Pensò compiaciuta, mentre si avviava alla macchina. Il suo stato d’animo sembrava connesso con il mondo circostante, improvvisamente si sentiva lucida e consapevole delle macchine attorno a lei, delle nuvole sulla sua testa, delle montagne all’orizzonte, del profumo dei croissants…
– A proposito, perché non lo aveva mangiato quella mattina? Era entrata nella pasticceria e non aveva mangiato il consueto croissant alla crema, e non aveva neanche bevuto il solito cappuccino con tanta schiuma ed una spolverata di cacao che tanto amava. –
Fu un pensiero fugace che durò un secondo, spazzato via come una foglia al vento da altri pensieri.
Aveva così tante cose da fare quel giorno, sentiva l’urgenza di farle tutte. Per prima cosa avrebbe parlato con Luca, suo marito; avevano litigato la sera prima, perché lui era nuovamente rientrato a casa tardi, negli ultimi tempi accadeva di frequente e lei era furente. Per l’ennesima volta aveva preparato la cena, apparecchiato e aspettato. Non era da lui tardare, ma stava diventando un’abitudine, oltre ad essere diventato sfuggente, distratto e stanco. Era sempre stanco, come Elisa d’altro canto.
Odiava lasciare le cose in sospeso, pensava che bisognasse sempre chiudere i cicli delle proprie azioni, qualsiasi esse fossero, anche le più sciocche, come sparecchiare subito dopo aver mangiato e lavare immediatamente i piatti. Chiuso un ciclo. Lavarsi i denti e chiudere subito il tappo del dentifricio. Chiuso un altro ciclo. Litigare, chiarirsi e fare la pace. Chiuso un altro ciclo.
La sera prima si era ripromessa di chiudere anche quel litigio con Luca, ma non ricordava più il perché non l’avesse fatto. Probabilmente Luca si era addormentato e lei non ero riuscita a chiudere il famoso “ciclo”.
Nonostante il suo spiccato senso della responsabilità verso tutto e tutti, quella mattina sentiva la prepotente necessità di prendersi una pausa. Sapeva di dover andare al lavoro, c’erano tante questioni da portare a termine, problemi da risolvere e persone che contavano su di lei, ma nel contempo sentiva che quella era una giornata speciale, una di quelle giornate che non si ripetono più.
Si fermò rapita, ad ascoltare dentro di sé un’energia nuova e nel contempo una calma inaspettata, perfetta, come quando ti passa un forte mal di testa ed hai quasi paura di muoverti, di gioire o di rallegrarti per la sua scomparsa, perché temi che possa ritornare.
Quella mattina il tempo passava e quello stato di grazia aumentava, si trasformava da una timida gioia ad una specie di euforia incontrollabile, che frizzando come la spuma di una gazzosa, saliva dallo stomaco su fino alla bocca.
Si scoprì a ridere da sola, e più rideva, più si chiedeva cosa la facesse ridere, soprattutto si chiedeva cosa stessero pensando le persone attorno a lei, di una che ride da sola in mezzo alla strada. Curiosamente le persone le passavano a fianco e proseguivano assorte nei loro pensieri.
– Menomale! –
Pensò Elisa imbarazzata, ma incapace di cancellare quel sorriso beato che sentiva affiorarle sulle labbra. Un’ idea cominciò a prendere forma nella sua mente, quel giorno avrebbe bigiato! Non sarebbe andata al ristorante. Lei e Luca, avevano un piccolo ristorante molto carino, nel centro storico di Torino.
Pensò a come mettere in atto il suo proposito, avrebbe telefonato a Luca e gli avrebbe semplicemente detto, che si prendeva un giorno di vacanza.
Archiviato quel pensiero scomodo, si ritrovò in macchina a guidare in direzione delle montagne.
La neve scesa copiosa quell’inverno, copriva ancora le cime ed i dorsi delle montagne, ma l’aria sapeva già di primavera. Elisa Imboccò una strada che non conosceva, si inerpicava curva dopo curva, su verso la cima. Si chiese per un momento dove si trovasse, dove portasse quella strada, ma in realtà risolse che non gliene importava proprio niente.
Era in pace con sé stessa, persuasa che quella fosse la strada giusta, non importava dove l’avrebbe portata. Continuò a guidare rilassata, osservando i pini scorrere ai lati della strada, fu colpita da quanto fossero alti e da come le loro cime, sembrava volessero toccare il blu del cielo, sempre più in alto sempre più su.
Si sentiva molto fortunata a poter scegliere un giorno feriale, per una gita in montagna! Era un lunedì, lunedì 30 marzo 2009.
Continuò a salire curva dopo curva verso la vetta della montagna, senza incontrare altre macchine, fino ad un punto dove la strada si restrinse e divenne ad una sola corsia.
Elisa pregò che nessuna macchina scendesse in quel momento dalla parte opposta, perché in quel caso si sarebbero giocati il passaggio a tre sette.
Quasi in risposta alle sue preghiere, la strada terminò all’improvviso davanti ad uno spiazzo deserto. Spense il motore ed un silenzio acuto la pervase tutta, era magnifico e spaventoso al contempo, così abituata ai rumori della città, si rese subito conto, che le sue orecchie non erano abituate al silenzio, e quel silenzio era assoluto.
Scese dalla macchina e prese ad osservare il paesaggio tutto intorno. Le cime dei monti la circondavano, ed erano così vicine al cielo da farla sentire parte di un tutto.
I colori erano accesi quasi brillanti, una foschia densa, impediva di vedere la valle sottostante e regalava ancora di più, la sensazione di essere come sospesa sul mondo e distacca da tutto.
Da quanto tempo non si regalava un momento così? Fatto di silenzio e di ascolto.
Elisa non lo ricordava, forse da quando era morto suo padre. Allora, cercava dei momenti di solitudine e di isolamento, dove semplicemente si fermava ad ascoltare.
Era un ascolto carico di speranza, desiderava ardentemente cogliere un segnale, anche piccolo, che le indicasse la sua presenza, che le permettesse di parlargli ancora una volta.
Anche quel giorno sentiva il desiderio di parlagli, si sentiva più che mai vicino a lui.
Tanto forte fu quella sensazione, che un momento dopo si girò di scatto credendo di averlo dietro di lei.
– Che scema! Sono veramente suggestionabile. – Rise tra sé e sé.
Ancora assorta nei suoi pensieri, non si accorse che da un piccolo sentiero, avanzava verso di lei un bambino. Avrà avuto dieci o undici, camminava tranquillo tenendo in mano un bastoncino di legno che faceva ondeggiare al ritmo dei suoi passi.
Camminò ancora per qualche istante e si fermò a qualche metro da lei.
Non sembrò stupito dalla sua presenza, al contrario di Elisa; si limitò a guardarla senza curiosità, come se la stesse aspettando.
– Ciao! – Esordì Elisa per rompere il ghiaccio.
I bambini le avevano sempre generato un vago senso di disagio, non ne aveva avuti, questo forse spiegava il suo impaccio verso di loro, ma il punto era che non sapeva mai come approcciarsi, cosa dire loro. Doveva forse parlargli con quella voce in falsetto, che usano certe persone quando si rivolgono a dei bambini? Oppure doveva usare un timbro di voce normale, come quello che si usa tra adulti? E poi come si cominciava? Con le classiche domande tipo: “Come ti chiami? Quanti anni hai? Che classe fai?” Odiava quelle frasi fatte, alle quali un adulto avrebbe risposto con un sonoro: “Ma che te ne frega?”
D’altro canto non aveva potuto fare pratica con fratellini, nipoti o figli di amiche, in effetti a ben pensarci, la sua vita era trascorsa senza rapporti con la fanciullezza, se non con la sua. Dunque nel dubbio, non aggiunse altro e aspettò che fosse lui a fare la prima mossa.
Invece lui non disse nulla, riprese a camminare fino ad avvicinarsi ad un metro da lei, sollevò il viso e la fissò, in quel preciso momento gli occhi di Elisa furono come catturati da quello sguardo, e ci si persero dentro.
Aveva occhi straordinariamente belli, di colore blu cobalto con delle piccole striature azzurre, le ciglia erano scure e mettevano ancora più in risalto, il bianco ed il blu dell’iride.
Elisa pensò che le facevano tornare alla mente quelli di una statua di Cristo, che andava sempre ad ammirare, poco più che ragazzina, ogni anno durante le vacanze estive al mare. Quelli del suo Cristo, erano ovviamente dipinti, ma parevano veri.
Aveva dodici o tredici anni, quando si innamorò di quel Gesù dagli occhi blu.
Era ovviamente un amore platonico il suo, in equilibrio tra lo spirito e la carne, tra il mistico ed il terreno; un turbamento adolescenziale che la spingeva, al solo scopo di andare a vederlo, ad inerpicarsi su per le scalinate di quel paesino fino in cima, dove c’era l’antica chiesa barocca.
Complice forse il gioco di luci che filtravano dalle vetrate nella cappella, quegli occhi parevano animarsi. Così Elisa, si inginocchiava di fronte alla statua e la fissava ininterrottamente per interi minuti, senza mai distogliere lo sguardo, fino a quando i suoi occhi cominciavano a lacrimare per lo sforzo.
La ricompensa però non tardava ad arrivare, quando sfinita per lo sforzo li distoglieva, quelli del Cristo parevano animarsi e seguirla. Così lei cambiava di banco ora avanti ora indietro, convinta che il suo fervore mistico avesse prodotto il miracolo.
Negli anni successivi, capì che era tutto frutto di un’illusione ottica, ma in quei lontani momenti pensava di essere la prescelta e parlava con Lui in silenzio, raccontandogli tutti i suoi segreti e le sue speranze di ragazzina.
– Come sei arrivata fino a qui? –
La domanda riportò Elisa bruscamente dentro a quegli occhi, gli occhi del bambino.
– Sono arrivata in macchina. – Elisa rispose d’impulso, quasi dovesse giustificarsi.
Gli occhi di quel bambino, erano molto simili a quelli del suo Gesù e come allora la turbarono. Aveva la sensazione che quel bambino sapesse quello che stava pensando, come se i suoi occhi le leggessero dentro.
Il ragazzino la guardò con un sorriso tra l’indulgente e l’ironico, simile a quello che usano gli adulti di fronte ad un bimbo che sta raccontando una storia palesemente frutto della sua fantasia.
– Dove sono i tuoi genitori? – Gli chiese lei cercando di riportare le gerarchie al proprio posto.
– Sono a casa, lassù oltre il bosco. –
Accompagnò la frase con un cenno della mano in direzione del sentiero da dove era venuto, senza distogliere i suoi occhi da quelli di Elisa.
– Vuoi giocare con me? –
Questa era un’altra di quelle frasi che la infastidivano. Elisa aveva sempre pensato che giocare con un bambino, presupponesse un impiego di energia fisica e mentale, che credeva di non possedere. Insomma alla fine dovevi ritornare bambino anche tu se volevi essere credibile.
Nel passato era capitato che alcuni bambini vedendola seduta a leggere in qualche giardino pubblico, si avvicinassero per chiederle di giocare con loro. In quei casi aveva sempre inventato delle scuse per non farlo. Il punto pensò, è che aveva fatto così tanta fatica per diventare adulta, per farsi apprezzare, ed in seguito per farsi rispettare dagli altri, che lasciare anche se solo per pochi minuti, tutte le sue certezze di adulta per ritornare bambina, la terrorizzava.
D’altro canto giocare con un bambino rimanendo adulti, la faceva sentire goffa e fuori posto, come quelle vecchie signore che ballano con i nipotini accennando i passi della polka su un pezzo di Break dance.
– Scusami, non vorrei sembrarti sgarbata, desidero un po’ di tranquillità per pensare, capisci? Vai a giocare che so… a nascondino, avrai degli amici della tua età qui in montagna, no? –
– Non voglio giocare a nascondino – Rispose il bambino ridendo.
– Ti voglio insegnare un gioco nuovo, vieni con me! –
La prese per mano, e lei cominciò a seguirlo, senza opporre resistenza ma con un vago senso di disagio, che diveniva via via sempre più evidente.
Sapeva che avrebbe dovuto essere più ferma nei suoi propositi. Se almeno ci fossero stati altri bambini della sua età lì intorno, sarebbe stato più facile dirgli di no.
Il problema era che non c’erano altri bambini nei paraggi, per la verità non c’era nessuno a parte loro due.
La guidò in direzione del sentiero da dove era arrivato e, dopo un paio di curve, sbucarono davanti ad una distesa di prati verdi. Il paesaggio era ondulato e tirava una leggera brezza. Si stupì di non sentire freddo, considerando che era sempre stata una freddolosa cronica.
Le sembrò di sentire vicino a loro il rumore di un corso d’acqua, ma non vedeva ruscelli lì attorno, fino a che, superata una piccola radura, in prossimità di un gruppo di rocce, il rumore si fece più forte ed Elisa quasi ci finì dentro con i piedi.
Il bambino sapeva di quel ruscello, perché senza indugiare fece un salto per oltrepassarlo. Lei invece si impuntò come un mulo, e restò in equilibrio precario ancora mano nella mano con lui, che era già passato sulla sponda opposta.
Era un ruscelletto di montagna poco profondo e largo meno di un metro, si snodava lungo il prato coperto dall’erba, e lo vedevi solo quando rischiavi di finirci dentro.
Elisa pensò che non era mai stata particolarmente ginnica, ma non era necessario esserlo per riuscire ad attraversarlo, eppure non riuscì a comandare alle sue gambe di fare un piccolo salto per oltrepassarlo.
Era impietrita con il busto in avanti ed i piedi e le gambe indietro. Si sentiva smarrita per la sua incomprensibile paura ed anche in imbarazzo, lui un bambino, era passato agilmente dall’altra parte, mentre lei come un’imbranata era totalmente incapace di farlo.
– Non avere paura, ci sono io. – Teneva ancora la sua mano in quella di lei, guardandola diritto negli occhi.
Ancora una volta, Elisa ebbe la sensazione che fosse in grado di leggerle dentro e che conoscesse tutte le sue paure passate, presenti e future.
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