Vittorio osservava la luce che entrando, disegnava un quadrato luminoso sulle tavole del pavimento. L’attendeva, verso le tre del pomeriggio, spuntare dall’angolo della casa di fronte quando la luce del sole riusciva a superare il tetto e si infilava nella sua finestra ad illuminare la stanza. Lentamente diveniva un rettangolo allungato, poi un a lama di luce che saliva piegandosi fino al suo letto e per finire una linea che attraversava il cuscino. In quel momento sapeva che la giornata stava per finire, a breve sarebbe arrivata la sera; la luce definiva, testimone muta le giornate che passavano. Era l’inizio e la fine della giornata, le ore trascorse a mangiarsi le unghie fino a farle sanguinare. Quel raggio luminoso a volte entrava forte e diretto nelle belle giornate permettendogli di giocare qualche momento con le ombre sul muro e immaginare, lupi che divoravano pecore, rami e alberi che si muovevano al vento. Gli piacevano i raggi, quelli che producevano una luce dura dentro cui giocava la polvere, minuscoli granelli a rincorrersi, in un muoversi misterioso. A volte, nelle giornate coperte arrivava tenue, lattiginosa e densa ma anche quello bastava a fargli compagnia. Era ormai sera quando sarebbe potuto scendere dal letto, appoggiare i piedi sul pavimento e sbirciare dalla finestra del cucinino i passanti sulla via, le mamme con i bambini per mano, i camion e le macchine. Sua madre avrebbe preparato qualcosa da mangiare e suo padre avrebbe acceso la stufa che faceva quel bel tepore fino a che non era ora di andare a dormire. Alle sette del mattino sentiva i ragazzi che di sotto andavano a scuola, il loro vociare e le risate, le scarpe sul marciapiede. Poi tutto si spegneva e rimaneva il rumore delle poche macchine sulla via. Aveva spesso le gambe come addormentate, bianche, la pelle quasi trasparente per il poco moto e appena poteva faceva qualche piegamento e calciava come se avesse un pallone davanti a sé. Aveva compiuto sette anni.
Li aveva compiuti appena arrivati in Svizzera, con una torta fatta di uova e uvetta dolce, come una grande frittella che aveva mangiato avidamente. – È tutta tua – aveva detto sua madre. Poi gli avevano regalato un maglioncino grigio con i bottoni di metallo, nuovo senza buchi fatto da lei. La lana era dura e gli pizzicava il collo, ma ci aveva poi fatto l’abitudine. Dalla finestra della cucina si scorgeva un rettangolo di erba chiuso tra le case basse ma ne poteva scorgere solo una parte. Due pezzi di legno appoggiati a terra a distanza di tre metri, fungevano da porta. Un bambino stazionava davanti e si gettava a destra e sinistra parando un pallone mezzo sgonfio. Ogni tanto li vedeva correre con le braccia alzate, le ginocchia arrossate e sbucciate, mani in alto che si davano segnali di vittoria a pugni chiusi; a volte il bambino con la maglia blu si rifiutava di giocare e veniva preso a spintoni e strattonato per la maglietta, finché non faceva si, con la testa e accettava i dettami del gruppo. – Vittorio… – Sua madre lo chiamava sottovoce per sedersi a cena sulla panca a mangiare, ma lui lasciava gli occhi incollati alla finestra finché il giorno glielo permetteva. Lei, dunque, si alzava, lo prendeva per le spalle girandolo su sé stesso. Allora si sedeva arruffato come un gatto, prendendo dal cestino mezzo panino. Voleva sentire la mollica di pane che si attaccava al palato e giocando lasciarla la, senza che i genitori se ne accorgessero. Si scioglieva a poco a poco lasciandogli il profumo di pane che gli avvolgeva la bocca. Non voleva che tutto finisse troppo presto, si imponeva capricci che non aveva mai fatto, non voleva che sua madre sparecchiasse e che i suoi si ritirassero già nel letto di fronte al suo, stanchi dal lavoro. La tirava lunga, mangiando a volte troppo lentamente, raccogliendo poca minestra alla volta, tanto per perdere tempo. “Forza, che si fredda” gli diceva sua madre mentre sparecchiava il resto della tavola. All’ora di cena, puntualmente Nicola accendeva la radio che prendeva il sopravvento sulle parole e Vittorio sapeva bene quando poteva o non poteva parlare. Suo padre era assorto nell’ascolto e sua madre allungava le gambe da sotto al tavolo con i piedi infilati nelle vecchie pantofole di velluto. – Papa? – Provava ogni tanto – Vittorio, non adesso, tuo padre vuole sentire le notizie. – Lèna allungava la mano, carezzandogli la testa con i capelli castani. – Te se patì – Sei patito, vuoi un quadretto di zucchero? – Vittorio allora andava verso l’armadietto basso e tirando fuori la scatola di alluminio la porgeva a sua madre. La caramella era piccola e quadrata, Vittorio se la cacciava sotto la lingua e poi gli faceva fare il giro dalle guance finché diveniva piccola piccola. Il profumo di cannella gli rimaneva tra le labbra finché Lèna non gli strofinava la bocca per poi infilarlo dentro il pigiama rigido come uno stecco. Quando a sera i suoi rientravano dal lavoro, a volte assieme a volte prima sua madre, li sentiva salire per le scale, ma tratteneva il respiro finché non avvertiva i tre colpi alla porta. Era il segno che erano i suoi genitori che stavano entrando. La chiave allora girava nella toppa ma il rumore della porta che grattava sul pavimento lo faceva sussultare comunque ogni volta. Un giorno il proprietario dell’appartamento era salito e senza chiedere era entrato dentro e Vittorio aveva appena fatto in tempo a nascondersi chiudendosi nell’armadio in mezzo ai vestiti di suo padre. Aveva trattenuto il respiro, gli occhi chiusi e la schiena contro il fondo di legno. Li aveva sentiti, nel loro tedesco stentato spiegare al proprietario che non erano loro quelli che lasciavano le immondizie nel cortile, facendo accorrere i ratti grandi come gatti – Nein, wir sind es nicht – Non siamo noi – Lui aveva alzato la voce – Die üblichen Italiener! – e Nicola suo padre, continuava a cercare di discolparsi con le poche parole a disposizione. Se li avessero cacciati dall’appartamento, se avessero dovuto trovare un altro posto non sarebbe stato affatto semplice. Così aveva spiegato Nicola, quando quello se ne era andato. Poi l’uomo era andato via e Lèna quasi piangeva. Vittorio era uscito dall’armadio dopo mezz’ora anche se la porta di ingresso era stata chiusa con il chiavistello – Vei fora dall’armaro ! – Vieni fuori dall’armadio – ma Vittorio aveva preferito starsene la, con l’odore di naftalina. Allora avevano lasciato l’anta aperta, tanto sarebbe uscito prima o poi. Erano partiti da casa qualche mese prima, ormai non se lo ricordava neppure più quando era stato che aveva visto i suoi fare i bagagli e ficcare tutto in due valigie di cartone. Le avevano chiuse bene con la corda che usavano in campagna. Invece le sue cose erano finite nelle federe dei cuscini annodate con il medesimo spago. Lo zio Mario sulla porta continuava a dire – Ve troverè ben – Vi troverete bene – Ma Lèna aveva gli occhi lucidi ed era un paio di giorni che non parlava più. Girava per casa e selezionava le “cose importanti”, quelle che non avrebbe lasciato e quelle che avrebbe dovuto lasciare per forza; aveva dovuto selezionare con la testa e non con il cuore le cose utili, lasciando oggetti a cui era molto legata. Doveva organizzare i vestiti, prima di tutto; aveva fatto il giro dai parenti facendosi dare resti di lana, con i quali aveva sferruzzato dei calzettoni e delle maglie per Vittorio e per Nicola. Per lei nulla, la lana era poca e si sarebbe accontentata di quello che aveva. Aveva disfatto un vecchio abito di Nicola e aveva cucito dei pantaloni corti per Vittorio. Con una camicia poi aveva fatto una camicetta per sé. Poi il ritratto di suo padre e sua madre, quello nel portafoto fatto a libro era finito per primo in valigia. Non sapevano esattamente a ciò che andavano incontro, tutto gli pareva un’incognita, si affidavano al sentito dire; quelli che tornavano e dicevano che si, la si stava meglio e che a conti fatti si poteva sopportare la nostalgia, il dover imparare qualche parola di tedesco e che i franchi erano una bella opportunità. Non pensavano nemmeno a quanto freddo sarebbe stato, a dove sarebbero riusciti a trovare casa, quello che volevano era andarsene da lì, lo sentivano ormai un luogo dove non c’era la cosa più importante; la speranza. Aveva un bel dire Don Marino, quando teneva messa; abbiate fede e non sentirete la fame. La provvidenza e tutto ciò che di astratto c’era non riempiva la dispensa ormai da troppi mesi. Lui invece la fame non la pativa, con le offerte dei fedeli sicuramente non si faceva mancare il pane a tavola. Prima era arrivata la siccità, poi un inverno lungo dove si poteva solamente chiudersi in casa quando il freddo filtrava attraverso i muri e le finestre che gemevano quando il vento si infilava prepotente nelle fessure. Nel campo qualche cavolo, delle verze mezze macchiate e qualche patata messa in cantina dall’anno precedente. Le cipolle erano già finite all’inizio dell’inverno, l’oidio aveva fatto marcire quasi tutte le piante dell’orto in primavera, poi era arrivata la siccità e aveva fatto il resto. Mancava l’acqua corrente, se non avesse piovuto a sufficienza non si sarebbe riusciti a raccogliere l’acqua per il catino e se non fosse piovuto avrebbero avuto il pozzo a secco, non solo per coltivare ma anche per la casa. Girava tutto attorno alla maledetta acqua, era sempre troppa o troppo poca, le sementi erano care, il raccolto dell’orto scarso e si faceva fatica a scambiare le verdure con un pezzetto di carne, del lardo e del latte. Non c’era verso di scappare da quella miseria e dai pidocchi del letto, che non si riusciva a debellare. Erano stanchi e da quando era girata voce in paese che la, in Svizzera si poteva vivere meglio avevano preso quella decisione. Mezzo territorio del Bellunese si era svuotato, chi aveva coraggio era partito, gli altri chissà che fine avrebbero fatto. Erano settimane che vedevano gente con i pacchi caricati malamente sulle piccole vetture e sui trattori. La casa dopo quella decisione era stata svuotata di tutto quello che poteva entrare in quelle due valigie e in quei sacchetti, rimanevano le tazze sulla mensola della cucina, quelle che la nonna aveva regalato il giorno del loro matrimonio, questo era quello che diceva Lèna dicendo di fare attenzione a non romperle. – Son le tazze de me mare- Erano tazze ormai sbeccate e senza qualche manico, ma che a Lèna suscitavano ricordi; rimasero i quadri delle madonne, troppo grandi, appesi qua e là per la casa, i ritratti dei nonni sopra il letto, le brocche e i catini a fiori, i materassi a righe alzati dalla rete e appoggiati piegati affinché non ammuffissero. L’armadio, lasciato aperto che sembrava una bocca spalancata dove le poche grucce dondolavano per il giro d’aria. Era iniziato appena aprile, la neve se ne stava andando dai campi attorno alla casa di Limana, quell’inverno sembrava non finire mai. Lo zio aveva portato un fagottuccio con della polenta, una bottiglia di vino e un vasetto di marmellata che pareva già avere la muffa – per il viaggio -. Vittorio guardava il vasetto appoggiato sul tavolo; era tanto che non vedeva della marmellata. Muffa o no l’avrebbe mangiata, avrebbe sentito il sapore delle ciliegie scendere giù. Quanto tempo era che non si mangiavano dolci. Le galline erano morte quell’inverno, troppo rigido, solo la Nena era sopravvissuta, ma da sola e spaesata uova non ne faceva più, allora Lèna aveva mandato il marito a tirarle il collo e allora sì che quel giorno avevano fatto festa. Metà della gallina era finita nella cesta appesa fuori dalla finestra per conservarla qualche giorno, ma metà se l’erano mangiata con il cavolo che avevano raccolto dall’orto. – Tanto no poemo torla drio- Non possiamo portarla con noi-. Vittorio non ci voleva pensare che fosse la Nena, la gallina bianca con la punta delle ali nere, pensò solo che fosse buona e ne aveva bevuto il brodo caldo, dolce e oleoso. Fuori era ancora molto freddo, una lama entrava da sotto le finestre e la brina al mattino si attaccava al vetro creando disegni sempre diversi; dagli spiragli Vittorio guardava i campi ricoperti di gelo, un lenzuolo bianco e infinito. Era l’ultima sera, ficcato sotto le coperte guardava il soffitto. La luce che proveniva dalla cucina illuminava le poche cose rimaste, il crepitio del focolare tentava di rasserenarlo. Era inquieto, ma curioso al tempo stesso. Molti nel loro paese erano partiti, anche i genitori di Tonio, il bambino con il quale andava a giocare quando la domenica finita la messa. Andavano insieme a pescare con il retino o una canna di fortuna, i pesci sole nei rivoli dell’acqua di irrigazione e passeggiavano sui campi fino all’albero grande su cui salivano e rimanevano fino sera, finché i grilli non cominciavano a cantare e allora si salutavano per tornare a casa. Dove sarà Tonio? – pensò – Magari lo rivedrò e ci andrò a pescare ancora -. In cucina i suoi parlavano, li ascoltava zitto e gli era sembrato che la mamma piangesse. – Andiamo per lavorare. – No, te vorà miga stare qua a morir de fame, no ghe la femo più Lèna. – Non vorrai mica stare qui a morire di fame, non ce la facciamo più Lèna. – Lei rispondeva, solamente con lo sguardo. Nicola la rassicurava per quello che poteva, ma anche lui non sapeva dirle nulla del loro futuro. Avrebbe voluto dirle che tutto sarebbe andato bene, ma non era tipo da fare promesse. Le giornate erano lunghe, interminabili. Chiuso in quella stanza di Baden, l’unico vantaggio era quello di avere cibo buono e tutti i giorni e dimenticare i lavori dell’orto che lo avevano portato ad alzarsi molto presto quando era a Limana. In campagna, lo aveva imparato, non si rimaneva bambini a lungo. Per quanto piccolo fossi, i genitori trovavano sempre qualcosa che potessi fare. Vittorio per la prima volta forse si sentì inutile, e dove era in quel momento non trovò nulla che potesse andargli bene. L’unica cosa che faceva invece molto bene era attendere. Attendere che partissero, attendere che ritornassero, e tutta quella attesa gli regalava uno stato di ansia che si trasformava in brutti sogni, quando di notte a volte si svegliava di soprassalto, sentendosi così pieno di solitudine, in un vuoto che un bambino non riesce a spiegarsi.
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