Arriva sempre un punto nella vita di ciascuno in cui si è spinti, anche se controvoglia, da un’atavica brama di compiutezza e giustificazione ad effettuare un bilancio della propria vita, delle proprie esperienze, dei propri successi e delle proprie disfatte, di quello che concretamente si è costruito, posto a confronto con quello che si intendeva costruire; e tale rapporto risulta immancabilmente ingrato. C’è sempre una causa scatenante, il più delle volte la vecchiaia – che si pone per antonomasia in atteggiamento critico verso avventatezza e superficialità giovanili – o un evento traumatico che genera una nuova prospettiva, sotto la cui meticolosa lente si analizza tutto ciò che la precede. Occorre perciò ripercorrere a ritroso il cammino che ha portato fino al giorno del giudizio riportando alla memoria, attraverso un laborioso sforzo, tutto quello che si ricorda. Molti trasmettono le proprie vicende personali alla penna o, più comunemente al giorno d’oggi, alla tastiera di un computer, dagli albori il mezzo classico per la dissimulazione della verità. Ogni strumento di rievocazione di eventi è, a dirla tutta, una rielaborazione degli stessi, e perciò intrinsecamente falsificato, perché mai sarà possibile ricreare in ogni sua contingente circostanza una qualsiasi situazione. Verrebbe da chiedersi allora perché arrabattarsi in un’impresa tanto dispendiosa quanto vana, ma qui ritorna il motivo dell’atavica brama: una parte di noi vorrebbe sottrarsi a questo calvario, ma l’altra parte glielo nega, direbbe Freud che si verifica un conflitto tra conscio e inconscio, tra Io ed Es.
E, quantunque sarebbe naturale che prevalesse l’Es, esso invece soccombe all’Io, temprato nella tirannica fucina del Super-Io a soffocare l’amor proprio. E allora non resta che piegarsi anziché spezzarsi e svolgere questo penoso incarico come meglio si può, tendendo a giustificarsi laddove ci sia anche solo un modesto appiglio, a rammaricarsi e biasimarsi per la maggior parte. Nella letteratura questo processo è, per forza di cose, più manifesto, così come in ogni altra forma d’arte. Ne è nato un vero e proprio genere letterario, l’(auto)biografia, spesso e volentieri presa in carico post mortem da un insegne e zelante studioso che riesce dipingerne un quadro impressionista. La biografia in delega è l’alternativa più diffusa, per l’ovvia ragione di ottenere così un resoconto più esauriente; non manca però qualche temerario che si arrischia ad essere biografo di se stesso, anche se più spesso per fini più nobili che non un mero autoscatto (o selfie?), come Agostino nelle Confessionies. Talvolta la biografia diventa magistralmente un espediente letterario, come nella Coscienza di Zeno: quale modo migliore per esaltare, parodiandola, la parola scritta?
Ed io che c’entro con questa pedante disquisizione? Voglio forse scoraggiare la lettura di un mio ipotetico lettore? Capisco perché tu possa averlo pensato, ma in realtà ti ho detto questo per due diversi motivi: per metterti in guardia e per chiederti aiuto, se ti va di concedermelo. Riguardo il primo punto, se hai intenzione di proseguire la lettura, ti avverto di non credermi, di dubitare di me tutte le volte che un particolare ti sembrerà artefatto – e lo sarà, senza dubbio, nonostante le mie buone intenzioni – con lo scopo di attuare il secondo punto, ovvero aiutarmi a trovare il filo rosso che mi ha portato dove sono ora. Ti chiederai dove sono ora, ma preferisco non dirtelo per non influenzarti. Quando e se comincerai questa storia, sappi che non sarò l’unica a raccontarla, sarà un romanzo a quattro voci, la mia e quella delle mie tre sorelle, le cui vite sono indissolubilmente intrecciate alla mia e, senza la prospettiva delle quali, questo racconto sarebbe monco. Spero così, con il loro apporto e con il tuo, di giungere ad una (pseudo)soluzione che possa offrirmi una chiave di lettura. Ti chiederai come farò ad aggiungere le loro versioni: non lascerò anche a loro la penna, non solo perché non ne avrebbero la minima voglia, ma anche perché questa è pur sempre la mia storia e voglio essere io a raccontarla, attraverso loro. Non comincerò dall’inizio, ma in medias res, e c’è più di una ragione. In primo luogo perché non ricordo con precisione la mia infanzia, cioè con dovizia di particolari, ne serbo solo una manciata di diapositive, e dunque un racconto potrebbe risultare troppo riassuntivo (sì, mi preoccupo anche della resa stilistica), o potrei cadere nella tentazione di romanzare troppo gli eventi. Questo non significa affatto che trascurerò questa importante parte della mia (e nostra) esistenza, ma si aggancerà a quella adolescenziale/adulta, schizzando improvvisamente sulla pagina come un pallone spinto sott’acqua. La seconda ragione è poi la più importante, ovvero voglio partire da un anno preciso, il 2014, perché credo sia stato l’anno della svolta per me e le mie sorelle. Non lo dico per qualche evento in particolare quanto piuttosto perché ho scoperto anni dopo che in quel periodo cominciammo tutte e quattro a scrivere. Diari, appunti, note, anche solo semplici pensieri sparsi, tutti concentrati in quei mesi. Le mie sorelle non sono mai state appassionate di scrittura e questo dettaglio è per me pervaso da una potenza magica di cui voglio rintracciare la sorgente. Quindi ho raccolto tutti i loro scritti sommandoli ai miei e, sulla base di essi, voglio redigere le mie memorie cercando di lasciare per lo più inalterate le loro parole e intervenendo solo sulla forma laddove fosse necessario. Per quanto riguarda la narrazione degli anni successivi non ho ancora pensato bene a come impostarla, perché il materiale – almeno quello non mio – è più esiguo, ma credo che deciderò in corso d’opera. La scrittura – ho scoperto – ha vita propria, s’impossessa di te e può prendere direzioni che non avresti mai pensato, quindi non si può mai immaginare dove riuscirà a portarti. Mi lascerò guidare da lei, come ho fatto per tutta la mia vita e mi piacerebbe che tu facessi questo viaggio insieme a me. Ora immagino che tu voglia sapere chi sia io delle quattro, ma non te lo dirò. Penso che tu sia abbastanza intelligente per capirlo e poi voglio anche incuriosirti. Non ti è chiaro perché?
Inverno
Capitolo I
Margherita – Daisy
Acqua. Acqua bollente. Inondava i capelli rendendoli lisci e più scuri. Attraversava il viso grondando dal naso, dalle orecchie, dalle ciglia, tra le quali si annidava un nugolo di miriadi di minuscole gocce che subito precipitavano negli occhi oscurandoli, portando le beate palpebre ad abbassarsi. Accarezzava il collo, si tuffava sulle spalle, scivolava sulle braccia per poi fermarsi sui seni, gocciolando dai capezzoli. Riempiva le mani, aggrinzendole. Atterrava sull’ampio ventre, dove restava quasi immobilizzata per qualche secondo. Riprendeva il suo tragitto, percorrendo le linee dei fianchi e slittando sulle gambe. Si arrestava sui piedi, quasi totalmente immersi nella pozzanghera quadrangolare creatasi nella parte inferiore della doccia. Infiammava la pelle, lieta di liquefarsi per plasmarsi in un modello migliore. Mi confondevo con l’acqua: la sentivo in ogni parte di me, non sentivo più me – a dire il vero. Era così calda da appannare i vetri, mentre parte di essa evaporava al di là delle pareti sottoforma di saette fumose, facendomi apparire il mondo esterno così sbiadito da non potermi più fare tanta paura. Mi sentivo protetta, al sicuro, come all’interno della mia mente, come nel grembo materno. Io non ero più io, quella timida, goffa, incapace; ero finalmente come avrei dovuto essere, come avrei voluto essere: radiosa come Ilsa in Casablanca quando chiede a Sam di suonare Mentre il tempo passa, risoluta come Lizzie in Orgoglio e pregiudizio quando rifiuta la proposta di matrimonio del signor Darcy e magnetica come Rossella in Via col vento quando, alla merenda alle Dodici Querce, è assediata da una ressa di uomini che dirige come un maestro d’orchestra. Potevo cancellarmi e ridisegnarmi a mio piacimento.
“Marghe! Ti vuoi muovere? È mezz’ora che stai in bagno. Si deve lavare anche Dalia.” – urlò irritata attraverso la porta mia sorella maggiore Rosa. Ed ecco che la magia sparì e precipitai fuori dalla mia confortevole mente, nell’estranea realtà. Spinsi verso il basso la manopola della doccia, determinando l’arresto repentino e traumatico della cascata d’acqua che mi stava seraficamente affogando e, armandomi di coraggio, aprii lo sportello, venendo investita dall’aria e dalla vita fredde esterne che mi pervasero. Afferrai frettolosamente l’accappatoio per avvertire per meno tempo possibile il cambiamento di temperatura e cominciai ad asciugarmi, sfregandomi energicamente con i suoi lembi. Fui nuovamente richiamata, questa volta da mia sorella minore Dalia, che mi ordinava alterata di farla entrare. Aprii la porta e lei si fiondò trafelata sul water, mentre io mi tolsi l’accappatoio riluttante di mostrare il mio corpo. Sentivo addosso il suo sguardo accusatorio e, colpevole, cercai di nascondermi più velocemente che potevo coprendomi con degli indumenti. Per smorzare la tensione, iniziammo a parlare dell’abbigliamento che avremmo indossato quella sera. Dalia si dimostrò seccata quando le dissi che avevo optato per la solita felpa e il solito jeans. Mi limitai a risponderle alzando leggermente le spalle, mentre assestavo decisi colpi di spazzola ai miei capelli, recalcitranti a liberarsi dei nodi che li aggrovigliavano. Lei invece avrebbe sfoggiato un vestito appena comprato, anche se si lamentava di doverlo sprecare per un’uscita con Giorgio, il fidanzato di Rosa. Si espresse con una battuta in napoletano che scatenò in me un’ilare risata. Quello era uno dei pochi argomenti su cui andavamo d’accordo, il nostro mancato apprezzamento di Giorgio. Trentanove anni, banchiere, eterosessuale con tendenze misogine. Lui e Rosa si erano conosciuti tre anni prima perché si era fratturato il femore giocando a tennis attraverso una dinamica tuttora oggetto di disamina. Così, pian piano, il rapporto tra un’ortopedica e un suo paziente si trasformò in una relazione d’amore. Un anno dopo Rosa ce lo presentò, ma io e Dalia non ne rimanemmo entusiaste. Sicuramente non è uno di quei tipi che colpiscono dal punto di vista estetico, presentandosi perlopiù stempiato e con un abbigliamento abbastanza datato. Quello che più infastidiva di lui era però il suo fare un po’ paternalistico e borioso, con il quale cercava di imporsi nelle nostre vite e nei nostri gusti, indirizzandoli verso le sue preferenze, assumendo già l’atteggiamento del padre che auspicava di diventare, ma che io non avevo mai avuto e di cui onestamente non sentivo il bisogno. Ad ogni modo, per indole, cercai di riabilitare Giorgio agli occhi di Dalia, spegnendo quel barlume di intesa che si era creato. Mentre Dalia si spogliava ed entrava nella doccia, io afferrai il phon dal comodino, lo accesi e cominciai ad asciugarmi i capelli con una mano mentre li scuotevo con l’altra. Dopo una decina di minuti, ottenuta un’elettrizzata e spenta chioma biondo-scura di ciocche indefinite, spensi il phon. Mi bloccai davanti lo specchio, fissando la mia sgradita immagine riflessa, sperando vanamente che la mia volontà potesse mutarla. Dopo qualche sterile minuto dissolsi la mia rappresentazione speculare uscendo dall’area di percezione della specchiera, agognando che anche ciò che rifletteva potesse svanire altrettanto semplicemente. Uscii celermente dal bagno, chiudendomi la porta alle spalle, e mi diressi in camera mia. Indossai subito i jeans ma, non trovando la mia felpa verde preferita, chiesi ad alta voce a Rosa dove si trovasse, dirigendomi contemporaneamente nella sua stanza. Lei era davanti lo specchio, elegante come Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany: tra le mani il mascara appena usato per allungare ancor di più le ciglia dei suoi grandi occhi castani, avvolta in un tubino nero, impreziosito il collo con un filo di perle, i capelli corvini raccolti in un’acconciatura elaborata. Mi complimentai con mia sorella maggiore per la sua bellezza – la stessa che io mi biasimavo di non possedere – e lei, nel ringraziarmi, mi indicò che la felpa si trovava sul ferro da stiro alle sue spalle, in cima agli indumenti stirati e piegati. Afferrai la felpa e la infilai, mentre Rosa procedeva con le sue raccomandazioni di rito sul comportamento ineccepibile da tenere durante la serata. Il suo ammonimento mi disturbò come al solito, ma come al solito accettai passivamente la sua inutile apprensione. Dopo aver calzato anche le scarpe, ero finalmente pronta ma, essendo in anticipo, mi sdraiai sul letto sfogliando il telefonino. La mia amica Cosima mi aveva inviato un messaggio in cui mi imponeva di andare al cinema il giorno seguente insieme a lei ed altri ragazzi, perché sarebbe stata la sua occasione di uscire con Riccardo, il ragazzo su cui aveva messo gli occhi. Non avevo idea di come sarei riuscita a convincere Rosa a farmi uscire in un giorno infrasettimanale, ma cominciai a cercare qualche scusa plausibile. Così le risposi rassicurandola sulla mia partecipazione ma, nel farlo, avvertii come un nodo alla gola. Sapevo bene di cosa si trattasse: Riccardo. Cioè non Riccardo in sé, ma ciò che rappresentava. Il suo ragazzo. O futuro ragazzo. Non faceva differenza. Non che io non fossi contenta di qualcosa che rendesse felice la mia migliore amica, ma avrei voluto che anche nella mia vita ci fosse qualcosa del genere. Come c’era nelle vite di tutte le ragazze della mia età. Io aspettavo e aspettavo, ogni giorno mi svegliavo sperando che fosse quello speciale, in cui avvenisse una svolta, un incontro fortunato, ma non succedeva mai. Non succedeva mai niente. Avevo quasi diciotto anni ormai e non ero mai uscita con un ragazzo. Nemmeno avevo mai dato o ricevuto un bacio. Figurarsi intraprendere una relazione intima. Mi sentivo anormale, diversa da tutte le mie coetanee, fidanzate o comunque continuamente corteggiate. Mi rendevo conto di non essere di una bellezza accecante, di quelle che fanno voltare di scatto le persone camminando per strada, da lasciare a bocca aperta (come la mia terza sorella, Viola). Anzi ero un po’ insignificante, una che passa proprio inosservata: non molto alta né abbastanza magra (anzi forse sarebbe il caso di utilizzare la parola obesa), i capelli biondo-cenere di un riccio crespo, un naso un po’ troppo largo e una spolverata di lentiggini, che dall’inizio della pubertà si alternavano anche a protuberanze cutanee; gli occhi abbastanza anonimi, una forma classica, color miele.
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