L’autoradio della 126 ha intercettato la sua canzone preferita dei Diaframma; con uno scatto improvviso, infantile, libera il cambio sul quale aveva lasciato riposare la mano destra per ruotare la piccola manopola consumata del volume. Regge il volante con l’altra mano e si mette a cantare a squarciagola, puntandomi quei versi in faccia, con la rabbia frenetica di chi bestemmia con gli occhi fissi a un crocifisso. Non è la prima volta, ormai li conosco a memoria; mi sorprende il riflesso del mio volto perplesso sullo specchietto retrovisore, l’aria rassegnata di una donna innamorata, un po’ martire e un po’ stupida. Orfani della voce di Federico Fiumani, quei pochi versi erano il suo amen, quando fissando involontariamente le sue dita che giocherellavano con il pacchetto di sigarette, lo pregavo di smettere.
Non mi ha mai dato fastidio che fumasse, non mi ha mai disgustato l’odore di fumo sui suoi vestiti, semmai alcune volte ho trovato incredibilmente eccitante sentire quell’odore appiccicato alle sue dita, quando mi tappava la bocca mentre facevamo l’amore. Mi è sempre piaciuto il contrasto tra l’odore secco del fumo con quello gentile, acerbo, della sua pelle scura.
A volte, quando lo vedo aspirare avidamente quelle piccole nuvolette di fumo che tentano di fuggire dalla sua bocca, provo l’irresistibile desiderio di baciarlo, proprio mentre spinge in gola uno di quei suoi tiri profondi; in ogni caso è sempre meglio di quando viene a baciarmi lui la mattina, con quel sapore appiccicoso di dentifricio alla menta.
Quello che non sono mai riuscita a sopportare in lui è quella smania, quella furia inappagata con la quale si accendeva una seconda sigaretta appena dopo aver spento la prima.
Provavo un dolore acuto per quel mozzicone con la schiena rotta ed il collo schiacciato, che moriva a testa in giù, esalando l’ultimo respiro dal fondo di un posacenere, mentre lui distrattamente già portava alla bocca il filtro vergine della sua nuova amante.
All’inizio mi metteva addosso una profonda inquietudine quella sua voracità, poi si dissolveva sul soffitto, mischiandosi al fumo e alle macchie di umidità: forse perché continuava a venire a letto con me senza dire niente ed io ormai avevo smesso di chiedermi se fossi la sua ragazza.
Aprire il pacchetto di Chesterfield rosse, strappare la pellicola d’alluminio, pizzicare una delle sigarette ammassate nell’angolo, picchiettare il fondo lasciandone cadere una tra le sue dita e infilarsela in bocca, mentre con una mano ha già magistralmente riposto il pacchetto nella tasca del giubbotto; la fiamma incerta dell’accendino, fiorita all’improvviso come un tenero bocciolo di luce protetto dalle sue mani; il primo tiro, buttato via con quella smorfia assurda. Era una cerimonia che si ripeteva identica ed io odiavo tutto di quel procedimento rituale, mi saliva alla gola una rabbia soffocante, avrei voluto farglielo volare via quel maledetto pacchetto di Chesterfield rosse, assestandogli un ceffone sulle sue gote lisce da sbarbatello.
Invece, appena incrociavo il suo sguardo, il mio coraggio precipitava sul pavimento, si incollava alle mattonelle della cucina, strisciava sulle mensole e finiva per nascondersi dietro il termosifone. Lui intuiva la mia rabbia soffocata e continuava a seguire il mio sguardo per tutta la stanza fino a quando non riusciva a catturarmi, puntandomi addosso i suoi enormi occhi verdi. Non sono mai riuscita a sostenere il suo sguardo ed era un’umiliazione sempre più profonda il suo sospiro di sollievo quando capiva di avermi vinta senza combattere. La mia sconfitta era il mio perdono, l’amaro prezzo da pagare per un bacio al tabacco. “Se avessi forze ed ali immense da gabbiano non ricadrei come ogni volta nella rete” non tornerei ogni volta ad attaccarmi alle sue labbra con la stessa smania con cui lui si accende l’ennesima sigaretta, non mi abbandonerei ad una dipendenza più feroce di quella che gli rimprovero, non mi aggrapperei ai suoi occhi rossi, alle sue promesse da ubriaco, alla sua voglia di scopare.
Le note dei Diaframma si infittiscono di trame stridule che rendono incomprensibili le parole, la musica ormai è un’eco lontana soffocata da rumori fastidiosi. Lui continua a canticchiarla rincorrendola nella sua memoria.
A volte l’amore è come quando l’autoradio trasmette la tua canzone preferita, ma ad un tratto le onde intermittenti di un’interferenza disturbano l’armonia. Continui a stuzzicare il tasto della frequenza, perché non vuoi lasciarla andare, ma lente e inesorabili si affacciano le note di un’altra canzone. Sarebbe più facile cambiare stazione, sarebbe più facile spegnere l’interruttore della radio, ma non riesci a darti pace. Lui è la musica che non voglio perdere, la sua mano che mi sfiora distrattamente soltanto quando precipita sul cambio per cambiare le marce, è quella che vorrei tenere stretta per tutto il tragitto, fin dove finisce la strada o fino a quando vuole lui. Vorrei afferrarla adesso, mentre ingrana la terza, con tutte due le mani e infilare le mie dita tra le sue.
E invece niente e “come è freddo infilarle nelle tasche”.
Ha spento l’autoradio finalmente.
II.
Una mattina di quelle in cui va tutto troppo veloce: come la musica.
Ad una poesia di Lucio Dalla, un cameriere assonnato ha preferito il ritmo frenetico di una litania hip hop; come i jeans di un gruppo di adolescenti in ritardo per la scuola, che non sono riusciti ad arrivare fino alle scarpe, lasciando scoperte le loro caviglie sottili; come lui che se n’è andato presto e non mi ha lasciato il tempo di dirgli che lo amo da impazzire, che proprio questa mattina ho trovato nel caffè, che mi ha lasciato nella macchinetta, il coraggio di rivolgergli la preghiera più semplice del mondo: “Rimani”.
Forse mi sono concessa a lui troppo velocemente, ho obbedito a un bisogno tutto mio in realtà, prima ancora di dire sì al suo invito, fatto di sangue che bolle sulle tempie. Come se non stessi aspettando nient’altro, come se quella sera, fossi stata lì per lui, come se fossi venuta al mondo solo perché lui mi togliesse le mutande. Mi domando cosa provo realmente per lui, se lo amo davvero o se tutto questo non è altro che il mio ipocrita pretesto per cercare ancora dentro il suo letto l’espiazione per la mia colpa. Qualunque fosse la ragione di quell’errore, non mi serve altra assoluzione che la consapevolezza di averlo voluto fino in fondo. Rinuncio al ruolo di imputato, perché io stessa sono incapace di giudicarmi: ho imparato che la vita ci insegna chi siamo mettendo ordine tra i nostri sbagli; il prezzo della felicità sta in tutto quello che siamo in grado di perdonarci.
È stato il mio peccato più bello, sapevo che da me non voleva altro, sapevo che amava un’altra. Lo volevo lo stesso, avrei lasciato che mi riempisse di insulti osceni, che tormentasse il mio corpo con il suo rancore. È stato tremendo e brutale, eppure devo ammettere che il piacere non era mai stato così intenso, ma quando è venuto in silenzio, senza degnarmi di uno sguardo, ho sentito la sua anima inorridire per quello sfogo consumato su quella che, ai suoi occhi, tutto era sembrata meno che una ragazza vergine. Non avevo mai provato una vergogna simile, muta e immobile, su quel cuscino che si era preso il mio odore, non sono riuscita a fermare le lacrime. È proprio vero: le cose più belle della vita fanno sempre un po’ schifo all’inizio.
Sono passati mesi ormai e non riesco a capire perché mi viene così difficile andare via.
L’amore è un meccanismo preciso, se anche ad una sola delle rotelle che si incontrano e combaciano perfettamente manca un dente, l’armonia simmetrica di quel movimento si arresterà in un momento. Ma ormai l’ingranaggio si è messo in moto, mi tocca prestare ascolto al suo incessante ticchettio, con il cuore in gola, mentre le rotelle completano il loro giro, temendo che il prossimo scatto riveli il dente mancante e il meccanismo si inceppi, fermandosi una volta per sempre. Sulle persiane semichiuse si rincorrono ombre scatenate, divinità giganti in lotta tra di loro; le urla dei bambini dal cortile e il rumore sordo di un molle proiettile arancione che rimbalza sul muro di fronte spegne la mia fantasia: lì fuori stanno giocando a pallone.
Una strana vertigine mi confonde, mi perdo a immaginare quei ragazzini, il sole d’agosto che li bacia sulle cosce e asciuga il sudore sulle loro guance arrossate. Sento le loro risa, indovino che qualcuno di loro, arrampicato sulla vasca della fontana di via D’Azeglio, si immola per bagnare le ragazze, colpevoli di aver interrotto, passando, la partita. Agitati dai rimproveri delle poverette, riprendono il loro gioco furioso, sembrano quasi indemoniati. A riportare la calma nel quartiere, i ceffoni secchi di Sebastiano, il fruttivendolo, che li rincorre fino all’angolo di piazza Garibaldi agitando minaccioso il suo grembiule. Al ritorno, nel più casto silenzio, lancia qualche occhiata di approvazione ai vicini, affacciati al balcone, che hanno fatto il tifo per lui, contro i ladri di albicocche. Ho deciso di nascondermi, di chiudermi nell’armadio. Ho bisogno di fargli credere di avermi persa, almeno solo per un momento, so di non essere importante per lui, non mi importa, ma voglio provare fino a che punto può spingersi la sua indifferenza. Ho imparato a farlo da bambina quando spaventata dalle urla di mio padre, mi nascondevo tra gli scaffali di un magazzino, aspettando che se ne accorgesse, che mi cercasse, che nel trovarmi dimenticasse la rabbia e mi prendesse tra le sue braccia, baciandomi sulla fronte. Non lo ha mai fatto.
Ci ho sperato inutilmente fino al giorno in cui mi hanno portata via, in una scatola di cartone. Ed eccomi qui, ad elemosinare le attenzioni dell’uomo al quale ero destinata, che mi ha lasciata la mattina presto in casa sua, per andare per strada a dimenticare che sono sua, a dimenticare di avermi voluta, in un modo o nell’altro, almeno una volta.
Nell’armadio, un gioco di specchi mi restituisce, confusa nella penombra, l’immagine del mio più intimo segreto, un tatuaggio tailandese del quale ho avuto non poche difficoltà a scoprire il significato, eppure è l’unico ricordo che mi rimane dei miei genitori.
Un tatuaggio yantra, sono assolutamente sicura si tratti di questo: un Sak Yant.
Purtroppo i caratteri delle preghiere in lingua khmer si sono fusi tra loro in tutti questi anni, trasformandosi in un gioco di linee verticali nette, quasi del tutto prive di sfumature e assolutamente indecifrabili. Un vero peccato, perché ho sentito dire che questi tesori del misticismo tradizionale buddista nascondono storie, leggende, superstizioni affascinanti. Quel poco che sono venuta a sapere del significato di queste anomale geometrie verticali è che sono un simbolo di protezione dal male fisico e spirituale, che hanno anche il potere di affascinare l’oggetto del proprio desiderio sessuale.
Che funzionino o meno, l’idea che i miei genitori abbiano voluto lasciarmi un amuleto simile, una protezione indelebile, sotto la mia pelle, mi lascia credere di essere stata amata tanto e questo mi basta.
Le voci chiassose di due uomini, il loro lento avvicinamento, scandito dai loro passi svelti sui gradini delle scale hanno interrotto i miei ragionamenti, proprio quando ero sul punto di intenerirmi davvero e lasciare libero sfogo alle lacrime, trattenute solo dalla prepotenza del pudore che mi impediva di diventare testimone del mio stesso pianto, chiusa lì dentro in mezzo a quegli specchi.
Era lui, non avevo dubbi, avrei potuto riconoscere anche il ciondolìo del suo mazzo di chiavi, appena davanti al portone, se ce ne fosse stato bisogno.
Accanto al tono basso, profondo e così dannatamente sensuale della sua voce, ho sentito stridere le note alte di quella strana cadenza, un po’ effeminata, dalla quale ho riconosciuto Roberto.
Roberto è il suo vecchio professore di lettere del Liceo Artistico Amedeo Modigliani, vecchio per modo di dire, non ha ancora trent’anni. Lo ha conosciuto l’ultimo anno: un giovane supplente spaesato, con un’innata venerazione per le passioni degli altri, e un giovane genio creativo, sull’orlo di una crisi autodistruttiva, non potevano fare a meno di piacersi subito.
- Il senso di Aspettando Godot è nei rapporti sociali e nelle diverse prospettive dei personaggi. Chi ha più bisogno di Godot?
È davvero un bel ragazzo, una massa informe di riccioli castani e una rada barbetta incolta incorniciano un viso efebico, quasi femmineo, dai lineamenti delicati, incattiviti da qualche sfumatura vermiglia tra i capelli, i peli della barba e delle sopracciglia. Gli zigomi alti esaltano la straordinaria trasparenza dei suoi occhi verdi, chiarissimi, incorniciati da una vistosa cipria di lentiggini.
- Vladimir o Estragon? Chi dei due prende l’iniziativa?
Continua a incalzarlo, gesticolando in modo spropositato, tradendo un principio di isteria negli ultimi accenti. Lui non lo guarda nemmeno, è intento a studiare gli effetti della luce sulla poltrona sulla quale intende fotografare Roberto, il quale continua a sistemarsi morbosamente i capelli. Nel suo timido nervosismo conserva un fascino e un magnetismo non indifferenti, ma su di me non ha alcun effetto. Ai suoi gesti un po’ affettati, pomposi, alla magniloquenza da dandy, preferisco di gran lunga la riservatezza scostante, un po’ rude del padre di Octave, Vittorio. L’effeminatezza può conferire ad un uomo garbo nei modi e nel linguaggio; tuttavia la signorilità, quella vera, non può essere recitata a memoria. Talvolta anche “il più rozzo dei cafoni”, come Octave si diverte a definire suo padre, si comporta, perde e soffre da vero signore, lasciando alle donne il contegno nella parola, la grazia nell’accavallare le gambe e la sublime arte di discutere agitando le dita, in modo nervoso e compulsivo, ma infinitamente elegante.
Sì, sono gelosa anche di lui e me ne vergogno un po’, perché è davvero una delle persone più pure che abbia mai vissuto in questo mondo: la passione ha un bel vestito, ma le mani sporche.
Sento la maniglia della porta finestra che dà sulla terrazza aprirsi e chiudersi in modo convulso, come le fauci di una belva famelica, intente a masticare un boccone. Dallo spiffero che invade la stanza, intuisco che ha scelto di tenerla aperta. Lo sento frugare tra la sua attrezzatura, per sistemare velocemente il set fotografico. Farfuglia qualcosa sull’obiettivo da scegliere per il ritratto.
Le ultime parole che rivolge al professore con decisione, prima di lasciar partire la prima sequela di scatti dalla sua Fujifilm. Quindi chiede al modello d’occasione di passargli il treppiedi e un pannello riflettente, qualche minuto di pausa e riprende a scattare masticando a denti stretti una piccola spiegazione tecnica che credo gli abbia richiesto il bel professore:
- Questo serve a filtrare la luce, quindi a rendere più morbide e meno nette le ombre che riflettono sul tuo viso.
Sa benissimo che Roberto non può capire nulla di quello che gli sta dicendo, ma pensa che raccontargli le tecniche del suo lavoro lo aiuti a sciogliere i nervi, metterlo a suo agio, fargli dimenticare per un momento quella diabolica macchina infernale che abbaia di fronte a lui, uno scatto dopo l’altro. È l’unico modo che ha per rubargli un’espressione autentica.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.