[…] La cultura che a mio parere vive maggiormente l’intrecciarsi della realtà con le storie tramandate da intere generazioni, è quella giapponese. In Giappone il non umano è sempre stato di casa, traslandosi in un mondo ben lontano da tutti quei cavilli che sgomentano le società occidentali, evolvendosi e adattandosi alla società odierna. Quando qualcosa entra così tanto a far parte della cultura, il sovrannaturale e tutto ciò che lo circonda, diventano solo una delle tante cose con cui il mondo ci permette di sorprenderci. Le entità a cui spesso si fa riferimento vengono raggruppate sotto il titolo di Yokai, concetto che ingloba tutti i non umani e perciò esclusi da culti positivi come le divinità, Kami. Yokai da “yo” maleficio, fattucchieria, e “kai”, manifestazione inquietante, spaziano tra entità malevole, maliziose e portatrici di fortuna, che si dividono solitamente in tipologie animali, umanoidi e oggetti. Le leggende del Giappone sono insite nella quotidianità e man mano hanno preso una posizione alquanto ludica. Quella di cui tratteremo, ha come protagonista il fantasma di una bambina. Hanako-san è una bambina il cui spettro infesterebbe i bagni femminili delle scuole elementari giapponesi.
Normalmente vien descritta come una studentessa dalla carnagione molto chiara e i capelli a caschetto, che porta un’uniforme scolastica con la caratteristica gonna rossa. Secondo la leggenda Hanako si trova nella terza o nella quarta cabina del bagno, si può richiamare la sua attenzione bussando per tre volte alla porta corrispondente e domandando: «Hanako-san, sei lì?», oppure «Giochiamo Hanako san?» Una volta evocata, alcune versioni della leggenda affermano che tenti di trascinare la vittima all’inferno, in altre invece, la cara Hanako viene vista come una semplice e innocua mascotte. Secondo un’ulteriore versione, ella proteggerebbe la scuola da altri spiritelli. Hanako è solo una delle tante leggende protratte da questa cultura fino ai giorni nostri, collante a sua volta di altre creature del folklore, non lasciate a se stesse ma condivise ed esorcizzate, rese non per forza benevole, ma mostrate senza timore e accettate come facenti parte del mondo al confine tra realtà e fantasia. Ognuna di queste attinge costantemente dall’altra.
ESTRATTO BAMBOLA NAGASHI
Nel villaggio di Sayoko, l’unica famiglia fondatrice i cui discendenti erano rimasti in vita, era la Nagashi. I suoi membri si erano distinti per generazioni grazie alla creazione di meravigliose bambole ornamentali, dai materiali più pregiati e dalle fattezze estremamente eleganti. In tempi ormai lontani, tali bambole venivano alle volte commissionate in devozione ad uno spirito naturale o di differente origine. Si pensava che dedicando queste creazioni all’entità prescelta, esse riuscissero in qualche modo a rendere quest’ultima benevola nei confronti del proprietario e della sua famiglia. […]
Vi era tuttavia una bambola, creata dal primo artigiano della famiglia Nagashi, che ancora presiedeva sulla mensola della sala degli ospiti. Nonno Ruki raccontò al nipote come quest’ultima fu dedicata allo spirito del fiume, affinché proteggesse il villaggio dalle piene. […]
«Io lo so», ripeteva Ruki, «È solo perché nessuno la consacra più al fiume che è ridotta in quello stato, non c’è dubbio! Ma se chiedessi a tua madre di fare un tentativo, mi scaccerebbe via dal laboratorio prendendomi per rimbambito». Una sera d’estate, ormai ossessionato da quegli occhi vitrei che ogni giorno scandivano le sue giornate, Junji decise di portare la bambola al fiume, probabilmente più per liberarsene che per esaudire il desiderio di suo nonno. Certo che qualora se ne fossero accorti, difficilmente la colpa sarebbe ricaduta su di lui, che non aveva mai espresso pareri in merito.
Non appena essa toccò l’acqua del fiume, come immaginato da Junji, nessuna delle sue parti tornò all’originale bellezza. La bambola affondò e piccole bolle salirono ferocemente in superficie, come se stesse affogando. Un attimo dopo, sotto gli occhi attoniti del ragazzo, apparve una meravigliosa donna. Lunghi capelli bianchi incorniciavano il suo volto, e cristalli dalle forme grezze ricoprivano la sua pelle, riflettendo la luce lunare. «Sono immensamente felice che dopo tanti anni qualcuno mi abbia di nuovo offerto un dono, qual’è il tuo nome ragazzo?»
ESTRATTO IL GATTO DALLE QUATTRO ORECCHIE
Si narra che nel distretto di Cankaya, nei pressi di una scuola media, si aggirasse spesso un gatto alquanto peculiare. Il suo nome, dato dai ragazzini del luogo, era Iblis. Possedeva un manto di un meraviglioso grigio perla e i suoi occhi azzurri avrebbero incantato chiunque si fosse soffermato ad osservarlo, se solo non fosse stato dotato anche di quattro orecchie, due per lato, che raramente riuscivano ad attirare la benevolenza di qualcuno. […]
Akay era un ragazzo di 14 anni in quel periodo, amava molto gli animali, in special modo i gatti. Era sordo fin dalla nascita ma non aveva mai avuto problemi ad integrarsi. […]
Il ritorno a casa per Akay era quasi un viaggio, nessuno poteva venire a prenderlo, così si ritrovava ad aspettare ben tre autobus. Arrivato alla sua prima fermata, si sedette sulla panchina e socchiuse gli occhi, godendosi il profumo di Simit che con una leggera brezza lo raggiungeva da pochi metri più avanti. Intento a fissare il negozio con l’acquolina in bocca, non si accorse per tempo di una coda che con grazia gli sgusciò velocemente in mezzo alle gambe. La perdita di un battito scandì il balzo di Iblis sopra la panchina, restò lì, seduto in un angolo, quasi come se sapesse quale terrore covassero le persone nei suoi confronti. Si limitò a sforzarsi di far uscire un verso indistinto, che ben poco somigliava ad un miagolio. Fu Akay ad avvicinarsi a lui, «Sei un bravo gatto, non è vero?», sussurrò. Gli porse il dorso della mano e quando lui la leccò, gli rispose sbattendo lentamente gli occhi, come solo un gatto avrebbe potuto apprezzare, poi finalmente lo accarezzò. Fu brevissimi istanti dopo che al gatto caddero due delle orecchie. Akay si immobilizzò, ma non per quello che aveva appena visto, bensì, per quello che stava sentendo.
ESTRATTO MELUSINE
[…]«Figlio mio credo sia ora di parlarne più saggiamente, non troverai alcuna Melusina in giro per il mondo». Il figlio non lo ascoltò, non avrebbe mai creduto che quelle creature fatate non fossero mai esistite e partì per il suo viaggio. Dopo circa due anni di attesa, in cui il padre non poté far altro che lasciarsi divorare dai sensi di colpa, il figlio tornò. «Padre, ho viaggiato in tutto il mondo e visto cose meravigliose, ho preso moglie e ho anche trovato un lavoro onesto, ma non ho visto nessuna Melusina. Perché mi hai mentito?». «Figlio mio perdonami, non pensavo che quella storia sarebbe rimasta così tanto radicata nella tua mente. Le fate che hai imparato a conoscere, ahimè non esistono più. Siamo stati noi esseri umani a spodestarle», esordì, con voce rotta dal pianto. Poi aggiunse, «Avevano grandi ali e code da serpenti, dominavano la terra e i cieli, ma con l’arrivo dell’uomo, queste terre divennero troppo strette e pericolose per loro. Fu così che con immenso dolore si strapparono le ali, per rifugiarsi nelle acque più profonde dei nostri mari, finché anche le loro code non si ricoprirono di squame marine». […]
Il giorno dopo, la devota moglie trovò il suo corpo privo di vita, sembrava quasi come se illogicamente, fosse deceduto di morte naturale. Come se il suo animo, avendo perso lo scopo di una vita, avesse deciso arbitrariamente di lasciarne l’involucro. Conoscendo i suoi desideri, la moglie volle che fosse cremato e gettò personalmente le ceneri nel mare di Itachemi, con la speranza che il defunto amore potesse trovare la pace. In quel villaggio ormai cittadina, si dice ancora che nell’esatto punto in cui vennero gettate le ceneri, un canto soave incanti i passanti ogni anniversario della sua morte, come se quelle fate ormai per metà pesci, volessero dare omaggio a modo proprio a quell’anima tanto vicina al loro fato.
ESTRATTO RISVEGLIO DELL’ANIMA
Yanick era il figlio dell’ultimo Ougan del suo villaggio, sebbene molti facessero finta di non beneficiare delle pratiche di stregoneria del padre, in realtà gran parte della popolazione aveva almeno una volta deciso di fargli visita per richiedere le sue fatture. […]
Yanick sapeva molto poco delle pratiche del padre, l’unica cosa che gli era dato sapere era la sua mansione di sacerdote del villaggio. Tuttavia, questo non lo tratteneva dallo sgattaiolare all’interno di quella tenda delle meraviglie, dove ogni desiderio più oscuro poteva divenire realtà. Quel giorno Yanick ascoltò una richiesta che spalancò i suoi innocenti occhi, qualcuno avrebbe voluto mandare il suo defunto marito ad uccidere il proprio assassino. Quale macabra stregoneria avrebbe mai posto rimedio ad una simile e contorta domanda? Eppure suo padre non batté ciglio. Rivelò uno scomparto segreto di un vecchio mobile, dove all’interno vi erano innumerevoli boccette di vetro. L’uomo diede una di quelle ampolle all’interessata e spiegò il rituale da portare a compimento.
In preda allo shock Yanick fuggì dal suo nascondiglio. Non riuscì a prendere sonno le notti a seguire, un dubbio lo attanagliava. Se quella donna avrebbe davvero riportato in vita qualcuno solo per non sporcarsi le mani, perché lui non avrebbe potuto resuscitare sua madre? Perché per così tanto tempo suo padre l’aveva tenuto all’oscuro da quella idilliaca possibilità? Con la fiducia ormai persa, Yanik si intrufola nuovamente in quella tenda quando il padre è ormai uscito, da un’occhiata alle piccole bottigliette e nota che su ognuna c’è un nome diverso. Non comprendendo a pieno di cosa si trattasse, iniziò a cercare il nome di sua madre, senza però ottenere alcun risultato. In preda allo sconforto corse via verso il cimitero, gettandosi sopra la tomba della defunta madre in lacrime. Finché distrutto dal non poter concretizzare quella speranza, iniziò il rituale senza avere con se quella strana ampolla.
ESTRATTO UNA RISPOSTA DALLA LUNA
Vi era una coppia nel distretto di Gansu, sposata da due anni, che tuttavia non riusciva ad avere figli. Essendo in giovane età, i coniugi restarono positivi sulle loro sorti e non si fecero abbattere dal fato avverso. Ma dopo altri quindici anni di matrimonio, la coppia attendeva ancora un nascituro. Ogni qualvolta la tristezza li travolgeva, entrambi avevano l’abitudine di sedersi nel cortile per ammirare la luna in tutta la sua maestosità, ringraziare il cielo per la loro vita, e rammentare tutte le cose meravigliose che gli aveva dato in dono. Questo nutriva sempre la loro volontà, e riuscivano a tirarsi su di morale, trovando il coraggio di andare avanti. Dalla luna, con egual emozione, qualcuno li osservava da anni, e prendendo compassione per quest’ultimi, chiese il divino permesso per accorre in loro aiuto. La notte successiva, una luna piena sovrastava la loro dimora, quella era una delle notti in cui gli sposi erano seduti nel cortile. Una scia luminosa iniziò a scendere verso di loro, rivelando pian piano le forme di un coniglietto bianco, con sopra il dorso una piccola ciotola. Entrambi rimasero immobilizzati da quella creatura e allo stesso tempo affascinati dalla sua purezza. Il coniglio si avvicinò alla donna e abbassò il capo, come per invogliarla a fare uso di quella piccola tazza e a berne il suo contenuto. Appena ella la prese tra le mani, il coniglio svanì, come dissolto in piccoli granelli di polvere bianca cullata dal vento. La donna che reputava quel gesto un sicuro segno divino, guardò il marito con determinazione e bevve tutto d’un sorso il liquido contenuto all’Interno.
ESTRATTO IL FILO
Elia era un giovane estremamente perspicace ma anche molto sfortunato, di lì a breve infatti, la sua vita si sarebbe spenta senza che lui potesse far nulla. Gli ultimi giorni in cui si ritrovò inerme nel suo letto, terribili visioni lo attanagliavano, rendendo la sua discesa verso l’aldilà ancora più opprimente. […]
Una della notti più calme, il suo sguardo stanco fu attirato da qualcosa di mai visto. Un filo sottilissimo percorreva la stanza, un lembo legava le sue dita, l’altro capo si perdeva nell’oscurità. Interdetto da quell’apparizione, si alzò a fatica dal letto per seguire il per corso del filo. Alla fine della sua estremità lo attendeva un essere per nulla confortante, un corpo minuto di una giovane donna lo torreggiava dall’alto. «L’hai visto quindi, è raro che qualcuno giunga da me», disse pacatamente, continuando a filare con le sue lunghe e ossute dita. Quel filo era proprio lì, aggrovigliato insieme a tanti altri. «Non puoi spezzarlo, ho già finito di tesserlo, torna a letto», gli intimò. La sua presenza lì era terribilmente reale, difficilmente avrebbe potuto ignorarla così facilmente. Se quel filo era in qualche modo legato alle sue sorti, nulla avrebbe potuto impedirgli di tentare. Elia prese il filo tra le mani, provando a recidere le sue fibre a morsi, ma esso non si scalfì. Tentò poi di slacciare i piccoli nodi attorno alle sue dita, ma anche questo non servì a nulla.
«Ti ho già detto che non puoi, smettila di disturbarmi, torna a dormire», ripeté l’essere con sguardo indispettito. Il ragazzo non aveva nulla da perdere, nulla che potesse impedirgli di star lì a tentare per ore, ma il suo tempo gli stava col fiato sul collo. Si sedette di fronte a lei per riflettere, la osservò con attenzione. Se stava mentendo, la risposta che cercava doveva essere sicuramente nascosta davanti ai suoi occhi.
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