Ci trasferimmo nel nuovo appartamento, davanti a quello della famiglia di Maria Antonietta, quando avevo undici anni. Si trovava in una tipica casa di ringhiera della vecchia Milano, in uno di quei quartieri decentrati che, fino a poche decine di anni prima, erano quasi un mondo a sé stante. Allora ovviamente non ne sapevo nulla, la mia città mi sembrava un gran calderone di macchine, persone, negozi, ma i racconti di Maria Antonietta della sua giovinezza avevano dipinto ai miei occhi l’immagine di una città che non esisteva più. Dove io vedevo lunghe strade percorse da autobus o piazze con le scale di ingresso alla metropolitana c’erano prati e campi e a poca distanza addirittura cascine. Il trasloco della mia famiglia comportò un cambiamento totale di abitudini per me. Nuova casa, nuovo quartiere, nuova scuola. Non ero molto socievole, forse un po’ timida, e le poche amiche che avevo erano preziose, ma con il trasloco, basta, fine dell’amicizia. D’altra parte, cosa puoi fare quando ti trasferisci dall’altro capo della città e sei solo una ragazzina?
Nonostante la loro vita frenetica, i miei genitori erano persone cordiali che avevano a cuore i rapporti con i vicini di casa, per cui subito dopo il trasloco vollero fare conoscenza della famiglia di Maria Antonietta.
Il loro pezzo forte, quando si presentavano, era subito di scusarsi per i loro orari sregolati. L’avevo sentito decine di volte.
“Ci scusi maestra, non è che non vogliamo partecipare alle riunioni di classe, ma sa, io e mio marito lavoriamo in ospedale e abbiamo dei turni assurdi!”
“Scusateci se faremo un po’ di avanti e indietro durante queste vacanze! Abbiamo affittato questa casa per stare tutti e due un po’ con nostra figlia senza doverla sballottare, ma capiterà di arrivare a orari anche un po’ strani, speriamo di non disturbarvi. Siamo entrambi medici e abbiamo dei turni assurdi!”
Così anche in quella occasione sentii le stesse parole “Speriamo di non disturbarvi con i nostri folli orari. Lavoriamo in ospedale e i turni sono assurdi!”, ma, a differenza delle altre volte, in cui spesso la risposta era di circostanza, condita da sorrisi un po’ forzati, in quella occasione restai sorpresa: Maria Antonietta fece un sorriso sollevato e li rassicurò dicendo che il disturbo eventualmente provocato dal loro andirivieni non sarebbe stato nulla rispetto alla confusione che facevano regolarmente i suoi figli. Li presentò come un terzetto di barbari che lei si affannava a mantenere puliti ed educati, ma dalla sua espressione si capiva quanto li amasse. Mi guardò, mi strizzò l’occhio e non so perché mi sentii un po’ meglio.
«Elisa, devo darti una brutta notizia, la mamma è morta stanotte.»
Un tumulto di emozioni si fa strada dentro di me: tristezza, senso di separazione, rimpianto. Lo so che è giusto così, non era difficile immaginare che il tempo a sua disposizione si stesse esaurendo. Nell’ultimo anno le sue condizioni erano peggiorate tantissimo, non riconosceva più nessuno. Durante la mia ultima visita non aveva più riconosciuto neanche me, nonostante io fossi l’unica persona, insieme a Matteo, con cui era riuscita negli anni, prima del suo chiudersi totalmente al mondo, ad avere una sorta di dialogo.
Mi ricordo come esprimesse la sua felicità quando mi vedeva arrivare “La mia Elisa! Come stai?” e poi iniziava a chiedermi dei suoi tre figli che, a seconda della giornata, erano i miei tre figli o miei fratelli. Quando, all’inizio del suo ricovero, cercavo di ricordarle come stessero veramente le cose, assumeva un’espressione dispiaciuta e si chiudeva in se stessa, così che la gioia inizialmente provata nel vedermi svaniva subito.
“Scusami” mi diceva “ormai sono così smemorata, qui siamo tutti vecchi, abbiamo solo i ricordi, ma capisco che i miei stanno andando a farsi friggere.”
Così decisi di stare al gioco, perché capii che era molto più importante farla sentire felice e viva per un’ora piuttosto che volerla riportare a tutti i costi a una realtà che ormai faceva fatica ad afferrare.
Non era stata una scelta facile decidere di ricoverarla in una struttura per anziani. So che i suoi figli avevano setacciato tutti i ricoveri per trovare il posto ideale, che però non esisteva e suppongo non sarebbe mai esistito ai loro occhi. Ho conosciuto poche famiglie dove i figli avessero un legame così forte con la loro madre. Parlavano, ridevano, discutevano, facevano pace, ma il senso di protezione reciproca era quasi palpabile. Cara Maria Antonietta, mi ricordo come, anche negli ultimi tempi, si creasse tutt’altra situazione quando i suoi figli andavano a trovarla, ma soprattutto quando arrivava Matteo. Con lui ritornava lucida e presente come una ragazzina. Gli raccontava episodi della sua adolescenza di cui a volte anche lui si era scordato. Ridevano insieme felici come due amici che si ritrovano dopo una lunga lontananza. Quando c’era Matteo esisteva solo lui. Mi ricordo una volta in cui andai a trovarla e arrivò. Fino a quel momento era stata una giornata buona, avevamo chiacchierato abbastanza realisticamente (anche se mi aveva chiesto come mai mi fossi tinta i capelli di castano che invece era il mio colore di sempre). Nel momento in cui entrò Matteo, tutto si annullò: dopo averlo abbracciato, guardato con occhi adoranti, essersi fatta raccontare come andava il lavoro, si girò verso di me e poi chiese a Matteo “E questa bella ragazza chi è? La tua nuova fidanzata?”
L’INIZIO DELL’AMICIZIA
La mia amicizia con Maria Antonietta iniziò un pomeriggio di novembre. Quel giorno a casa non avrei trovato nessuno, perciò mia madre si era tanto raccomandata, fino allo sfinimento, di mettermi in tasca le chiavi di casa. Ovviamente le chiavi rimasero sul mio comodino. A scuola era andata malissimo: i miei compagni mi odiavano e io odiavo loro. Mi mancava la mia vecchia scuola, un bell’edificio moderno dove passavamo da uno spazio all’altro secondo l’attività che dovevamo svolgere. Compiendo gli anni a dicembre, avevo iniziato le scuole medie che ancora non ne avevo undici, mentre alcune mie compagne ne avrebbero compiuti dodici entro breve. Mi sentivo così piccola e la mia timidezza non mi aiutava. Avevo sentito mia mamma decantare questa scuola come la migliore quando parlava al telefono con i miei nonni e io, prima di iniziare a frequentarla, non vedevo l’ora di finire le elementari. Poi l’impatto non era stato facile, era tutto così diverso e un paio di ragazzine mi avevano preso di mira per le loro prese in giro. Fortunatamente altre due, che le conoscevano già avendo frequentato la stessa scuola elementare, mi presero sotto la loro ala protettrice e dopo qualche settimana quella scuola si rivelò davvero un’ottima scelta e io mi ambientai benissimo. Ed ecco che tutto questo non esisteva più: i miei genitori avevano fatto una scelta senza tener conto di nulla di ciò che pensavo. La scuola del nuovo quartiere era vecchia (con un fascino antico, diceva mia mamma), avevo rischiato un paio di volte di perdermi e c’erano troppi bambini. Prima stavo a scuola fino alle 15:00, qui invece ogni giorno uscivo alle 13:30 e il più delle volte mangiavo a casa da sola. Aveva un bel dire mia mamma che la situazione sarebbe migliorata e che anche in questa nuova scuola avrei fatto nuove amicizie. La mia vita faceva schifo. Tornai a casa da sola, faceva caldo, troppo per il giaccone che avevo indossato quel giorno. Mi sentivo come se anche il clima ce l’avesse con me. Arrivai a casa accaldata, stanca e demoralizzata, trascinando il mio zaino su ruote e passandomi da un braccio all’altro la giacca che avevo tolto.
Giunta davanti alla porta, mi ricordai di non avere le chiavi e fu come se il mondo mi crollasse addosso. Mi sedetti per terra davanti alla porta di casa e iniziai a piangere. Non so perché, incominciai a singhiozzare, lasciando che tutta la frustrazione della giornata mi travolgesse. Ero così disperata da non accorgermi che la nostra vicina si era affacciata alla sua porta, era uscita ed era venuta verso di me. Mi chiese delicatamente: «Ehi, ma che ti succede?». Io sussultai, perché non l’avevo sentita, ero troppo immersa nella mia disperazione.
Non riuscivo a risponderle e allora lei sollevò il mio zaino, mi fece alzare e mi fece entrare in casa sua. Fino ad allora non era mai successo. Maria Antonietta mi parlava sempre in modo simpatico e gentile quando ci incrociavamo, un paio di volte ero stata mandata da mia mamma a chiederle un po’ di zucchero o un limone, ma non avevo mai visto la sua casa.
Aveva un aspetto completamente diverso dalla nostra, nonostante le stanze e la disposizione fossero uguali: un ingresso su cui si affacciavano una grande cucina e la sala, una porta che dava sul corridoio della zona notte, che vidi quando Maria Antonietta mi invitò ad andare in bagno per lavarmi le mani e la faccia. C’erano tre stanze, il bagno principale e un piccolo bagno di servizio. I pavimenti erano diversi, fatti di bellissime mattonelle esagonali di vari colori. I miei genitori avevano voluto mettere il parquet in tutta la casa. Oltre a questo, si notava come il gusto di Maria Antonietta fosse più semplice rispetto a quello dei miei genitori che apprezzavano uno stile più moderno.
Quando tornai in cucina trovai la tavola apparecchiata per due e un piatto già servito con risotto. In cucina c’era una porta finestra che dava su un piccolo balcone interno. Le tendine erano a quadretti bianchi e gialli. Sembravano grembiulini dei bambini dell’asilo e io ricordo ancora oggi quella sensazione di casa, nonostante fosse la prima volta che entrassi in quella stanza. Maria Antonietta mi fece cenno di sedermi e mi augurò buon appetito. Lei non si sedette e continuò a trafficare ai fornelli. Sul fuoco acceso c’era una moka rossa che teneva d’occhio.
«Signora Maria Antonietta, lei non mangia?» le chiesi.
Lei mi rispose con un’allegra risata: «Caspita! Mi fai sentire davvero importante! Chiamami Maria e dammi del tu. Io ho già mangiato, sto aspettando mio figlio. Ora bevo il caffè e poi devo tornare al negozio di ferramenta. Devo assolutamente fare un po’ d’ordine in magazzino. Mangia, dai! A che ora arrivano i tuoi?».
«Verso le quattro» risposi.
«Allora dobbiamo avvisarli che sei qui,» disse «hai il loro numero?»
«Ce l’ho segnato sul diario.»
Si sedette al tavolo, bevve il caffè, poi le diedi il diario e andò verso l’ingresso. La sentii parlare con mio padre rassicurandolo che potevo restare lì fino al suo arrivo.
Io intanto avevo iniziato a mangiare e osservavo i particolari della stanza. Era così diversa dalla mia cucina. C’erano tanti pensili e gancetti ovunque per appendere asciugapiatti, presine, mestoli, un calendario, una sbarra che sosteneva dei vasetti con piantine varie, una lavagnetta magnetica dove erano scritti i nomi dei suoi figli e alcuni appuntamenti.
Provavo delle sensazioni miste: un senso di non appartenenza a un ambiente che mi sembrava un po’ povero e al tempo stesso un desiderio acuto di farne parte.
Quando Maria tornò, si sentì suonare alla porta e andò ad aprire a suo figlio Matteo.
Era la prima volta che ci incontravamo così da vicino. Lui aveva sedici anni e io ero imbarazzatissima. Aveva i capelli neri e gli stessi occhi verdi di sua mamma, ma non le assomigliava assolutamente. Entrò in casa facendo una gran confusione e stava cantando quando passò davanti alla cucina e si accorse della mia presenza. Si fermò di botto e disse «Ah, ciao!» cercando con sguardo interrogativo gli occhi di sua madre. Maria Antonietta gli servì il risotto, poi gli disse che sarei rimasta lì con lui fino all’arrivo di mio padre, gli raccomandò di essere gentile e, se io fossi stata ancora lì verso le 16:30, di offrirmi la merenda. In quel momento ebbi la tentazione di chiedere a Maria Antonietta di portarmi in negozio con lei pur di non restare sola con Matteo.
Lei mi guardò e mi disse ridendo: «Stai tranquilla, Elisa, sembra matto, ma non lo è!».
Poi gli diede un bacio, mi fece una carezza in testa e se ne andò.
Iniziò così uno dei pomeriggi più lunghi e più meravigliosi della mia vita. Io ero abituata a stare da sola e quando finimmo di pranzare, nonostante Matteo mi avesse chiesto se volessi guardare un po’ di televisione o ascoltare della musica, gli dissi che dovevo fare i compiti.
«Vuoi stare qui in cucina?»
«Sì, va bene.»
Mi sembrò sollevato. Ripensarci ora mi fa sorridere, chissà cosa aveva pensato ritrovandosi da solo a gestire una ragazzina di undici anni di cui non sapeva nulla. Poi, non so se per tenermi d’occhio o per non farmi sentire sola, a un certo punto arrivò anche lui con i suoi libri e si mise a studiare seduto al tavolo della cucina con me. Ogni tanto scambiavamo qualche parola e l’imbarazzo iniziò a sciogliersi. Mi raccontò della sua scuola, di quello che lui e i suoi compagni combinavano, imitando i professori, e io alle 17:00 ero già innamorata di lui e pronta a sposarlo. Mio padre tardava e io speravo che tardasse ancora di più. In realtà quel pomeriggio non facemmo nulla di particolare: dopo i compiti, mangiammo una merenda e poi Matteo mi chiese se mi piacesse la musica. Risposi di sì e che ascoltavo sempre la radio, soprattutto quando ero a casa da sola.
Lui sorrise e mi disse: «Vieni in sala».
Mi sedetti sul divano e tirò fuori un vinile: «Guarda, questo l’ho appena comprato da una bancarella sui Navigli. È vecchissimo, vuoi sentirlo?». Fu il mio battesimo con i Pink Floyd, l’album era Wish you were here.
Verso le 18:00 arrivò suo padre. Matteo gli assomigliava tantissimo! Stesso sorriso, stessi capelli, stessa corporatura, appena poco più alto. Dopo poco arrivarono anche i suoi fratelli e si creò un gran trambusto in casa. Avevano diciotto e quattordici anni e venivano entrambi dagli allenamenti di calcio. Il più grande, Giorgio, non mi guardò né mi rivolse la parola, mentre Andrea, che sembrava più piccolo della sua età, almeno mi disse “ciao”.
Era tardi, la magia del mio pomeriggio con Matteo si era ormai spezzata, ero stanca e volevo andare a casa mia, ma mio padre non arrivava.
Verso le 19:00 rientrò anche Maria Antonietta che si stupì di trovarmi ancora lì, ma non si scompose minimamente.
«Vorrà dire che ora cacceremo tutti questi uomini dalla cucina e mi farai compagnia mentre preparo la cena. Ti va? Così poi mangi con noi. Voi, fuori di qui e andate a sistemare tutte le vostre cose. Poi apparecchiate in sala, voglio trattare bene la nostra ospite!»
Poi rivolgendosi al marito disse: «Ciao Rudy, come stai? Mi sembra di non vederti da una vita, dammi un bacio». Io mi sentii un po’ imbarazzata, non ero abituata a queste scene.
I miei genitori erano affettuosi con me e anche tra di loro, ma sempre in una maniera misurata, come se fosse meglio non farsi scoprire. Qualche volta li trovavo sul divano abbracciati a guardare un film, ma appena entravo in soggiorno mio padre toglieva subito il braccio dalle spalle di mia madre, che si alzava per andare in cucina a prendere qualcosa da bere o a prepararsi un tè. Questa era per me la normalità degli affetti.
Certi Libri
Il libro di Clara Carelli non si pone solo come un agile esaltazione dell’amicizia nell’accezione più nobile del termine.
Vuole essere, più che altro, un inno alle “case piene”.
A quelle “case”, cioè, così accoglienti da dar vita ad un nucleo familiare allargato e permanente.
Un luogo tale da dar rifugio a quei ragazzi le cui famiglie presentavano, per i motivi più svariati, un deficit di affettività.
La protagonista Elisa presenta non a caso in tal maniera la propria dimensione familiare:<> (pag.17).
Sulla base di tali sentimenti appare così quasi consequenziale la ricerca di un nido più caldo ed accogliente.
Quello, appunto, costituito dalla casa della coprotagonista Maria Antonietta.
Elisa, infatti, afferma: <>(pag.20).
La stessa struttura del testo intende riflettere l’esigenza di palesare questo tandem simbiotico.
Una complementarietà senza la quale il racconto stesso sarebbe monco.
Elisa non è, infatti, un narrratore onnisciente limitandosi a raccontare ciò che rientra nella sua diretta conoscenza. È, cosi, alla coprotagonista Maria Antonietta affidato il compito di riempire le caselle mancanti attraverso una confessione di tipo epistolare che risulta lucida e toccante.
Tale da rendere giustizia ai sacrifici, non sempre apprezzati, di una intera vita.
Certi libri. Le recensioni di Mario Messina.
Mauro Gandini (proprietario verificato)
Scorrevole e veloce, la storia di una vita dedicata alla felicità degli altri, ma senza dimenticare la propria. La doppia voce narrante ben intercalata: la voce principale vibrante, la voce di Maria Antonietta sempre pacata e tranquillizzante. Qualche ora in buona compagnia, con l’aggiunta di un guizzo di “follia”…
Mariagrazia Bellotta
È un libro di poco più di 100 pagine, quindi davvero breve e molto scorrevole. Mi sono emozionata tantissimo nel leggerlo, avevo le lacrime agli occhi e sono riuscita facilmente a catapultarmi in un’altra realtà, diversa dalla mia. Maria Antonietta mi è sembrata quasi reale e mi ci sono affezionata tantissimo, così come mi sono legata agli altri personaggi della storia.
I diversi punti di vista di Elisa e Maria Antonietta mi hanno fatto vivere il racconto nei dettagli, collegando le varie situazioni come pezzi di un puzzle, un po’ alla volta. Ho davvero apprezzato lo stile di scrittura. Semplice e adeguato al tipo di genere. Mi ha lasciata davvero un qualcosa, mi ha fatta rendere conto di quanto davvero sia incredibile la semplicità (come dice
appunto il titolo).
Dubito che dimenticherò mai Maria Antonietta. Lo consiglio? Assolutamente sì. Non è una lettura impegnativa ma che ha i suoi perché e un significato profondo.
Marina Polese (proprietario verificato)
Un libro da leggere tutto d’un fiato, semplice ma commuovente, adatto sia ad un pubblico giovane che datato. Lo consiglio
Clara Carelli
Leggere questi vostri commenti dà un senso a tutte le ore passate al pc ed alla fatica della campagna di crowdfunding. Vi ringrazio tanto!
elemazz64 (proprietario verificato)
La cucina di Maria Antonietta così viva dei sentimenti e del calore di tante anime in cerca di quel qualcosa e di quel qualcuno che rendano la vita vivibile e meritevole di essere vissuta, sì è fatta spazio per un pò di sere con discrezione e come sottovoce nella mia camera, cercando di convincermi, perché ogni tanto se ne sente il bisogno, che l’umanità nella sua varietà offre nella propria intimità anche il bene con la B maiuscola, per chi lo cerca e chi lo vuole vedere, nella genuinità dei piccoli gesti e delle parole semplici, lontane da quell’esibizionismo che oggi la comunicazione multimediale vuole insinuare come unica necessità espressiva della nostra identità….complimenti Clara per le atmosfere che hai saputo creare.
Francesca Giuliani
Sin dalle prime pagine ho capito che “L’incredibile della semplicità-la storia di Maria Antonietta” avrebbe catturato la mia attenzione.
La storia è raccontata da due protagoniste Maria Antonietta ed Elisa due amiche così diverse da loro ma al tempo stesso così unite ed importanti l’una per l’altra.
Se ci penso bene sono due mondi così diversi da unire nel mondo attuale semplice invece in quegli anni, dove la casa rappresentava l’unione, la famiglia, l’amicizia.
Sullo sfondo di questa storia troviamo la cucina di Maria Antonietta, la stanza dove inizia e finisce ogni cosa.
Una stanza ricca di oggetti, di profumi e di ricordi.
Nel libro ci sono autentiche narrazioni che permettono di cogliere i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni, nella mentalità, nel modo di vivere, nei rapporti familiari.
Maria Antonietta mi ha ricordato mia nonna, le donne che sono vissute negli anni in cui, la casa, il condominio o il quartiere stesso, erano un posto unico e speciale.
Mi ha ricordato lei anche per un argomento molto forte che scopriamo nel libro, la malattia di Maria Antonietta.
Attraverso le pagine del suo diario, vediamo la memoria della protagonista spegnersi e i suoi ricordi sono sempre più confusi e lontani.
I suoi pensieri, le sue emozioni e le sue sensazioni sempre più distorte.
Una storia dolce ma al tempo stesso riflessiva sull’esperienze della vita.
Grazie all’autrice Maria Antonietta farà parte della mia vita per sempre .♥️
Consiglio questo romanzo a tutti, è una lettura fresca che ci coccola ed accompagna per tutto il viaggio. Un viaggio davvero unico e speciale.
TIZIANA FOGLIETTA (proprietario verificato)
Mai titolo fu più azzeccato per questo romanzo: “L’incredibile della semplicità”. Perché è una storia incredibilmente semplice, quella di Maria Antonietta, eppure vissuta appieno tra l’amore per suo marito Rudy, i suoi tre figli maschi e la splendida amicizia che la legherà alla piccola Elisa come fosse per lei una quarta figlia. Aggiungiamoci un pizzico di follia ed una memoria che si perde tra le pieghe del tempo, ed otteniamo un romanzo che si legge tutto d’un fiato, in cui l’autrice Clara Carelli racconta in punta di piedi, con uno stile fluido e leggero, una storia in cui tutti possono ritrovarsi. Perché tutti noi possiamo essere Elisa, o Maria Antonietta. Una storia semplice, ma incredibile. Proprio come ci suggerisce il titolo.