iniziò a scemare fino quasi a scomparire.

La visuale ora era molto più nitida e capì che la sorte era dalla sua parte quando da dietro a un’insenatura del fiume vide salire in cielo il fumo da un comignolo. La lingua grigia si faceva spazio tra i fiocchi e saliva in alto. Iniziò a camminare in equilibrio tra i sassi che formavano il letto del fiume. Lo fiancheggiò per alcune decine di metri fino a quando non si accorse di tre grandi massi da poter utilizzare come ponte e raggiungendo così la sponda opposta del ruscello. Salì sul primo masso vicino alla riva. Poi salì sul secondo che si mosse facendogli perdere l’equilibrio. Allargò le braccia, le fece dondolare come un pendolo. Le mani sospese nel vuoto oscillarono alcune volte prima di fermarsi. L’acqua seppur bassa, correva veloce sotto i piedi dell’Alba Bianca che ristabilita la posizione corretta, allungò il piede destro sul terzo sasso e con un piccolo balzo raggiunse la riva opposta. Il mulino era vicinissimo, ma non si fidò a raggiungerlo e si nascose dietro un cespuglio. Allungò il collo per vedere i movimenti intorno al fabbricato e capire chi abitasse dentro quella struttura. Si scostò velocemente quando vide uscire un uomo da una porta. Oltre l’uscio si vedeva la cucina e una donna che stava cucinando. Come fare per avvicinarsi e poter sfruttare quel rifugio? Pensò il tedesco. L’uomo, in lontananza, stava portando legna all’interno del casolare. Poi un’idea. Attento a rimanere nascosto dalle frasche di quel cespuglio, aprì lo zaino e rovistò al suo interno. La talare nera, che padre Davide gli aveva dato per la fuga era arrotolata sopra al coltello che aveva usato poche ore prima. Lo guardò alcuni secondi pensando se fosse il caso di usarlo. E se quell’uomo fosse armato? Impossibile abitare qui e non esserlo? Bocciò quindi l’idea. Rovistò ancora nello zaino. Eppure l’avevo messa qui! Dov’è finita, dannazione! La mano nel fondo della sacca, toccò qualcosa di tiepido: la ciotola che aveva utilizzato per farsi l’infuso caldo. Finalmente trovò quello che cercava: un collarino bianco da mettere intorno al collo in modo da essere ben visto nel bavero della camicia. Così travestito non temette alcuna reazione da parte dei padroni di casa, o per lo meno sperava. L’uomo era scomparso e la porta era stata richiusa. Costeggiò il piccolo fiumiciattolo, attraversò il cortile e si avvicinò al piccolo casolare. Fece un altro passo e si trovò davanti all’uscio di casa. Avrebbe anche bussato, se non fosse che un oggetto metallico gli si appoggiò sulla nuca. Dalla forma e dal freddo metallico, intuì che aveva puntata un’arma su di se. Per istinto alzò le braccia.

«Chi siete?» urlò una voce maschile. «Mi chiamo Carlo, sono scivolato con la moto alcuni chilometri più su!» rispose il tedesco girandosi lentamente.

«Cosa ci fate in giro a quest’ora?» ringhiò il mugnaio che lo aveva visto da lontano.

«Stavo raggiungendo il monastero di Pontremoli, devo raggiungere al più presto l’abbazia» rispose il tedesco. «Per l’amor del cielo abbassate quest’arma» chiese abbassando il fucile con il braccio sinistro. L’uomo lo guardò fisso negli occhi digrignando i denti e notando il collarino bianco si scusò.

«Scusate padre, sa di questi tempi. Entrate, stavamo iniziando a mangiare» continuò il mugnaio facendogli segno di entrare.

Il nuovo ospite si trovò in una piccola stanza che faceva da cucina e notò subito la donna che aveva intravisto da lontano. Stava mescolando della polenta in un crogiuolo di rame. Un camino a destra della porta, diffondeva calore in tutta la stanza. A fianco, una finestra da cui si intravedeva il ruscello. Ecco da dove lo aveva visto avvicinarsi. Una piccola porta di legno socchiusa, mostrava una dispensa dove la famiglia teneva le provviste per l’inverno. Due gradini introducevano in quel piccolo angolo della casa dove mensole di legno sorreggevano marmellate. Invece, dal soffitto, rimanevano sospesi dei salami e un prosciutto. La donna continuava a mescolare con un mestolo di legno la farina gialla di mais all’interno di una pentola adagiata su una stufa di ghisa, suddivisa in cerchi concentrici che scaldavano il tegame. Più in alto, appesi a un gancio metallico lungo e orizzontale, erano sospesi alcuni utensili di rame.

Per istinto “Carlo” si avvicinò alla stufa per riprendere calore in corpo e scusandosi allungò i palmi della mano. La donna con sorriso acconsentì. Capelli legati all’indietro, poco curati e color topo. Spalle larghe e mani piene di piaghe e gonfie, tipiche di chi lavora sodo tutto il giorno. Non tanto alta e con il baricentro basso. Gambe gonfie e larghe.

«Siete impazzito a girare di notte con questo tempo? Per di più di questi tempi» riprese il mugnaio.

«Lo so, ma l’abate di Pontremoli sta male e sono stato incaricato di prendere il suo posto fino a che il Signore non lo accoglierà fra le sue braccia.» Il padrone di casa lo guardò di taglio.

«Si segga che è pronta la cena» disse la moglie che con un gesto deciso, rovesciò il pentolone di rame su un tagliere di legno. Il fumo avvolse la faccia di “Carlo” che si lasciò abbracciare da quel tepore e anche dal profumo. La donna iniziò a tagliare quella pietanza gialla con un filo. L’ospite notò un piccolo pesce abbrustolito legato al soffitto e si domandò a cosa servisse. Bastarono pochi secondi per comprenderne l’utilizzo. Il mugnaio, con veloci colpi di coltello, grattò quel pesce appeso sulla sua porzione e invitò “Carlo” a fare altrettanto. «Questi sono tempi duri. Facendo così potremo averne anche per domani» si giustificò l’uomo.

«Per me è sufficiente la polenta, non voglio abusare della vostra ospitalità.»

«Non lo stia ad ascoltare e prenda pure» disse lei guardando il marito ammonendolo. Lei invece, prese un po’ di burro e lo spalmò nel suo piatto. «Da dove viene?» chiese l’uomo ingurgitando la polenta fumante.

«Vengo da Previdè».

«Siete stato un incosciente padre ad inoltrarvi con questo tempo, in posti come il nostro» imprecò nuovamente il capofamiglia. «Dove avete detto che siete rimasto a piedi?» continuò a fare domande.

«Poco dopo il passo, appena superato il cartello stradale, la moto ha iniziato a sobbalzare e si è fermata.» «Adesso mangi che domani mattina se il tempo migliora, l’aiuto a recuperare la moto e vediamo di sistemarla» lo rassicurò il mugnaio.

«Sicuramente saranno le candele» continuò mandando giù un altro boccone di polenta rovente. Un uomo nerboruto, conseguenza delle fatiche che un mulino del genere richiedeva. Barba folta e pochi capelli, tenuti da una parte per coprire la calvizie che stava prendendo il sopravvento in quella testa grande. Indossava una camicia a quadretti rossi e neri e due pantaloni di flanella per attenuare il freddo.

«A proposito, padre! Io sono Giovanni e lei è mia moglie Franca» si presentò allungando la mano. La moglie accennò un sorriso cordiale. Il pasto frugale si concluse in fretta e dopo un goccio di vino rosso, Giovanni fece vedere al prete dove poteva coricarsi per la notte. Un piccolo ripostiglio che usavano per i sacchi di farina da portare via il giorno successivo.

«Non sarà molto comodo, ma almeno non morirà di freddo» disse l’uomo tenendo aperta la porta del ripostiglio.

«Va benissimo Giovanni.» Giovanni uscì dalla porta e lasciò Carlo da solo in quello stanzino adiacente alla stufa su cui Franca aveva da poco finito di cucinare. Sacchi di carta da cinque chili erano sovrapposti gli uni agli altri con soscritto il nome dell’acquirente. E il calore che oltrepassava la parete di quella piccola stanza, limitava l’umidità invitando il giovane tedesco a addormentarsi, dopo aver appoggiato lo zaino dietro a un sacco.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Paolo Augello
Ho sempre letto, fin da bambino. Passione che mi ha portato a scrivere da alcuni anni iniziando con un poliziesco ambientato nel mio paese. Un commissario donna, Laura Lupino che indaga sotto casa mia per le vie del paese. Durante il giorno sono un impiegato nel settore del vino. Altro mondo affascinante che mi ha portato a diplomarmi Sommelier 6 anni fa.
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