Diego è un uomo da marciapiede che vive a Roma. Da questa sua condizione riesce a vedere il mondo sotto una luce differente. Vede giovani che vogliono morire subito e vecchi che non vogliono morire mai. Vive con i suoi fantasmi in una grande villa disabitata e osserva una guerra che i giovani combattono per l’affermazione di una società più giusta. Diego non ricorda la cosa più importante: perché è finito sulla strada? E la sua vita come finirà? Inizia a cercare le risposte alle sue domande e tra vuoti di memoria e ricordi parziali alla fine riuscirà a dare un senso alla sua vita da barbone.
Perché ho scritto questo libro?
Osservando la vita che Diego conduce sulla strada, mi sono posto la domanda delle domande: che senso ha la vita di un uomo? Per questa domanda credo non ci possa essere una risposta definitiva, ma dei frammenti di tentativi che alla fine possono comporre un puzzle, di certo insufficiente a spiegare il senso del nostro essere in questa vita ma, forse, sufficiente a darci la forza di compiere il cammino fino in fondo.
ANTEPRIMA NON EDITATA
[…] Un destino maledetto, che ti porta via e non ti fa più tornare, finché non ti consegna per sempre all’oblio. E tutto il tuo dolore, e il dolore della tua gente e della tua famiglia e della tua terra, scompare, mangiato, digerito dall’oblio. Tutto è stato un inganno che deve essere dimenticato in fretta. La truffa scende giù e sale su, naviga lungo lo stivale, cammina le Madonie, l’Aspromonte, le Alpi e il Monviso, ciclica, infinita, estenuante e ci consuma lentamente finché non chiudiamo gli occhi per sempre. Terminato con noi, il suo compito cinico e feroce, si accanisce sui figli che sono il nostro sangue dopo plasmaferesi, dopo infiniti lavaggi con ammoniaca e ipoclorito di sodio. I nostri figli, la parte infinitesimale di noi rimasta pura, perché i vinti, sempre, sperano che quel qualcosa di buono che conservano con grande cura, nella parte più nascosta dell’anima, un giorno o l’altro, sboccerà puro, d’improvviso, come un fiore stupendo nel deserto. Saranno i nostri figli a sbocciare, fiori belli e solitari. Figli che vengono dal piccolo pezzo di mondo sacro, irreale, e lontano da ogni male, che abbiamo conservato dentro gelosamente.
Continua a leggere I nostri figli che pensiamo, e vogliamo, siano il nostro riscatto feroce. La carne della nostra carne, che pensiamo sarà, finalmente, la medicina che guarirà, per sempre, ogni ferita e chiuderà il nostro contenzioso col mondo ostile, odiato, che ci ha soffocato uccidendo tutti i nostri sogni a uno a uno. I nostri figli, che vogliamo più furbi di noi, più colti di noi, più belli del sole e che, invece, rimarranno, crudelmente, bersaglio della maledetta ricorrente fregatura dei più forti. Di quelli che si reputano immortali, con la bustina di cocaina in una tasca e la Visa oro nell’altra. Di quelli che qualunque sbaglio facciano c’è sempre un rimedio, un escamotage per ricominciare, per farla franca. Quelli che avranno sempre un papi che gli aprirà le braccia, e un giudice che li comprenderà, un sociologo che li applaudirà, un politico che li difenderà; quelli che avranno, a tutte le ore, un mezzo milione di dollari in bocca, subito pronto a resuscitarli, ventiquattro ore al giorno, per salvare la specie. La loro specie. Mentre la nostra specie, che viene dalla terra spaccata dal sole, dura come roccia, che viene dalla polvere di cemento, dalle strade di fango, dai treni lunghi e sazi come voraci serpenti, puzzolenti di piedi e di formaggio, dalle navi grasse come vacche che attraversano mari voraci e strade incazzate di accoglierne così tanti, questa specie, la nostra, muore d’illusione e speranze, si disfa in lande desolate che portano i nomi più esotici del mondo, per ingannare e far finta di essere diverse, mentre invece sono le stesse periferie copia-incolla piene di sofferenza, violenze, senza futuro di cui è gravido il pianeta dell’uomo sapiens sapiens. Penso a tutto questo e, d’improvviso, m’incazzo nero con me stesso, mi do dello stupido bastardo, perché col tempo speso a pensare a queste lampanti ovvietà, negate solo dai sub-normali, e dai cani da guardia di questo sistema immondo, avrei potuto tirare fuori il significato del sogno della merda. Proprio mentre rifletto su questo mi ricadono gli occhi su Anita e, nello specifico, meraviglioso specifico, sulle sue tette marmoree. Tette con tante heheeee e tante ahhhhhhh, che mi rimangono in gola e che si sciolgono nella saliva facendomi sbavare come un cane bastardo davanti a una bistecca. Hanno più eheee e ahhhhhhh della Venere del Botticelli, della Venere delle Rocce, della Vere di Milo, della Venere del Nilo, della Venere del torrente dietro casa mia e di ogni cazzo di Venere di fiume e di mare e di torrente inventate da poeti e scrittori, queste sue tette marmoree, e sento salirmi un brivido dentro come se avessi la febbre a quaranta. Il brivido mi scuote il corpo e si concentra sulla mia cappella che lotta per liberarsi da ogni indumento che la soffoca e da ogni teoria moraleggiante di madre Chiesa e di mia madre e di mia nonna in carriola, per presentarsi in tutta la sua essenza, in tutta la sua lunghezza e turgidezza a Lei, alla lasciva diva.
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