Era una pura emozione che purtroppo subì una sentenza chiara e precisa: essa fu, passato remoto, concluso e finito.
Non c’era da pensarci su continuamente, non dovevo dargli nessun significato e nessun peso.
«Va bene, ora basta pensarci ancora» scossi la testa e discesi rapidamente le scale, concentrandomi sul mio stomaco che brontolava per la fame.
Riempirsi la pancia sarebbe stato un ottimo modo per non pensare. E in cucina di cibo ne avrei trovato in abbondanza.
La sera precedente Carmela mi aveva spiegato che aveva riempito la dispensa di ogni ben di Dio, ma raccomandandomi che si aspettava di avermi a pranzo e a cena ogni giorno, o anche solo per un pasto.
Sorrisi al pensiero delle sue parole solerti che non ammettevano repliche.
Feci una ricca colazione a base di latte e caffè e di alcune buonissime fette di ciambella all’arancia che Carmela aveva preparato per me.
Fu un vero godimento quel dolce morbido, profumato e saporito. E purtroppo solo in Sicilia potevo gustare delizie del genere.
Finita la colazione tornai di sopra per lavarmi e vestirmi.
Quel giorno non avevo programmato nulla perché Giuseppe doveva sbrigare delle faccende in città e quindi il giro dei vigneti era stato rimandato al giorno seguente.
Potevo dedicarmi a lunghe passeggiate tra i filari delle viti, negli agrumeti e poi andare al mare.
Indossai il k-way in caso si mettesse a piovere e misi il cellulare dentro lo zainetto.
Solo in quel momento realizzai che era spento dalla disastrosa telefonata con Tobias!
Quando accesi il dispositivo, mi arrivarono immediatamente una decina di notifiche di chiamate ricevute e di messaggi su Whatsapp, e tutte di Tobias.
Un messaggio era stato inviato dopo la chiamata di ieri sera e un altro dieci minuti fa.
Li lessi rapidamente con una disposizione d’animo per niente positiva.
In entrambi si scusava e mi chiedeva di perdonarlo; puntualizzava il fatto che questo cliente gli stava creando un sacco di rogne e che lui era nervoso e stanco.
Riconosceva di essere stato un cafone e uno screanzato, e che era consapevole che io non avessi colpe per il suo malanimo.
Normale amministrazione.
Finivano sempre così le nostre schermaglie: lui mi attaccava ingiustamente, perché era un impulsivo incorreggibile, io mi arrabbiavo, lui chiedeva scusa promettendo di non cadere più in questo errore, e io lo perdonavo.
Ma quella volta, le sue parole non mi fecero effetto, tra l’altro sempre le stesse.
Improvvisamente mi sentii stanca di accettare le sue scuse; continuavo a sentirmi arrabbiata con lui e non avevo nessuna intenzione di far finta di niente.
Non volevo parlargli; lo avrei fatto una volta sbollita la rabbia.
Gli scrissi un breve messaggio in cui gli dicevo che le sue solite parole di scuse mi avevano stufata e che non avevo né tempo, né voglia di sentirlo. Aggiunsi di non insistere con telefonate e messaggi e che lo avrei chiamato io, prima o poi.
Lo rassicurai che stavo bene e inviai il testo.
E mi sentii serena. Misi il cellulare nel mio zainetto pronta a scendere.
Aprii il portone e un piacevole tepore mi avvolse e nello stesso tempo un pallido sole mi accolse.
Il cielo era ancora invaso da nuvole ma un trepido venticello le faceva muovere, ora coprendo ora scoprendo il sole, e quando appariva era luminoso e caldo.
Chiusi il portone a chiave e percorsi il cortile tenendo lo sguardo fisso al cielo per ammirare gli sprazzi di azzurro accarezzati dai raggi solari.
Con un agile balzo mi sedetti sul bordo del pozzo e rimasi alcuni minuti a godermi il cielo, il sole, il profumo delle zagare e il silenzio attorno a me, interrotto a tratti, dal frusciare delle foglie e dal cinguettio degli uccelli e…anche da qualche ape ronzante.
Una di queste sorvolò i miei ricci e io la scostai con le mani e poiché sembrava non desistere dalle sue ricognizioni sulla mia capigliatura, scesi e corsi veloce lontano da lì.
Non amavo in modo particolare le api, perlomeno quelle intenzionate a pungermi.
Imboccai il vialetto lastricato che conduceva a casa dei Simoni per poi deviare su quello sterrato che portava direttamente nei vigneti.
Quando ero lì, di solito, passeggiavo tra le viti ma questa volta non lo feci, lo avrei fatto in compagnia di Giuseppe il giorno dopo, così mi diressi direttamente verso il mare.
C’era una pace assoluta, nessun rumore invadente e fastidioso giungeva fin lì.
Le nuvole si stavano diradando sempre di più e nell’aria riscaldata dal sole echeggiava il suono del mare.
Camminai serena, lasciandomi assorbire dalle sensazioni di quell’angolo di natura, desiderosa di arrivare presto al mare. Ormai ne sentivo sempre di più il profumo e il suo canto ammaliante.
Tra gli alti fusti dei pini marittimi e tra la disordinata macchia mediterranea costituita da palme nani, mirto, erica e salicornia intravidi il mare finalmente. Ero brava a riconoscere questi arbusti perché mio padre me lo aveva insegnato quando ero piccola, vedendomi affascinata dalla varietà di piante lungo i litorali marini che non erano di certo quelli oceanici inglesi.
Giunsi sotto le chiome dei pini e nell’ombra avvertii un po’ di fresco; proseguii il cammino sul terreno dove l’ombra e il sole creavano giochi di luce sfuggenti, geometrici, abbaglianti.
Pochi passi ancora ed eccolo il mare, finalmente, in tutta la sua blu immensità.
Discesi un breve declivio roccioso e mi trovai subito su una lunga striscia di spiaggia.
Mi sentii molto felice: ero dove sognavo di essere da un bel po’ di tempo.
Avevo realizzato un piccolo desiderio.
Ero al mare, sotto il cielo azzurro punteggiato qua e là da alcune nuvole, accecata da un vivido sole, inebriata dal profumo della salsedine e da quello intenso del mirto che giungeva fin lì dal lieve venticello che spirava dietro di me.
Presi il mio zainetto, lo aprii e tirai fuori un telo da mare che distesi sulla sabbia, poi mi sedetti con un profondo respiro di soddisfazione.
Inforcai i miei occhiali di sole e lasciai vagare il mio sguardo in quello spettacolo della natura per lunghissimi minuti, liberando la mente da ogni pensiero.
In breve, avvertii la netta sensazione di assenza da me stessa per diventare parte di quel paesaggio; persi ogni consapevolezza di me e la mia coscienza si svuotò di pensieri e preoccupazioni. A quel punto lasciai scivolare la schiena e mi distesi lungo il telo, incrociai le braccia dietro la nuca e mi rilassai del tutto, respirando a pieni polmoni l’aria intrisa di benefico iodio.
Sostai in quel miracoloso stato di abbandono per un tempo che mi parve infinito poi, non essendo Siddharta e nemmeno un’asceta, la consapevolezza di me riemerse sulle rive della mia coscienza e i pensieri tornarono ad affacciarsi.
E così la mia mente si affollò di pensieri e immagini che si sovrapposero come in un turbine impetuoso e senza ordine.
Ecco Tobias e la sua mala creanza, la faticosa rassegnazione alla morte di Eugenia e la responsabilità del vigneto.
Riconobbi che erano piccoli assilli, non certo gravi preoccupazioni ma mi lasciarono comunque quel pizzico di inquietudine di cui non era facile liberarsi e dimenticare, considerata la mia innata sensibilità.
La stessa sensibilità che se, da un lato, dava un significato e lasciava una traccia indelebile nell’animo di ogni esperienza ed emozione vissuta, quindi anche di sentirmene turbata, dall’altro mi permetteva di trarre conforto e piacere interiore dalla semplice contemplazione del mio sentire e della natura.
Un lieve sospiro accompagnò i miei pensieri che pian piano si diradarono fino a lasciarne solo uno: Tobias.
Sentivo che non mi era passata del tutto la rabbia nei suoi confronti ma pensai che portargli ancora rancore fosse inutile e dannoso per la mia serenità.
Basta. Volevo mettere un punto su quella maledetta telefonata e andare a capo.
Decisi di chiamarlo.
Mi sollevai a sedere, presi il cellulare e, senza indugi, pigiai il tasto con il suo nome.
Tobias rispose già dopo il secondo squillo.
Stava proprio aspettando la mia chiamata, pensai tra me e me.
«Amore! Matilde mia, come stai? Aspettavo con ansia la tua telefonata, perdonami per ieri sera…io…»
«No, no…Tobias, non voglio parlare di ieri sera» lo interruppi subito, decisa a non volermi imbarcare nelle stesse noiose e ripetitive discussioni su scuse e promesse inutili di non trattarmi più sgarbatamente. «Piuttosto che ripropormi il tuo discorsetto monocorde di mea culpa, fornito di allegata promessa di futura e imperitura buona condotta, preferisco che tu passi direttamente ai fatti, okay? Sono ancora arrabbiata ma ho fiducia in te, dimostrami, nel tempo, che non sono un’illusa. Detto questo, sto bene, per rispondere alla tua prima domanda, e tu?» parlai in tono fermo e risoluto, come mai avevo fatto e me ne stupii io stessa.
Io, che avevo sempre avuto con tutti, e con Tobias in particolare, un elevato livello di sopportazione delle altrui paturnie, dove avevo tirato fuori quell’insolito piglio?
Probabilmente dal “troppo pieno” del mio animo che aveva così tanto ingoiato bocconi amari da non poterne contenere di più.
«Ok ok, amore, hai perfettamente ragione. Non dico nulla e mi impegno a cambiare e…»
Tobias sciorinò millantate promesse di cambiamenti e rivoluzioni inerenti il proprio carattere e io socchiusi gli occhi incredula: ma lo stava dicendo davvero?
Non mi aveva ascoltata allora! Mi venne l’impeto di chiudere la telefonata ma mi trattenni dal farlo dato che avevo deciso di porre fine al livore che provavo per lui. Mi armai di santa pazienza e sforzandomi di dare alla mia voce un tono dolce e gentile, lo interruppi nuovamente e presi la parola.
«Tobias, va bene, d’accordo…non è successo nulla. Mettiamoci una pietra sopra. Come stai? Dove sei? Che stai facendo?» colorai la mia voce di allegra giovialità e attesi la sua risposta.
«Sono in studio: attendo un nuovo cliente e mentre spulcio alcuni incartamenti. Io sto bene, adesso che ti ho sentita. Ero molto dispiaciuto per come ci eravamo lasciati ieri sera e per il tuo lungo silenzio nonostante i miei tentativi di chiamata e i messaggi inviati» quasi piagnucolava e me ne meravigliai.
Non era da lui mostrarsi seriamente preoccupato per una delle nostre liti. Probabilmente la lontananza e il mio insolito silenzio lo avevano fatto temere; perché Tobias con baci, carezze e abbracci riusciva sempre ad addolcirmi e farsi perdonare. Ma a chilometri e chilometri di distanza questo non era stato possibile.
«Beh, Tobias, ieri mi hai davvero fatta arrabbiare e non credere che io abbia dimenticato. Perché, e tu lo sai, se c’è una cosa che non sopporto, è essere trattata con malagrazia. Comunque, non ne voglio parlare più. Vuoi sapere dove sono?» gli domandai, cambiando discorso.
Chiacchierammo per circa un quarto d’ora
Chiusi la telefonata sentendomi sollevata anche se avvertivo una sensazione strana che mi pungolava l’animo, come se davvero non fosse del tutto a posto tra me e lui. Ma questo, lo capivo bene, riguardava me; era una mia percezione, qualcosa che non mi rendeva pacificata, e non per colpa di Tobias. Sapevo, ma fingevo di non capire (e quindi mi prendevo coscientemente in giro), che talvolta venivo meno al mio sentire e alle mie emozioni per fare andare bene il mio rapporto con Tobias. Quando mi soffermavo a realizzare questo, mi rimproveravo e mi sentivo stupida e debole…sbagliavo, ma a quei tempi non ne ero consapevole.
Tempo dopo avrei scoperto che certe scelte o…non scelte, non sono segno di debolezza ma di forza interiore, quella che ha il coraggio di accettare e accogliere ciò che non si riesce a cambiare; perché è nell’accogliere ciò che non ci piace che incontriamo noi stessi, e si scopre cosa si vuole davvero.
É nell’aver dato voce alle proprie fragilità che si diventa più forti.
Posai il cellulare dentro il mio zainetto e mi distesi nuovamente sul telo.
Sentivo ancora quel pungolo nel cuore, lo capivo che voleva attirare la mia attenzione su questioni irrisolte dentro di me. Ma evidentemente non ero ancora il momento, e così mi rifiutai di ascoltare; chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dal tiepido venticello che mi accarezzava il viso. Non volli pensare a nient’altro. Non ne avevo voglia.
Restai così a lungo; immaginai di avere la testa vuota e riuscii a rilassarmi.
Fu davvero una sensazione bellissima: io, il mare, il sole e le mani che affondavano nella sabbia calda per afferrarla e farla scivolare tra le dita, in un lento strofinio.
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