Il generale si stagliava in mezzo a loro, avvolto in un mantello rosso porpora, contrastante con le sfumature metalliche della massa che lo circondava e con il verde e il buio della selva. Levò gli occhi allo spiraglio di cielo che si intravedeva a malapena, azzurro terso tra le fitte fronde: il sole era quasi a picco. Si rivolse ai suoi ufficiali: «Cominciate la manovra di avvicinamento. A mezzogiorno colpiremo.»
«Fermo, non toccarlo!»
Silvan quasi gridò, allungando la mano come a tentare di fermare Ellbor, pur sapendo di non poterlo raggiungere. Il piccolo Arboreo a queste parole fece un balzo all’indietro, per quello che le sue corte gambe gli consentivano, portandosi a distanza dal grosso fungo che aveva appena sfiorato. La pianta, emettendo uno sbuffo sommesso che Ellbor non aveva mai udito prima, rilasciò una piccola nube vaporosa, mentre una decina di sottili ramificazioni spinate si contorcevano nel raggio di un braccio dal gambo, alla vana ricerca della preda.
«Devi fare attenzione a quello che tocchi» lo rimproverò Silvan. «Non è un gioco, questo. La Foresta non sempre ti può essere amica.»
«Mi dispiace» si scusò Ellbor. «Credevo fosse un eaderio.»
Ma il padre del piccolo scosse la testa. «Non lo era, purtroppo. E avresti dovuto accorgertene. Quello è un roaderio. Queste piante sono tanto simili nel nome quanto nell’aspetto, ma sta’ pur certo che se le mangiassi ti accorgeresti della differenza.»
«Allora dovremo continuare a vagare per la foresta alla ricerca dell’eaderio ancora per molto?»
«Non credo che ci toccherà camminare a lungo: l’imitatore non è mai troppo lontano dall’imitato. È così che il roaderio inganna gli animali per nutrirsene. Basterà setacciare questa zona.»
Ellbor annuì, allontanandosi ancora un poco dal grosso fungo, che aveva ormai smesso di agitarsi. Con un sospiro sollevato, afferrò le briglie di Rodring e lo trascinò delicatamente dietro di sé. Il cucciolo lo seguì, calpestando allegramente il tappeto di foglie e fango.
I due abitanti della Foresta di Bermen erano Arborei: uomini dai lunghi e lisci capelli e dal corpo snello e agile, abili nel muoversi tra liane e fronde quasi più che sul terreno stesso. I loro indumenti erano tuniche, brache e gonnelle di vecchio cuoio e rozza tela, ricoperti da muschio e terriccio capaci di confonderli nell’ambiente; alle dita portavano anelli di legno intagliato, i loro braccioli erano mosaici di latifoglie cucite, e le loro corone null’altro che ornamenti di fiori secchi e steli intrecciati.
Ad accompagnare padre e figlio, vi era un piccolo di arodonte; un cucciolo, ma già alto un braccio al garrese, e pesante più di un uomo adulto. Sorretto da quattro zampe simili a colonne, l’animale era ricoperto da uno spesso strato di pelle coriacea e rugosa, da cui erompevano file di aculei veleniferi che correvano come una dorsale lungo tutto il corpo, dal muso alla coda. I due corni centrali erano gli unici a non essere retrattili, e per questo erano stati mozzati; si trattava di un’operazione indolore, che avrebbe reso la bestia cavalcabile quando fosse cresciuta.
A un tratto, Silvan si arrestò bruscamente. Ellbor, per imitazione, fece lo stesso, pur non capendo che cosa stesse accadendo.
«Guarda il sole» disse il padre, indicando un punto dal quale la luce penetrava come una spessa corda dorata il soffitto della foresta. «È quasi mezzogiorno. Dobbiamo tornare ad Arborea per pranzo. Ci siamo spinti troppo a nord, ed è tardi.»
Ellbor, sollevato nel sapere che Silvan non aveva percepito un pericolo, annuì. «Torniamo a casa» disse, tirando per le briglie Rodring dietro di sé.
Arborea apparve dalla vegetazione quando il sole era ormai al centro della volta celeste, quasi invisibile dal cuore della Foresta di Bermen.
Le abitazioni, scavate nei tronchi dei più antichi alberi del Mondo Conosciuto, salutarono l’arrivo di Silvan ed Ellbor, accompagnati da Rodring. Dalle porte ricavate tra le ruvide cortecce nodose, gli Arborei fuoriuscivano e rientravano in continuazione, come un formicaio in fermento. A poche braccia di altezza, nel groviglio formato dagli enormi rami che andavano intrecciandosi, il movimento era ancor più vivace che al suolo: camminamenti scavati nel legno e ampi spiazzi simili a nidi di uccello consentivano agli Uomini della Foresta di vivere per giorni senza toccare terra, nutrendosi dei frutti delle piante e del dolce nettare di fiori dalle mille sfumature dorate, violacee, purpuree.
L’arrivo di Silvan accompagnato dal figlio non provocò alcuna reazione tra la gente di quella città immersa nelle fronde; eppure, presso altri popoli, l’arrivo del sovrano sarebbe stato motivo di trambusto. Altrove, il padre di Ellbor sarebbe stato definito “re”, e il suo erede “principe”, sebbene nessuno ad Arborea, in una giornata come tutte le altre, pareva curarsene. Chi riconosceva Silvan semplicemente lo salutava con un cenno della mano o del capo, come avrebbe salutato chiunque. Nel cuore di Bermen, non esistevano etichette, formule di rito, né tanto meno inchini, considerati goffi e maldestri quanto inopportuni.
Ellbor si avventurò in avanti, guizzando tra le radici di un giovane frondalbero lianuto, scivolando sotto arcate naturali ammantate dal fogliame, scavalcando tentacoli verdi e bruni, avvolti gli uni negli altri come serpenti costrittori. Si fermò di colpo solo quando il Grande Albero gli si stagliò davanti, lussureggiante dimora del signore degli Arborei. Il suo tronco nodoso e scuro, ricoperto a nord da un soffice strato di muschio, vantava l’impressionante diametro di quasi dieci braccia, ma all’interno era cavo, così come molti altri alberi di Bermen, che sembravano invitare gli Arborei ad abitarli. “Moryghal”, così venivano chiamati: gli “antri della Madre”. Tra i rami che si stendevano in tutte le direzioni, i camminamenti si snodavano numerosi.
Silvan raggiunse Ellbor con falcate lunghe e leggiadre, mentre Rodring trottava al suo fianco come un piccolo terremoto. «Faremo meglio a salire in fretta» valutò. «Tua madre Gea ci starà già aspettando.»
Varcata la soglia tra le spire di radici intricate, i due Arborei e il piccolo arodonte si trovarono all’interno. Una scala di legno a spirale conduceva ai piani superiori dell’incavo, appoggiandosi alle pareti interne. Silvan, Ellbor e lo stesso Rodring – quest’ultimo pur con qualche difficoltà – si guadagnarono il livello più alto, accompagnati dalle proteste dei pioli che gemevano sotto il peso della bestia. Gea, come previsto, li attendeva.
«Oggi ho toccato un roaderio che…» cominciò a dire Ellbor senza neppure attendere di essere emerso dalla scala, finendo per interrompersi alla vista dell’espressione della madre.
Il pallido volto di Gea era una scultura di pietra. Accanto a lei, un giovane guerriero arboreo si rivolse a Silvan senza preamboli: «Leveriani, mio signore. Leveriani nella foresta. Tra poco saranno qui.»
«Quale direzione?» Il volto di Silvan si era tramutato in una maschera di preoccupazione.
«A sud, ma stanno compiendo una manovra accerchiante. Sono molto più numerosi dell’ultima volta. Migliaia, signore.»
«Dove sono i nostri uomini?»
«Alcuni si stanno affrettando di albero in albero per avvertire la popolazione di mettersi in fuga verso nord, gli altri sono già in posizione. Attendiamo il tuo ordine per colpire.»
Valentina Grassi (proprietario verificato)
Trama ben intessuta tra tòpoi del genere e colpi di scena. In breve: una piacevole scoperta, interessante anche per i più incalliti lettori di Fantasy.
gabriella vecchio (proprietario verificato)
Da tanti anni non leggevo un fantasy. Prima di tutto in ha incuriosita la descrizione che l’autore fa di se stesso e poi l’inizio della storia. Per farla breve, l’ho ordinato e in due giorni sono quasi alla fine. Il bene o il male? La pace o la morte? gli inferi o l’amore? Ancora non lo so e, del resto, non potrei dirlo qui. So però che, come succede per tutti i romanzi che mi sono piaciuti, quando arrivo alle ultime pagine sono combattuta tra la curiosità di conoscere in fretta la fine e il dispiacere di lasciate questo mondo e i suoi abitanti. Bravo Luca! Potresti risolvere il mio dilemma scrivendo un altro romanzo..