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L’importanza della caduta

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Rachele ha una sola religione: la letteratura. Ma ci sono domande a cui neanche i libri sanno rispondere, come chi siamo, che senso ha la nostra vita, perché soffriamo. Così lei si ritrova con molti dubbi e nessuno che glieli possa sciogliere. Per fortuna, nel banco dietro al suo è seduto Leonardo, il classico ragazzo circondato da amici, bravo in qualunque cosa faccia, attraente e carismatico, e tanto narcisista da credersi Dio. Ed è così che lei lo chiama, perché sembra essere l’unico in grado di darle delle risposte soddisfacenti. Tra loro c’è un tacito accordo: ogni giorno lei fa una domanda e lui le dà una risposta. Sarà abbastanza per permettere a entrambi di spiccare il volo?

Prologo
La scuola non era mai al primo posto.
I professori hanno sempre preteso da me e dai miei compagni di classe che prima della televisione, prima del cellulare, prima dello svago, prima della musica, ci dovesse essere la scuola. Nella nostra mente e nel nostro cuore, sulle nostre dita e nei nostri occhi, nelle nostre orecchie e sulle nostre labbra.
E la voglia di mandarli al diavolo, uno per uno, è sempre stata tanta.
«Non giriamoci troppo intorno, lo so io come lo sapete voi, i ragazzi della vostra generazione non leggono più.»
Che idiozia, eppure è questo che ho sentito dire dal mio professore di letteratura italiana il primo giorno di scuola, in seconda superiore. Un insegnante nuovo, sulla quarantina, che puntava a un liceo e che si è ritrovato, precario, in un istituto professionale.
E io lo guardavo e quasi volevo ribattere: E quindi? Perché ai suoi tempi si leggeva tanto, vero? E prima ancora e ancora prima si leggeva di più. Come no. Per gran parte della storia umana, i libri sono stati di proprietà del clero e degli intellettuali e la massa se li poteva sognare. I contadini di allora non avranno mai ficcato il naso tra le pagine di un libro, né per sentirne l’odore, né per assaporarne la storia.
A mio parere adesso si legge molto di più e per tanti ragazzi della mia età un buon libro è di certo qualche gradino sopra gli impegni scolastici.

Continua a leggere

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Non solo. Prima della scuola, nelle nostre menti c’è il ricordo dell’estate appena passata e di quella che deve venire, di un gelato mangiato in compagnia di un amico in terrazza, guardando il sole fare capolino da dietro le nuvole dispettose; e nei nostri cuori c’è un sangue di emozioni che vuole sgorgare, che vuole far soffrire e gioire per cose che sono accadute e che ancora devono accadere.
Sulle nostre dita ci sono le corde di una chitarra che vibrano delle note di una canzone ancora da scrivere, ci sono penne che disegnano, che compongono musica e parole, frasi mai dette o delle quali ci si pente, e c’è pelle. Tanta pelle, chilometri che non finiscono più, carezze e mancanze che sono le conseguenze di un senso sottovalutato e fondamentale: il tatto.
Nei nostri occhi c’è colore, ci sono speranze, c’è fatica, ci sono ricordi ed emozioni di esperienze delle quali non si vuole parlare o, al contrario, di cui si fa troppo sfoggio. Ci sono immagini di danze, di cose belle. C’è arte che rende bella tutta questa vita.
E sotto i nostri occhi ci sono libri. I libri, dei grandi come Leopardi, Brontë, Wilde, Orwell, e di artisti più recenti e sempre dannatamente bravi. Pile e pile di libri, ma – ancor più importante – ci sono storie. Ci sono le incredibili, appassionanti storie di Valentina D’Urbano e di Enrico Galiano.
Nelle nostre orecchie c’è musica. Quella vera, come una ballata per pianoforte, una canzone imparata da bambini, una storia cantata o una poesia parlata su una base musicale.
E sulle nostre labbra c’è di tutto, meno che l’interrogazione per l’esame orale della maturità. Ci sono racconti, reali o di fantasia, e bestemmie, parolacce, deliri e sogni. Sulle nostre labbra c’è poesia, ci sono abbracci, promesse, morbidezza e baci. Soprattutto, ci sono quei baci che sono stati solo un’attesa e che al traguardo non ci sono mai arrivati.
Quelli sono i migliori.
Forse tutto questo non è nulla di speciale, forse gli adulti hanno dimenticato e i bambini sono ancora troppo piccoli per capire.
«Siete adolescenti, non avete voglia di spaccare il mondo?» ci ha detto un giorno quello stesso professore.
Ma se è il mondo che sta spaccando noi.
Tu per primo, stronzo che non sei altro, che cerchi di affondarci, di sminuirci col tuo “Voi non leggete”, che a momenti posso correggerti mentre spieghi la lezione.
Sono quelli come te che ci spaccano, aprendo prima delle crepe, per poi infierire, colpire, rompere, finché tutto non cade a pezzi.
È questa la parola fondamentale: cadere.
Gli adulti vogliono insegnarci a volare, vogliono che nella vita ci realizziamo, che siamo perfetti, invincibili e forti.
Dovete insegnarci a cadere, idioti!
Non dovete proteggerci e non dovete nemmeno pretendere da noi la perfezione. Fateci sbagliare, fateci cadere e poi aiutateci a rialzarci, perché farci morire dissanguati a terra, per la delusione di ciò che siamo stati, nuocerà a noi e a voi.
Prima della scuola ci sono i libri, l’amore, le citazioni, la penna, la rabbia bestiale, gli istinti, un pianto silenzioso, la compassione e la consolazione, gli abbracci, i testi di Mostro. C’è un bacio mancato in un vicolo buio e il suo conseguente, malinconico rimpianto.
E c’è la caduta.

Lo schianto

Quando morirò?
Certi libri li si finisce e ci si chiede se si sarà in grado di leggere ancora qualcos’altro, tanto sono stati sconvolgenti.
Certi libri, per assurdo, grazie al talento e alla bravura del loro autore, fanno affiorare alla mente ricordi di eventi che nemmeno sono mai capitati.
Certi scrittori, poi, sarebbero da prendere a schiaffi, soprattutto per la rabbia, perché sono in grado di far emergere emozioni che si cerca in tutti i modi di seppellire, di far appassire, o che invece mai si erano provate e che sarebbe stato meglio continuare a evitare.
Quelli però sono gli scrittori migliori.
Esistono anche delle persone che sono così. Persone in cui ci s’imbatte nella vita e che mai ci si aspetterebbe d’incontrare, e sulle quali ci si deve ricredere rispetto alla prima impressione avuta.
Infine, ci sono persone che portano a domandarsi se sia stato un bene o un male averle trovate.
Ne ho conosciuta una, una volta.
C’era questo ragazzo, seduto nel banco dietro al mio, che aveva una specie di complesso di superiorità, quasi credesse di essere Dio.
E io glielo dicevo sempre: «Non sei Dio». E lui rispondeva: «Certo che lo sono, vedi che c’è il sole, oggi? C’è perché sono felice, e quando piango, invece, piove».
«Ieri mica hai pianto» gli facevo notare, e lui mi rivolgeva un sorrisetto enigmatico, come a dirmi che di questo non potevo essere sicura, che non lo sarei mai stata.
«E se sei Dio allora apri la finestra e vola. Vola via.»
Al che lui, un giorno, si è alzato nel bel mezzo della lezione, ha aperto la finestra, con sette gradi sotto zero che entravano tutti nell’aula, e ha detto: «Vola», per poi tornare a sedersi.
«Ma io ti ho detto di volare via.»
E così ha ripetuto lo stesso gesto, modificando la frase in “Vola via”. Ma non mi bastava, volevo che mimasse con le mani il gesto di volare. A questo punto chiunque mi avrebbe mandata a cagare, con tanto di insulti per condimento, ma lui si divertiva, non gli importava, non so se della mia testardaggine o della lezione di scienze, così si è alzato una terza volta, ha aperto la finestra e ha pronunciato: «Vola via», alzando e abbassando le mani come le ali di un passero. Poi è tornato a sedersi e mi ha guardato con espressione soddisfatta. La prof non gli ha detto niente, perché cosa vuoi dire a uno così? E poi tutti gli erano affezionati, tutti ne erano affascinati e rapiti. Io stessa lo ero, non l’ho mai negato, ma non ho neanche mai cercato niente di particolare nel nostro bizzarro rapporto.
«Guarda, adesso faccio una magia» mi ha detto un’altra volta, tenendo in mano un foglio di carta. «Lo trasformo in un aeroplano.»
«Ma gli origami li sanno fare tutti» gli ho fatto notare. «L’aeroplano è troppo facile!»
«Mi sto solo scaldando. Adesso faccio un ciccione.»
«Un ciccione?»
«Sì, io adoro i ciccioni, sono morbidi. Ne vorrei uno per Natale.»
Nel frattempo aveva arrotolato il foglio di carta fino a farlo diventare una palla e se l’era posato sul palmo della mano. Un ciccione.
«Ancora troppo facile.»
Però dentro di me ridevo. Forte.
«Per il gran finale… trasformerò questo foglio in un camaleonte.»
«Voglio proprio vedere!»
Aveva il foglio aperto sul banco. Mi ha detto di girarmi e l’ho fatto. Inconsciamente sapevo già quale sarebbe stata la battuta, ma lui è stato più veloce della mia mente. Mi sono voltata di nuovo, e sul banco non c’era più niente. Il foglio era sparito.
E lui ha guardato un po’ me, un po’ le sue mani, e poi ha fatto una faccia mortalmente seria, neanche fossimo a un funerale.
«Si è mimetizzato.»

Da lui mi aspettavo soltanto una cosa, ogni giorno, dopo la scuola.
In quella classe non stavo bene, non lo sono mai stata in mezzo alla gente, ma lì ci ero arrivata due mesi dopo l’inizio della prima superiore, quando avrei dovuto fare seconda, perché prima avevo tentato col liceo musicale, poi con una bocciatura assolutamente riuscita, quindi con le magistrali e, infine, mi ero accontentata con grande gioia di un professionale.
Non riuscivo a integrarmi, non ci provavo nemmeno e soltanto con qualche professore mi trovavo bene, perché avevo subito realizzato che gli insegnanti lì erano migliori che in un qualsiasi liceo.
Non mi importava di farmi degli amici. Prendevo buoni voti, restavo a galla, avevo un discreto rapporto con i docenti, cosa che di solito non accadeva mai, e da quel punto di vista tutto andava discretamente bene.
E poi c’era l’uscita alle tredici e venti, la corsa fino alla fermata del pullman, l’attesa, sulla panchina, di lui, di Dio, che mi passava davanti, con il cappuccio della felpa grigia calato sulla testa, il ciuffo di capelli castani tra gli occhi color nocciola, tanto maliziosi e beffardi quanto teneri e sinceri, e lo sguardo perso nella nebbia di un inverno che non si decideva ad arrivare.
«Ciao Dio» gli dicevo, richiamando la sua attenzione. Si fermava, mano sulla bretella dello zaino, si girava e mi cercava con lo sguardo, abbassava le palpebre e le ciglia chiare gli ricoprivano le iridi.
Sì, ciglia chiare e occhi scuri.
«Quando morirò?»
«Quando lo deciderò io.»

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Lettura per tutte le etá, idea regalo ottima

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Raika Fallen
(psuedonimo di Roberta Azzalea utilizzato sulla piattaforma di wattpad) è nata ad Aosta nel luglio del 2000. Innamorata da sempre dei libri, ha imparato a leggere a tre anni e ha iniziato a scrivere non appena è stata in grado di impugnare una penna. Dopo aver sperimentato tre diverse scuole superiori, si è diplomata all’istituto professionale dei servizi socio sanitari e, pur sapendo di non voler mai abbandonare la scrittura, sta ancora cercando la sua strada. L’importanza della caduta è il suo romanzo d’esordio.
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