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L’alfabeto della città

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Consegna prevista Giugno 2025
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Dopo l’esperienza destabilizzante del burnout, Stella si lascia alle spalle l’Italia e il lavoro come educatrice per la città straniera di V., dove si dà un orizzonte di tre mesi per trovare risposta a tutti i suoi interrogativi.
Ben presto, però, si rende conto di come la rigida routine che si è imposta inizialmente sia insostenibile e non lasci spazio al germogliare proprio delle risposte che lei va cercando.
Allora, a poco a poco, Stella impara a concedersi un tempo sospeso, in ascolto di se stessa prima e, poi, della città intorno e delle persone che la abitano, in un dialogo continuo fra passato e presente e fra vissuto personale ed orizzonti politici.
E’ così che Stella incontra Beth, una coetanea sfrontata con cui si imbarcherà in una straordinaria avventura urbana e che le farà scoprire volti nascosti della metropoli, dei suoi dintorni e dellɜ suɜ abitanti, risalendo il filo, alla ricerca della voce che Stella sente di aver smarrito.

Perché ho scritto questo libro?

Il libro nasce dall’esigenza di prendere alcuni pezzetti della mia vita, con ciò che questi mi hanno insegnato, e renderli inconfutabilmente veri proprio per il fatto di essere raccontati in una storia che è un po’ la mia, ma non del tutto: come se solo così potessero davvero scrollarsi di dosso la componente di dolore, vergogna o rabbia sterile che talvolta portavano con sé ed essere infine liberi di fiorire davvero e di dare i propri frutti, passando dalla sfera individuale a quella politica.

 

Chi pre-ordina la versione ebook avrà subito in omaggio un ebook che comprende i primi due volumi della nostra saga best seller “The Drunk Fury”.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Erano arrivatɜ a destinazione con un lieve ritardo, verso le dieci del mattino.

Uscendo dalla stazione, la prima visione della città l’aveva tramortita: il nodo ferroviario era infossato fra alti palazzoni anonimi, vetro e cemento, da distopia futurista. Le finestre scure davano l’illusione inquietante di centinaia di occhi che guardassero chissà dove e, a quell’ora, poche persone attraversavano, con fare frettoloso, le vie circostanti.

Non era quella la città che lei ricordava.

Sconcertata, aveva controllato sul cellulare lo scambio di mail con la proprietaria dell’appartamento in cui avrebbe alloggiato, per cercare l’indirizzo.

Dopodiché, zaino in spalla e valigia al seguito, aveva preso il tram linea F in direzione Nord e si era lasciata trasportare attraverso l’accozzaglia di strade, palazzi ed incroci che sono le città quando ancora ci sono sconosciute.

Il cielo era coperto, ma di nuvole pigre e senza impegno, di quelle biancastre e molli che se ne stanno stravaccate e sonnacchiose ad occupare tutto il cielo senza un vero motivo: non fanno piovere, né lasciano trapelare quanto basta i raggi solari. Prive di scopo, semplicemente giacciono, incuranti ed assonnate, e fanno venir voglia di fare lo stesso.

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Il tram era giunto al termine della propria corsa con un’ultima curva ampia verso destra, come la

frenata dellə sciatorə in fondo alla pista, dopodiché aveva aperto le porte, invitando lɜ passeggerɜ a scendere.

Due turiste le avevano chiesto, in inglese e ridacchiando, se quella linea non portasse a… Ma lei aveva spiegato di non essere del luogo, indicando l’imponente valigia che l’accompagnava, quasi a voler dimostrare ciò che affermava.

Scesa dal tram, si era guardata intorno. Quello era il quartiere in cui avrebbe trascorso le prossime settimane, il quartier generale della riorganizzazione della sua vita per i tre mesi a seguire.

Era un conglomerato di palazzi in varie tonalità di grigio, leggermente in salita. Qua e là, alcune

finestre e grondaie erano dipinte a tinte vive, dando al tutto il fascino della città postbellica che, non potendo contare sulla bellezza antica ed indiscussa degli edifici storici, punta tutto sulla creatività dellɜ suɜ abitanti e sull’arte dell’inaspettato.

Le ampie strade si snodavano pigramente, ad immagine del cielo che le sovrastava, sormontate dalla rete fitta dei cavi del tram, che si stendevano a perdita d’occhio in un orizzonte urbano indefinito, dando l’idea o forse l’illusione di poter portare ovunque.

Da un lato dell’incrocio, un gruppo di tram riposava silenzioso nel proprio capolinea, in attesa della prossima corsa.

Dalla parte opposta, all’angolo fra due vie, un bar dominava il via vai, i tavolini all’aperto interamente popolati da uomini di varie fasce d’età, simili al balconcino di uno strano teatro.

Un poco oltre il bar, in salita sulla destra, aveva trovato la sua nuova via di casa. Silenziosa e deserta, in ombra. A monte, un viale alberato con via vai di auto. A valle, vista su una distesa sterminata di edifici di ogni forma e dimensione.

Aveva estratto ancora una volta il cellulare e riletto per l’ennesima volta l’email della padrona di casa.

Non che non ricordasse che cosa dicesse, ma aveva da sempre il vizio di ricontrollare mille volte anche le cose ovvie, un’incredibile paura dell’errore, dell’equivoco.

Gli accordi erano stati presi ed il contratto era stato firmato, interamente online, per computer

interposti. Probabilmente non la cosa più saggia da fare. A fronte dell’ansia per mille inezie

quotidiane, tuttavia, le capitava con una certa frequenza di prendere con sconcertante leggerezza decisioni e situazioni di rilievo. Senza contare che si era imbattuta in quell’occasione, spulciando alcuni gruppi Facebook, decisamente a ridosso della partenza: era stata, per intendersi, la classica occasione da prendere o lasciare e un guizzo nel cuore le aveva detto che la risposta sarebbe stata prendere. Non aveva nessuna intenzione di rinunciare ai tre mesi intorno a cui aveva costruito l’edificio di settimane e settimane di tirare avanti quotidiano, instabile ma pur sempre in equilibrio per il solo fatto che quei tre mesi si mostrassero all’orizzonte, con la spaventosa forza collante di una chiave di volta.

L’email, dunque, come aveva già letto quel centinaio di volte, diceva che avrebbe trovato le chiavi sotto la mattonella a destra del portone d’ingresso, quella che recava una macchia di ruggine a forma di papera. L’inglese non era perfetto, ma quella sembrava essere l’inequivocabile traduzione. A dire il vero, il contenuto di quella comunicazione non le era mai parso assurdo come in quel momento.

Mattonella del muro o del pavimento? Destra dando le spalle al portone o alla strada? E poi,

ruggine? Su una mattonella? Per non parlare della forma di papera: come potevano essere certe che lei non vi avrebbe visto, per dire, un carciofo o una balenottera? O il coniglio del famoso gioco ottico.

La macchina delle domande anticipatorie a raffica si era messa in moto con entusiasmo.

Avvertenza: non accettare chiavi dallɜ sconosciutɜ potrebbe essere una buona morale da insegnare allɜ bambinɜ, se solo qualcunə avesse voglia di scriverci una favola intorno.

E, tuttavia, i suoi genitori ci avevano provato, mettendo in campo tutte le armi retoriche in loro

possesso. Sua madre era passata dalla critica tagliente ed intransigente alla constatazione

dell’improvviso precipitare della sua sanità mentale. Suo padre aveva tentato di giocare la carta della persuasione, cartellino giallo per quasi ricatto emotivo.

Fatto sta che aveva trovato con sconcertante facilità la mattonella in questione, che la macchia

sembrava davvero una papera e proprio solo una papera e che sotto di essa – dopo essersi guardata circospetta attorno – aveva effettivamente trovato un mazzo di chiavi, una delle quali aveva aperto il portone d’ingresso con fluidità fuori dal comune.

L’ingresso del caseggiato aveva un aspetto piuttosto comune, ai limiti della sciatteria.

Perfetto per sentirsi a casa propria: la perfezione difficilmente mette a proprio agio. C’è perfino chi sostiene che le città più fascinose e, addirittura, con più anima siano quelle più caotiche, quelle che lavano i panni sporchi in pubblico, esponendo agli occhi dellə viaggiatorə di passaggio il proprio sapiente e complesso amalgama di bellezza e dramma, i fastosi palazzi barocchi adagiati al sole accanto ai vicoli che nella loro ombra raccolgono la più cruda povertà e deprivazione.

Ma, forse, le città sono un po’ come le persone: tutte diverse, tutte affascinanti nel loro personalissimo modo, tutte porte più o meno aperte su mondi sconfinati e tutti differenti, le più timide e taciturne come le più estroverse.

E chissà se, a volte, come le persone, anche le città non riescono fino in fondo ad essere se stesse.

L’ingresso del condominio, insomma, nello stato di esaltazione che ancora la pervadeva, a quel primo impatto l’aveva colpita proprio per il suo aspetto qualunque.

Un nido perfetto di quotidianità, aveva pensato, di fronte alle cassette delle lettere a schiera appese al muro e tagliate in diagonale da un raggio di sole spuntato proprio in quel momento, alle pareti spoglie, allo zerbino consunto, al lieve odore di immondizia che doveva provenire dalla stanza dei rifiuti lì accanto.

La mail era stata precisa: una volta recuperate le chiavi, destinazione terzo piano. Anche quello, un posizionamento perfettamente anonimo.

Attendendo l’ascensore, si era guardata ancora un po’ intorno, febbrile quasi come l’innamoratə che scopra per la prima volta il corpo dell’amante e voglia registrarne con lo sguardo ogni dettaglio.

Accanto all’ascensore vi erano due gradini, poi sulla sinistra una porta e, di fronte, quello che pareva l’accesso ad un piccolo giardino interno. Uno spicchio d’erba dalle tinte vive si scorgeva

nell’inquadratura.

Sulla destra, una scala delimitata da un corrimano rosso si addentrava nelle profondità del formicaio.

L’avevano sempre affascinata le formiche.

Probabilmente quell’interesse aveva molto a che fare con il vizio antropocentrico di ricercare ovunque, anche nell’impensabile, il simile a sé.

Mai modelli cui eventualmente ispirarsi, solo il guarda, anche loro come noi come supremo giudizio di valore, a distinguere fra animali insospettabilmente evoluti perché in qualche modo più umani e tutti gli altri.

E forse aveva anche a che fare con qualcosa di simile a ciò che da bambina l’aveva spinta a giocare molto con le Barbies, con le Polly Pocket, con i pupazzetti dei criceti della serie di Hamtaro, con tutte le loro casette ed i loro accessori: rappresentazioni dettagliate del reale in miniatura e perciò perfettamente controllabili.

Fatto sta, che le formiche avevano sempre destato la sua attenzione.

Ricordava quando, nella sua infanzia, durante le scorribande urbane del sabato mattina con il nonno, tra un gelato sul mare ed un giro sullo scivolo in villetta, spesso finivano col fare visita alla Città delle Scienze.

La Città delle Scienze era un luogo fantasmagorico, in cui perdersi senza limiti di tempo che non fossero quelli dettati dagli orari di apertura, in un succedersi che alla lei piccola sembrava infinito di stanze interattive sulle più svariate tematiche.

C’era l’area dedicata ai cinque sensi e la sala dell’astronomia, c’era il centro meteorologico e

l’esplorazione del corpo umano, ma il più delle volte il suo viaggio si fermava nella stanza delle

formiche. C’era un passaggio da percorrere carponi, per poi drizzarsi in una bolla di vetro che offriva una vista a trecentosessanta gradi sull’incredibile via vai di quei magnifici insetti. Impegnati, organizzati, solidali. Chiaro, lei non lo formulava così all’epoca, ma poteva rimanere lì per ore, estasiata, ospite discreta e spettatrice silenziosa di quella dimensione parallela, altrettanto brulicante ma infinitamente più piccola.

Giunta al terzo piano, aveva trovato il suo appartamento: il numero dieci. E, anche qui, la chiave

aveva compiuto la magia, aprendo, senza sforzo alcuno, la porta d’ingresso.

Appena entrata, ancora nella penombra, la prima sensazione a raggiungerla era stata olfattiva: la percezione di un acuto – benché sottile – odore di spezie.

Subito dopo, il suo corpo era stato avviluppato da un viscido e prepotente senso di calore, umido ed afoso, quasi soffocante.

Aveva cercato, con lo sguardo e a tentoni, l’interruttore della luce, con scarso successo.

Sul mobiletto alto e stretto a sinistra della porta che poteva forse essere una scarpiera aveva trovato, poi, un post-it giallo fluo. Lo aveva preso in mano ed avvicinato agli occhi: recava la scritta Light switch behind the dresser, Interruttore dietro alla cassettiera, seguito da una faccina sorridente stilizzata.

Interdetta, aveva guardato un momento il mobile e la sottile fessura che lo separava dal muro,

dopodiché vi aveva introdotto la mano.

La luce si era accesa, smodatamente sgargiante.

Se esistesse un cartone animato Disney della Creazione, probabilmente Dio avrebbe un aiutante brontolone – un po’ come l’Anacleto di Mago Merlino – che, nel momento fatidico del E la luce fu, avrebbe commentato proprio così.

Si era guardata nuovamente attorno, un po’ stordita da quella luminosità improvvisa.

Aveva sbattuto ripetutamente le palpebre, nell’intento di acclimatarsi.

Chissà perché, la penombra spesso le piaceva più della luce piena. E non solo quando si trattava di sfuggire all’impietoso sole estivo.

Curioso, per una persona come lei, che amava – suo malgrado – avere sempre tutto sotto controllo: ma forse era proprio un modo di ingannare la sua mente iperattiva, mettendola forzatamente a riposo.

Cervello non vede…

Le ricordava, anche, le sere in cui – da bambina – tornava a casa tardi da qualche occasione speciale con i suoi genitori: uno spettacolo o il cinema, il compleanno di unə compagnə di scuola, una cena da amichɜ di famiglia.

Capitava più spesso in quella che si è solitɜ chiamare bella stagione, di solito lei si era già

rovinosamente addormentata in macchina.

La via immersa nel buio, con le imposte chiuse e sporadiche finestre illuminate, la chiave che cerca la toppa alla luce fioca che sormonta il portone – silent disco per falene -, su per le scale sussurrando, i denti spazzolati con le palpebre pesanti, i piedi che va be’ dai si possono lavare anche domani: tutto in quelle serate sapeva di quella misteriosa, indaffarata e promettente vita adulta.

L’ingresso era angusto, ma si protendeva subito in uno stretto corridoio che invitava a scoprire il resto della casa, simile al tracciato di un vecchio e rudimentale videogioco.

La prima porta sulla destra recava un nuovo post-it, questa volta rosa: Here’s the toilet, check out the toilet paper brand (I left the package behind for you): it’s the only one with rolls fitting the dispenser!, Questo è il bagno, fai attenzione alla marca della carta igienica (ti ho lasciato la confezione): è l’unica a fare rotoli che stanno nel porta carta igienica! Faccina che fa l’occhiolino.

Il resto della casa era ad immagine di quelle prime istantanee: arredato con gusto anche se

sovraccarico di oggetti, dai mobili che affollavano lo spazio e sembravano stringersi a forza un po’ come persone in un ascensore angusto, ai quadri e quadretti negli stili più vari che cospargevano copiosamente le pareti.

La camera da letto era l’unica stanza in cui effettivamente si creava un effetto caotico.

Qui, pesanti tende dalle fantasie barocche oscuravano la finestra disposta in orizzontale al di sopra della testiera del letto, mentre un enorme armadio in legno in stile casa dellɜ nonnɜ ed una cassettiera tarchiata di taglio moderno si bisticciavano una buona metà della superficie, il tutto irrigato dall’illuminazione diseguale di un lampadario a faretti che proiettava sulle pareti verde lime forme psichedeliche.

Quasi tutto il pavimento era coperto da tappeti pelosi e stanchi in tinte di grigio e marrone.

E, in ciascuna delle stanze, aveva rinvenuto altri post-it colorati, gialli, rosa, verdi, azzurri, arancioni.

The cooking hobs’ switches are a bit lazy, you should insist and maybe use a towel to press them, Gli interruttori dei fornelli sono un po’ pigri, dovrai insistere e magari usare uno strofinaccio per schiacciarli. Verde. Disegnino di una fiamma.

The automatic vacuum cleaner is set to start it’s cleaning every Monday at three p.m., their name is Winnie, Il robottino aspirapolvere è programmato per iniziare la pulizia ogni lunedì alle quindici, si chiama Winnie. Azzurro. Rappresentazione di un disco con occhi e due alette laterali, probabilmente un ritratto di Winnie.

The pantry is full, you can have whatever you want: I particularly recommend the vanilla and coconut infusion!, La dispensa è piena, prendi quello che vuoi: ti consiglio particolarmente l’infuso al gusto vaniglia e cocco! Arancione. Disegno di una tazza fumante.

E così via.

2024-09-08

Aggiornamento

Prima presentazione del libro, nella Sala Polivalente del quartiere Lagaccio di Genova: chiacchiere, cibo e belle persone per dimenticare il tempo uggioso ❤️

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Aline Ottaviani
Sono nata e vivo a Genova, ma sono cresciuta in campagna, a Lumarzo, un piccolo comune dell'entroterra ligure.
Da diversi anni, mi occupo in vari ambiti - come volontaria e per lavoro - di attività educative.
Amo scrivere da sempre: da bambina dicevo di voler diventare, da grande, "egittologa scrittrice", evidentemente perché non riuscivo a farmi una ragione, già all'epoca, di dover per forza scegliere fra percorsi e passioni diverse.
Questo, però, è il primo romanzo che riesco a portare a termine.
Nel frattempo, ho scoperto anche le gioie del poetry slam o "poesia performativa", ossia la condivisione - in pubblico e ad alta voce - di testi propri da parte di diversɜ poetɜ, che ben rappresenta il valore che ha - per me - la scrittura: la riappropriazione di voci e di spazi, per compiere lo scatto dalla sfera strettamente personale a quella politica, nel senso di collettiva.
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