«Cos’è successo, Yuri? Cosa vuole, da te, il Preside? Di domenica, poi…».
Già. Cosa voleva, da me, il Preside? Di domenica, poi.
«Ehm… Ma niente, papà. Niente in tutto. Sembra che uno studente della scuola tenga in ostaggio una decina di persone all’interno di una fabbrica…».
«Cosa?».
«Minacciandole con una pistola…».
«Yuri, santo cielo… Ma tu cosa c’entri, con tutto questo?».
«Quel ragazzo ha fatto il mio nome. Ha detto che, se non vado là insieme a lui, in fabbrica, ammazza tutti».
Alberto deglutì. Ricordo ancora il rumore del pomo d’Adamo che vagava per il suo collo come una pallina da flipper. La Claudia si mise una mano davanti alla bocca, mentre la Vale quasi si accasciò al suolo. Aveva già capito di quale studente si trattasse, la Vale. Solo la Marescialla riuscì a mantenere una certa posata dignità. Continuava a far volteggiare il ventaglio su è giù, con espressione affatto turbata.
«Beh? Cosa fai ancora qui? Corri, Yuri. Sennò quel matto fa una carneficina».
Conservo ancora l’articolo che scrissi il giorno seguente per il giornalino della scuola. Enri era entrato nella fabbrica di proprietà di suo padre, quella benedetta domenica. Con quella cazzo di pistola che mi aveva mostrato nel parcheggio della discoteca, nel 1985. Giusto sette anni prima. Marciò deciso verso la sala riunioni, sapeva che quel pomeriggio, quella domenica pomeriggio, era in corso un summit fra i dirigenti della ‘Dell’Acqua S.p.A.’. Quando se lo trovarono davanti, pistola spianata, i dirigenti pensarono si trattasse di uno scherzo. Non suo padre, però. L’ingegner Giovanni Dell’Acqua conosceva a fondo la natura, diciamo peculiare, del proprio figlio minore. Anche se non credeva potesse arrivare a certi estremi deliranti.
«Chicco! Metti giù quella pistola».
«Lo sai, papà. Lo sai che non mi devi chiamare Chicco. Odio sentirmi chiamare così».
«Metti giù quella pistola, Enrico. Ti stanno guardando tutti…».
Enri, ovviamente, fece l’opposto di quanto ordinato dal padre. Non solo non ripose la pistola. Ma con la pistola sparò un colpo. Poi un altro. I dirigenti iniziarono ad urlare. A cercare di scappare. Ma Enri piantonava l’unica di via di accesso, e di fuga, di quell’ufficio all’ottavo piano.
«Se state calmi non vi succederà niente».
«Enrico, per l’amor di Dio…».
«Venite con me. Tutti quanti. Seguitemi, forza. Ma vi avverto. Se provate a fare i furbi mi faccio saltare in aria il cervello. Io a me. Non io a voi. Non il vostro, di cervello. Perché un ragazzino di diciotto anni che muore davanti a una decina di affermati manager d’industria non è affatto una buona pubblicità, per le vostre fulgide carriere. Rimarrà sempre il dubbio, cari signori».
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Ecco. Questo è Enrico Dell’Acqua. Enri. Non ho assistito a quel dialogo (più che altro, un monologo sporadicamente interrotto dalle disperate richieste paterne) ma Enrico me l’ha raccontato proprio così. Ed io ci credo. Perché Enri, fondamentalmente, è il Dio cattivo dell’Antico Testamento.
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“…Me lo dite voi quale adolescente, per di più di gentile aspetto, di famiglia più che benestante e con un futuro più che radioso davanti, si prenderebbe mai la briga, una pigra domenica di maggio, di rivendicare i diritti di una trentina di operai costretti a lavorare il dì di festa perché, se non avessero acconsentito ad umiliarsi nello straordinario sarebbero stati licenziati dalla proterva voce del padrone? Me lo dite, voi, quale altro adolescente, o uomo maturo, ma anche quale senescente, avrebbe mai avuto il coraggio di portare alla luce tutto ciò?”
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L’enfatica ingenuità della gioventù. Ho fatto sembrare Enri una specie di San Francesco con la Beretta. Un Guevara metropolitano. Il papà e la mamma, quando lessero l’articolo, il giorno dopo i fatti, mi proibirono di uscire di casa. Non certo per punirmi. Più che altro, per paura che venissi cooptato (o cooptassi io stesso) un qualche gruppo sovversivo. Marginale, violento e fintamente rivoluzionario. Il ricordo di un recente passato color piombo era ancora ben vivo, nell’immaginario collettivo. «Ma non voti per il partito comunista, mamma?».
Continuai a giocare, in famiglia.
«Esistono ben altre vie per smascherare le ingiustizie, Yuri…».
«E quali sarebbero, le altre vie, Claudia? L’unica via percorribile è quella della lotta armata. Altro che balle borghesi…».
Mio padre mi colpì con uno schiaffo. L’unico ceffone della sua vita. Poi, quasi piangendo, se ne tornò in salotto. A fumare una sigaretta dietro l’altra. L’Adele, la Marescialla, mi gratificò invece di un abbraccio. L’unico abbraccio della sua vita. Sventagliò sulla mia faccia una massa d’aria alla lavanda disinfettante, come se volesse far morire i batteri che avrebbero potuto aggredire il candore di questo suo nipote barricadero.
«Portalo a casa, questo tuo amico. E raccontale ancora, queste storie così belle. Scrivi così bene, Yuri…».
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Il primo articolo della mia vita terminava con toni semi-apocalittici.
“Adesso sarai giudicato dalla giustizia terrena, caro Enrico. Ma quella divina e quella del popolo (divina in quanto ad esso appartenente) ti hanno già assolto. Ti hanno già perdonato. Era solo uno scherzo, in fondo. Hai ritenuto opportuno mettere in atto una macabra rappresentazione teatrale. E il macabro, in questa tua folgorante pièce, non è stato certo il tuo abborracciato tentativo di sequestro. Il macabro, in questa storia, è la rivoltante ingiustizia che hai cercato di smascherare. Grazie, Enrico”. Yuri Ferri
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Il reporter d’assalto Yuri Ferri, naturalmente, era uno squallido paraculo. All’improbabile futuro Pulitzer, di ribaltare il mondo, di scuotere e formare coscienze, di sensibilizzare l’umanità e di perseverare nella ricerca dell’inganno a favore del disvelamento della struttura e dell’annientamento della sovrastruttura al fin di giungere, oh finalmente, al trionfo della giustizia proletaria, non fregava un benemerito cazzo. Troppo pigro, Yuri Ferri. Ma Enrico, nei confronti di Yuri Ferri, esercitava una influenza non immediatamente spiegabile. La capirete poi, questa strana influenza.
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