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Le figlie del barrio

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Roma periferica, siringhe sparse e coppie appartate nel parchetto del quartiere. È il panorama in cui la piccola Silvana incontra Ivonne, un’esuberante italo-argentina che a sette anni ha già le idee molto chiare: vuole sposare un uomo ricco e scappare dalla realtà decadente del barrio.

Spiccare un salto oltre la rete di squallore che le imprigiona è la sfida personale delle due amiche, anche a costo di smarrirsi o umiliarsi nell’impresa.

Ivonne sa che userà la sua bellezza selvaggia come passaporto per raggiungere i suoi scopi, ma Silvana, più riflessiva, potrebbe seguire un’altra strada.

1. Il petalo del buon auspicio

Era una sera di maggio, quella in cui Ivonne decise di fare le valigie. Tucumán si dimostrò lunica scelta plausibile, anche se le sarebbe piaciuto tornarci in altre condizioni. Per scelta, non per necessità. 

Ci era stata una sola volta, a otto anni, poco dopo essersi trasferita nel quartiere di Centocelle. 

«È dura sai, lasciarsi indietro le proprie origini» furono le prime parole di Lorena, sua madre, quando atterrarono allaeroporto di Buenos Aires. Da lì salirono sul treno che le avrebbe portate a destinazione dopo un lungo serpeggiare per il Paese. Il viaggio verso la cittadina sperduta nel nord dellArgentina si fece infinito. Laria era tesa, sua madre visibilmente agitata, anche se erano state prese tutte le precauzioni del caso. I soldi li conservava Lorena nel reggiseno e Ivonne aveva lasciato i braccialetti del battesimo a Roma. Lo zaino lo tenevano sulla pancia. A ogni gesto un pobrusco di altri viaggiatori sussultavano entrambe, interpretandolo subito come un possibile tentativo di furto. Quella era lepoca in cui i ragazzi fabbricavano in casa pistole con le canne da zucchero. Il processo di costruzione lo si poteva trovare su Internet, anche se ancora funzionava meglio il passaparola. In tanti se ne portavano una dietro, chi per difesa, chi per attacco, ma in generale nessuna delle due fazioni dormiva sonni tranquilli.  

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La nonna di Ivonne, Isabel, viveva nel barrio di Yerba Buena, in un posto dove non cera nientaltro che verde. Alberi e prati si seccavano in fretta sotto il sole estivo. Il caldo sudamericano di dicembre avrebbe concesso alla vegetazione poca tregua. Ivonne fece giusto in tempo a conoscerla in tutta la sua prosperità 

«Mamá, non ti sembra assurdo che festeggeremo il Natale a maniche corte?» 

«A me è sempre sembrato assurdo il contrario. La prima volta che ho passato il Natale in Italia, a Roma cera la tramontana. Faceva un freddo così brutto che credevo sarei morta congelata. Il freddo a Natale è bello soltanto nei film de los gringos.» 

Nonna Isabel, o Abu, come la chiamava Ivonne nelle sue lettere, aveva preparato per quella occasione un pranzo per venti persone, anche se a tavola sarebbero stati solo in cinque: lei, i figli Manu e Miguel, Lorena e la nipotina di casa, Ivonne Sofia Duarte Miotti. La tavola laveva sistemata in giardino, ci aveva steso sopra una tovaglia bianca dove brillavano i vassoi colmi di carne e verdure arrosto. A capotavola Isabel aveva messo la nipote, la regina della festa. 

«Tua mamma mi manda foto tue da quando sei nata. Appena finiamo di mangiare te le vado a prendere. Adesso pulisci il piatto però, ché mi sembri troppo magra.» 

Indossavano camicie di colori sgargianti, cerano molte zanzare e la sera non si poteva uscire per nessuna ragione. Gli zii erano quelli che vivevano più tranquilli, ma la nonna era in un perenne stato dansia, specie ora che sapeva di avere degli ospiti. Era stata lei ad avvisare la nipote che la porta non la si doveva varcare mai prima della mattina seguente. «In giro c’è gente cattiva che spara anche solo per rubarti le scarpe!» aveva spiegato, chiudendo la porticina di legno con un paio di giri di chiave. Quella porta la butterebbe giù il lupo dei tre porcellini con un soffio soltanto, pensò Ivonne, se davvero vogliono entrare e mangiarci possono farlo quando gli pare.  

Il suo posto per la notte sarebbe stato nella branda che Miguel le aveva sistemato in cucina. I primi cinque minuti li trascorse a prestare attenzione a ogni rumore sospetto.  

Dormì solo quando le fantasie infantili sullo zio la calmarono fino al sonno.  

Miguel era bello, con i capelli neri e la voce roca, un poacerba, da ragazzo in via di sviluppo. In seguito Ivonne se lo sarebbe ricordata meglio dei prati e delle zanzare che lavevano tormentata in quelle notti.  

 

Non ci volle troppo tempo prima che Lorena si accorgesse di quellamore platonico ma incestuoso. Cercò di stroncarlo sul nascere con una frase che sussurrò alla figlia senza troppi preamboli due sere più tardi, prima di darle la buonanotte: «Lui è tuo zio, anche se non del tutto. Tua nonna ha partorito sia me che lui. Siamo fratelli a metà, ma a prescindere parenti. E ai parenti si può solo voler bene. Mhai capito?». Ivonne aveva annuito senza troppa convinzione, intenzionata a spendere le prossime due settimane a intercettare lo zio quindicenne in circostanze che a lui sarebbero senzaltro sembrate casuali. Si faceva trovare in cucina quando lui doveva ancora fare colazione e a raccogliere trifogli in giardino se lo vedeva alle prese con la bicicletta. Ne approfittò per farsi insegnare ad andare su due ruote, anche se Miguel non si dimostrò troppo interessato alla faccenda. Smise di tenerle il sellino dopo pochi minuti, facendola cadere di fianco sulla strada bianca piena di ciottoli. Ivonne aveva strillato forte, esagerando il dolore che le arrivava dalle ginocchia sbucciate. Smise solo quando lo zio si chinò per raccoglierla dalla strada e riportarla in braccio a casa, dove le disinfettò le ferite con lacqua ossigenata. Di quelle cure parlò diverse volte come uno dei momenti più romantici della sua vita. Che importava se in bicicletta non aveva imparato ad andarci?  

Manu, il maggiore, fece pure il tentativo di insistere, proponendole di continuare la lezione lasciata a metà, ma lei preferì riprendere a raccogliere i trifogli e le margherite nei paraggi. A piacerle erano soprattutto quelle gialle. Le nascondeva nelle tasche dei pantaloni o nel marsupio e andava a staccarne i petali dietro luscio di casa, intonando in segreto il profetico Mama, non mamarituale imparato i primi giorni della terza elementare. Quasi sempre lultimo petalo non le restituiva un buon verdetto, così le toccava tornare a caccia di fiori nel campo di fronte. Almeno uno le avrebbe assicurato di essere corrisposta, ne era sicura.  

Era stato proprio durante uno di quei momenti di raccolta clandestina che aveva visto Miguel abbracciato a una ragazzetta strizzata in un paio di pantaloncini rosa. Avrà descritto la scena un centinaio di volte. La biondina aveva i capelli lunghi fino al sedere, le gambe chilometriche e indossava un paio di ciabattine di plastica. Lui le aveva infilato le mani nelle tasche, stringendo sulle natiche. Entrambi inclinarono la testa, le loro labbra si trovarono in fretta. Rimasero così per alcuni minuti, solo cambiando lato di tanto in tanto, mentre Ivonne, senza rendersene conto, aveva accartocciato tutto il bouquet dove si nascondeva il petalo del buon auspicio.  

Quella era stata la sua prima cocente delusione amorosa.  

«Che cosa ci fai qua dietro? Tua mamma lo sa che sei uscita di casa?» 

La ragazza con i pantaloncini non sembrò dare peso allapprensione di Miguel e fece cenno a Ivonne di avvicinarsi, ma lei non si mosse di un centimetro.  

«I tuoi capelli sono bruttissimi. Sembri una Barbie povera» le aveva detto Ivonne, prima di lanciare via le margherite stropicciate e scappare nella direzione opposta. 

La fortuna volle che nessuno in famiglia sapesse di Chantelle, la fidanzatina dodicenne di Miguel, così lo zio pensò che fosse meglio vedersela direttamente con la nipote, senza coinvolgere la sorellastra. Lorena avrebbe fatto la predica più a lui che alla figlia, e Miguel lo sapeva.  

Così la sera, mentre Ivonne impacchettava le sue cose, lo zio la prese da parte. Lei, in preda allemozione, si convinse nellimmediato che Miguel fosse lì per restituirle la fede nellultimo petalo. E invece si limitò a sgridarla e a dirle che Chanti ci era rimasta male, che lei voleva solo fare amicizia e un sacco di altre cose che presto Ivonne smise di ascoltare. 

«Ti pentirai di quello che mi stai dicendo» sibilò con tutta la malignità di cui era capace, lasciando lo zio in uno stato di sconcerto assoluto. 

 

  1. Due bambine con il grembiule blu

Ho conosciuto Ivonne quando eravamo ancora due bambine con il grembiule blu. Lei era appena arrivata a Centocelle, Lorena e il Miotti si erano trasferiti qui nel quartiere con tutta la ciurma più o meno a due mesi dallinizio della mia terza elementare. Da un giorno allaltro l’avevano sradicata dalla scuola di Tor Bella Monaca perché avevano trovato una casa più grande a un prezzo più basso nel palazzo vicino al mio. Mi sorprese sentir parlare una bambina di soldi, di case. Io allepoca ero convinta che una casa costasse poche lire. Se me lo avessero chiesto, avrei detto che la Panda su cui salivo per andare a Latina dai nonni costava più dellappartamento di sessantaquattro metri quadri dove vivevamo ammucchiati io, i miei genitori e i miei due fratelli piccoli.  

Ivonne allepoca di fratelli ne aveva solo due, ma erano entrambi di un padre diverso dal suo. Bruno Greco, il suo papà biologico, era stato un muratore siciliano che riparava i tetti della Roma bene. I soldi, però, se li spendeva in eroina. Un giorno le braccia non gli hanno retto più ed è morto schiacciato da un mucchio di tegole. O forse è morto cadendo dal tetto durante una crisi dastinenza e le tegole gli sono piovute in testa, deturpandogli la faccia al punto che quasi non lo riconosceva manco la moglie. La signora Marini una donnina sciupata che portava le corna con una certa consapevolezza laveva fatto cremare perché diceva che il marito non valeva nemmeno per i vermi. Aggiunse pure che se non lavessero fermata i figli lei le ceneri le avrebbe rovesciate nel cesso.  

Lorena partorì a Roma. La cittadinanza non ce laveva, lei e Ivonne erano a tutti gli effetti due mezze clandestine, anche se non ho mai capito bene le circostanze burocratiche in cui si trovavano in quel periodo. Di primo acchito si potrebbe dire che le cose non erano state fatte bene. Mia madre ha più volte ribadito il suo pensiero, quando ci è capitato di parlarne. «Bisogna essere proprio cretine pevenirsene in Italia comille sacrifici e farsi metteincinta da un tossico. Tossico che è pure sposato e quindi manco te può cambiare a situazione del passaporto! Bella cazzata. Menomale che poi ha capito che doveva fa.» Il che doveva fa è, nel linguaggio di mamma, la formula che riassume la scelta finale di Lorena, quella che prese quando Ivonne aveva appena compiuto due anni. Per farla breve, si era sposata con il quarantenne meridionale da cui andava a fare le pulizie i pomeriggi dal martedì al giovedì. Aveva iniziato spazzando le scale del condominio. Era stata assunta, per così dire, dal vecchio portiere peruviano, Raul, che voglia di scopa e paletta non ne aveva da un pezzo. Lì aveva incontrato Alessandro Miotti, un finto imprenditore che prima laveva portata a casa sua a lavare i pavimenti, poi le aveva subaffittato una stanza nel suo appartamento stanza dove aveva persino montato una culla nuova di zecca e, dopo qualche mese, forse perché gli piaceva come faceva luccicare le mattonelle o il suo modo esotico di cucinare il vitello, se lera presa in moglie. Si può dire che è stato un processo graduale, una cosa che è andata poco alla volta. Il matrimonio invece era stato una roba spiccia. Alessandro di amici ne aveva pochi, la maggior parte stavano al Sud o a Rebibbia, in galera. La famiglia non lo voleva vedere neanche dipinto, e quella di lei stava in capo al mondo, i soldi per fare i biglietti a tutti non cerano. Si presentarono in Comune nella data concordata, lui in un paio di pantaloni beige e camicia Armani, lei con un abito azzurro plissettato fatto su misura in una sartoria cinese, Ivonne vestita di tulle rosa, i testimoni in abito gessato e anello doro al mignolo. Lorena e il Miotti giurarono in fretta davanti alla legge che volevano legarsi a vita. Il viaggio di nozze non lo fecero mai. Subito dopo la cerimonia lasciarono Ivonne con il portiere e se ne andarono a bere qualcosa al lido di Ostia. Probabilmente si ubriacarono. Rimasero a dormire in un motel sulla spiaggia, dimenticandosi della bambina sepolta sotto il tulle rosa. La figlia non si era mossa dalla portineria, aveva giocato a pasticciare i post-it che le aveva rifilato Raul fino allora di cena. A notte fonda laveva presa con sé Inés, la moglie del peruviano, probabilmente sbraitando contro il marito che si faceva infinocchiare come uno scemo dal primo delinquente mezzo borghese.  

In quel periodo il patrigno di Ivonne aveva dei traffici di media importanza, tutti tra la spiaggia di Ostia e Trastevere, ma si dava parecchio da fare per camuffare i suoi connotati da criminale. Apparteneva a una famiglia onesta, tutti pasticcieri o commercianti, ma la vita tradizionale, che io sappia, non lha mai convinto. Si dice se ne sia accorto da ragazzino, vendendo torte di compleanno e bomboniere che aveva presto sostituito con pasticche, erba e roba taroccata che gli arrivava dai camorristi. Aveva più o meno venticinque anni quando iniziò a farsi spazio nel mercato romano, quasi una cinquantina quando gli fu assegnato Centocelle. Fumare non fumava, e neppure si vestiva con quella roba burina che smerciava in giro, anzi, se lo vedevi per strada sembrava uno assennato, uno normale. È di quelli che la droga la nasconde nella ventiquattrore e che per la maggior parte della comunità lavora nella lavanderia di sua proprietà, dove si limita a battere gli scontrini gonfiati per giustificare parte degli ingressi illegali. Ha uno stile di vita modesto o almeno si può dire che non sia uno spaccone e per essere uno degli intoccabili del quartiere non dà nemmeno tanto fastidio. Ha una macchina normale, una casa normale, e pure unattività-alibi normale. A volte Ivonne lo descriveva come il Padrino, ma è probabile che lo facesse solo per darsi delle arie e aggiungere delle pennellate drammatiche alla sua vita da adolescente di periferia.  

Io so queste cose non solo perché me le ha raccontate lei, ma anche perché nel nostro giro la maggior parte di esse sono di dominio pubblico. Eppure mia madre, per esempio, non ha idea di che razza di personaggio sia il signor Miotti. A casa mia sono tutti convinti che sia uno dritto, uno che nel suo piccolo ha creato posti di lavoro 

Ricordo ancora quando lo incontrai la prima volta. Stava seduto in macchina, alluscita delle elementari. Teneva lo sportello aperto e la testa tra le mani. Era vestito elegante, con in grembo la sua valigetta e ai piedi scarpe ben lucidate. Spiccava tra i genitori per la sua volontà di simulare un podi decenza. Gli altri papà della mia scuola se ne fregavano tutti. I pochi che mollavano il lavoro per venire a prenderci lo facevano in tuta, con le mani zozze di grasso per motori o unte di salame. I più raffinati venivano con la divisa dellimpiegato milleurista, maglioncino stinto e camicia col colletto ingiallito. Il mio non c’è mai venuto ai cancelli. C’è sempre stata mia madre, con giacchetta e mollettone infilzato nei capelli tinti di nero azzurrastro. Lha fatto fino alla fine della terza, poi in estate mi ha detto: «Lanno prossimo tarrangi da sola, sei grande abbastanza, io cho da fain casa», e allora ho iniziato a fare la strada verso le palazzine insieme a Ivonne, pure lei mollata dallinizio della quarta. 

Ci siamo piaciute subito io e Ivonne. Mi colpì dal momento stesso in cui la vidi entrare in classe. Salutò tutti con sufficienza, sollevando appena la mano. Indossava un broncio perenne che non risparmiava neppure la maestra. I capelli li aveva raccolti in una coda e la pelle era di un colore un poscuro, uno scuro diverso da quello che eravamo abituati a vedere. Era tra lambra e il color miele. Ho pensato subito che sarebbe piaciuta ai maschi, e quindi alle femmine, e che sarebbe potuta essere la mia occasione di riscatto sociale. Io ero una bambina esclusa dai gruppetti della classe, di quelle che durante lintervallo per la merenda leggono un libro o si portano avanti con i compiti per il giorno dopo. Avevo imparato a leggere a quattro anni e mezzo, e fin dal primo giorno di scuola mi comportai da mocciosa saccente, di quelle che hanno sempre la mano alzata. I miei compagni mi ridussero presto al più completo isolamento. In classe mi annoiavo, mi risvegliavo dal letargo solo quando sentivo Silvà, ahò, ma vuoi staattenta?, domanda che mi rivolgevano a turno il maestro di matematica e quella di italiano.  

Ero lunica in banco da sola, potevo stare sicura che me lavrebbero messa vicina. E infatti fu così 

Avevo tolto con un podi agitazione lo zaino dalla seggiolina accanto e lei si era seduta in silenzio, come un automa, senza presentarsi. Iniziammo a parlare soltanto alluscita, quando aspettavamo che qualcuno dei nostri genitori si facesse vivo.  

«Piacere, Ivonne.» 

«Io sono Silvana… Che carnagione bella che chai, sembri doro!» 

«Sono metà argentina. Mio padre è italiano, ma è morto schiacciato. La pelle lho presa da lui. Era un italiano un ponegro.» 

«Ah. Mi dispiace per tuo papà.» 

«Non devi dispiacertene. Era uno scemo drogato. Manco è stato buono a farmi diventare italiana su carta, non mi ha voluta riconoscere perché caveva unaltra donna prima di mamma.»  

Me lo aveva detto così, senza troppi giri di parole. Poi con i giorni aveva aggiunto la storia delle tegole.  

A scuola non vedevo lora che suonasse la campanella per iniziare a parlottare fitto fitto con lei. Le regalavo pure la metà del mio panino al salame, quello che preparavo tutte le mattine prima di andare a scuola. Mi ero accorta che Ivonne era strana come me, solo che lei aveva più ragioni per essere una bambina insolita. Di recente ho imparato una parola nuova, che credo la descriva alla perfezione: istrionica. Lei è una istrionica, una zebra con le strisce colorate, una che non è né carne né pesce, ma a cui sarebbe piaciuto essere entrambe le cose, essere tutto. Ha due nomi e due cognomi, ma per definirla basta solo il suo nome numero uno, grosso e ridondante, un nome che a Roma lo trovi solo tra le carovane rumene, o neppure lì. Io almeno non lavevo mai sentito prima. Sul cognome so poco. So che porta a malavoglia quello del patrigno da prima di incontrarci, più o meno da che è nato il primo fratellino, Amedeo. Non so bene come funzionino queste faccende di legge e di anagrafi, ma so che lei di cognome fa Duarte Miotti.  

Quando lho conosciuta parlava un italiano ambiguo, aveva una strana cadenza cantata, molto diversa dal romanaccio a cui ero abituata. Forse perché in casa sua vigeva un regime linguistico particolare. A Lorena si rivolgeva abitualmente in spagnolo, ma il Miotti, quando nacquero i suoi figli, aveva proibito che in casa sua si parlasse alcuna lingua al di fuori dellitaliano. Io ho il sospetto almeno da quando sono entrata in unetà in cui le cose si sono fatte più lucide e chiare che il patrigno avesse preso quella misura fascista perché non gli piaceva lidea che un giorno Lorena potesse fare i bagagli e svignarsela in Argentina con la comitiva.  

A Tucumán i fratelli di Ivonne non cerano mai stati. Isabel conosceva solo la nipote grande, da quellunico Natale trascorso insieme. 

La settimana dopo il suo arrivo alle elementari di Centocelle mi disse che se ne sarebbe andata per un ponella sua terra. Laveva chiamata proprio così: la mia terra. Era tornata a scuola puntuale dopo la Befana, tutta abbronzata e con dieci treccine. Quando le avevo chiesto come fosse andato il viaggio mi aveva risposto allincirca in questi termini: «Bene. Mi sono innamorata di mio zio, che in realtà è mio zio solo a metà. Abbiamo nonna Isabel in comune. È grande, ha quindici anni, ma comunque per adesso non se ne fa nulla. Anche se certe margherite dicevano il contrario. Lui però sta con unoca che si chiama Chantelle. Penso di tornare quando mi saranno cresciute le tette, cambierà idea in fretta.» 

Quelle parole mi fecero quasi slogare la mandibola. Non che io provenissi da una realtà ovattata, dove la parola tette in bocca a un bambino o la potenziale promiscuità in famiglia fossero una rara eccezione, però Ivonne il discorso me lo aveva fatto a voce alta, si era confidata direttamente con me e con nessun altro. Mi sentivo come se dovessi custodire un segreto importante, un qualcosa di grosso di cui io ero lunica testimone: lamore inattuabile della mia nuova amica, sabotato dallinsufficienza delle zinne. 

24 febbraio 2020

Aggiornamento

È online la mia intervista by Michela Girardi su Vistanet.
Si parla de Le figlie del barrio, delle 20 case che ho cambiato, di donne, femminismo e futuro prossimo.
Buona lettura!
LINK: https://www.vistanet.it/ogliastra/2020/02/24/le-donne-che-ci-piacciono-arianna-lai-da-sarroch-a-madrid-conta-capire-cosa-si-vuole-non-definire-come-lo-si-vuole-a-quello-ci-pensa-la-vita/
02 febbraio 2020

Evento

Madrid - biblioteca de "el secreto del lobo" (Calle Alcalá 5) Domenica 2 Febbraio presenterò Le figlie del barrio nella bellissima biblioteca del ristorante el secreto del lobo, nel cuore di Madrid. L'evento inizierà alle ore 18:00. È gradita una conferma di partecipazione.

Commenti

  1. Ho letto la prima stesura delle “Figlie del Barrio” tutta d’un fiato, spinta dalla curiosità per la vicenda e dal ritmo incalzante ma con quella remore tipica di quando non vuoi che il romanzo termini e smetta di farti compagnia.
    Le protagoniste sono da amare e odiare perché sono spesse e vive: non ci sono sconti, non ci sono macchiette, i cliché vengono sovvertiti perché in ogni personaggio e in ogni sua scelta è presente il bene e il male di ogni persona in carne ed ossa. La trama coinvolge perché si appiglia a quel sentimento di rivalsa che proviamo tutti quanti e ti accompagna negli eventi ad esplorare la relatività dei metodi per ottenerla.
    Un’esperienza di lettura molto piacevole. Lo consiglio a tutti.

  2. (proprietario verificato)

    Sono ovviamente di parte, tutti gli scarrafoni son belli a mamma soja, ma sono anche una lettrice difficile da accontentare. Bene… questo libro mi è proprio piaciuto!! Affronta i problemi dei giovani d’oggi senza fare sconti nemmeno alle odierne figure genitoriali, o troppo distanti o fintamente amichevoli, che, per convenzioni preconfezionate dalla substrato in cui “operano” non riescono ad esprimersi con veridicità ,opponendo spesso un comportamento violento , trasgressivo e deviato. Lo consiglio.

  3. (proprietario verificato)

    Ho finito neanche un’ora fa la bozza che Arianna ci ha regalato con il preordine del libro.
    Una storia forte, dei personaggi definiti, cristallini e mai fumosi pur nella loro fumosità emotiva dovuta alle età.
    Ho bevuto ogni singola parola.
    Consigliatissimo.
    Aspetto con ansia la mia copia cartacea.

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Arianna Lai
nasce a Cagliari, dove consegue la laurea triennale in Lingue e Comunicazione e la laurea magistrale in Filosofia e Teorie della comunicazione. Prima dei suoi studi universitari vive tra Roma e l’Asia per quattro anni, durante i quali lavora come modella. Dal 2014 inizia la sua carriera nel mondo della comunicazione digitale. Nel 2018 si trasferisce a Madrid, per poi stabilirsi definitivamente a Siviglia, città di cui si è innamorata durante l’Erasmus. Attualmente si occupa a tempo pieno di aiutare i liberi professionisti a creare la propria marca personale. Le figlie del barrio è il suo primo romanzo.
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