A Rozzano vivevano più pugliesi di quanti abitanti abbia mai avuto il mio paese. Nella zona in cui risiedevano i miei parenti quell’odore dolciastro di gomma vulcanizzata, tipico della metropoli lombarda, lasciava spazio a un persistente odore di cime di rapa. Nella nebbia rintracciavo la casa di zio Peppino con l’olfatto. L’inizio dell’anno accademico si avvicinava e le ultime incombenze burocratiche dovevano ancora essere evase. Mio padre mi raggiunse per aiutarmi così saremmo potuti ripartire in treno sabato pomeriggio per fare ritorno a casa; papà avrebbe riposato l’indomani e il lunedì sarebbe stato pronto per ricominciare. Nonostante il calendario fosse stato condiviso con tutti i parenti, zia Cecilia ci impose di rimanere un giorno in più, la domenica, perché pretendeva che mio padre assaporasse il suo famoso ragù di cavallo. La sua ospitalità era notoriamente molto più simile a un rapimento che a una cortesia. Fummo costretti a un repentino cambio di programma. Prenotammo un aereo per la domenica sera, perché i treni, a causa degli orari, non consentivano un rientro agevole.
A casa di Peppino si pranzava a mezzogiorno in punto. Per noialtri, abituati a pranzare più o meno alle due del pomeriggio, si trattò di uno shock, tanto più che l’abbuffata non prevedeva certo un buffet con prosecco e crudités. Si sa che il ragù di cavallo è una delizia, ma quello di Cecilia era un’altra cosa. Normalmente, ci vogliono circa tre ore per preparare un buon ragù di cavallo. A Cecilia non ne bastavano quindici. Cominciava la sera del sabato per guadagnare tempo. Preparava degli involtini ripieni di una considerevole quantità di aglio e pecorino che lasciava a macerare nel vino rosso. L’indomani mattina dava inizio alla cottura. Quella che doveva essere una doratura con olio d’oliva e cipolla, si trasformava in una vera e propria frittura, fino a quando l’involtino non ne veniva fuori pesantemente bruciacchiato. A quel punto aggiungeva la passata di pomodoro, la quale, abbondantemente salata, rimaneva a sobbollire per almeno altre quattro ore. Ne risultava un intruglio di colore brunastro molto simile al petrolio, utilizzato per condire la pasta, puntualmente scotta, che colmava scodelle delle dimensioni di un’insalatiera. Il tutto, ricoperto di un pecorino stagionatissimo, da consumarsi fino all’ultimo maccherone. Era apprezzata la scarpetta col pane spugnoso del giorno prima. Poi, non paga, serviva gli involtini, o quello che ne rimaneva: rotoli di carne da mezzo chilo ridotti a polpettine di dimensioni pari a un decimo di quelle iniziali ma dal peso invariato.
Se la cucina era sotto la responsabilità esclusiva di Cecilia, l’approvvigionamento di materie prime spettava a Peppino, rigattiere di indubbia esperienza. Pensionato dalle miniere del Belgio, si era trasferito nel capoluogo lombardo per intraprendere la sua attività. Era sconosciuto al fisco, alla previdenza e alle autorità locali, persino gli avventori apprendevano della sua esistenza attraverso un passaparola appena sussurrato. Eppure, benché condotta in forma semiclandestina, l’attività prosperava: non v’erano molti altri modi per liberarsi di certi scarti così a buon mercato. Peppino frequentava i retrobottega, i casolari sperduti, i mercati dopo la smobilitazione serale, i depositi all’aperto delle fabbriche, le cantine dei mega condomini di Gratosoglio. In questi luoghi oscuri si procurava il cibo che ci costringeva a mangiare. La carne non proveniva dal supermercato, lui conosceva proprio il cavallo. Manteneva contatti con gente che ancora, lì a Milano, tra un deposito di rifiuti e una fabbrichetta di ganasce d’alluminio, allevava cavalli da macello, animali derelitti, sporchi, brutti, ma pingui a furia di pascolare tra l’erbetta alla diossina e gli scarti agricoli pompati di ormoni. Da trafficante consumato prenotava la carne molte settimane prima che il cavallo sospettasse qualcosa. Ambiva alla scelta dei pezzi più pregiati, e cioè quelli più coriacei, perché sapeva che avrebbero dovuto resistere ai trattamenti di sua moglie. Un filetto sarebbe scomparso nel ragù di Cecilia.
Raffaele di Biase (proprietario verificato)
Raffaele Di Biase, Memorie di un fobico.
di Marco Scillitani
Non sopporto gli scherzi idioti, soprattutto se coinvolgono i libri. Quando leggo non voglio essere disturbato. E invece qualche cretino, pensando che sia divertente, mi cambia stile e ispirazione alla storia. Mi trovo tra le mani questo libro, Memorie di un fobico, “che razza di titolo”, penso, ma lo regalano con convinzione. Fammi sapere cosa ne pensi, e allora comincio, magari faccio finta, così, per ipocrita cortesia, pronto a dire “bello”, anche se non è vero. E invece è bello davvero. È appassionante ma, più di ogni cosa, è il libro che legge te. Ti conosce, perché le fobie del protagonista sono anche un po’ le tue. E quella disavventura con la ragazza sbagliata sembra sia proprio quella capitata a te.
Poi, quando mi sono già abituato al ritmo, uno spiritoso mi cambia libro. Non è più leggero, diventa profondo. Toh! pensi (antica esclamazione in uso a mio nonno), mi pareva solo divertente. Poi la trama si ispessisce, diventa ancora più densa, e comincio a insospettirmi. Torno a casa e leggo un’altra pagina, poi lo lascio per andare in bagno, poi torno indietro a metà corridoio, sempre più convinto che qualcuno mi stia facendo uno scherzo.
A metà libro, prima di uscire lo nascondo, per ripescarlo al mio ritorno, eppure il camaleonte naviga tra le pagine. Allora me lo porto dietro, come un ossessionato dal numero 23, girando lo sguardo d’improvviso, convinto di cogliere in fallo con la coda dell’occhio l’ombra che mi cambia il contenuto delle pagine. Non è possibile, mi ripeto. Non si passa da Villaggio a Svevo in un solo libro. È un complotto. A questo punto devo finirlo. E subito. Mi prende la febbre non tanto di sapere come va a finire, quanto di finire prima che cambi stile, ma è una lotta impari. Quando la trama mi ha butta in faccia Simenon, ormai parlo da solo con il libro, con gli occhi spiritati.
Poi finisce che la storia non finisce, che la finisce qualcun altro, e anche se l’opera (mi ha fregato, devo per forza chiamarla così) ti mette addosso il brivido del colpo di scena, l’occhio umido che ti blocca il respiro, la mano che ti tira dentro le pagine, rimani sempre con il dubbio che i libri siano non meno di quattro o cinque.
Non vi consiglio di leggerlo, sarebbe scontato, e poi il libro è davvero bello. No. Se avrete la fortuna di leggerlo, vi consiglio di legarlo. Stretto. Per non passare quello che ho passato io.
E ricordate sempre: la mappa non è il territorio.
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Raffaele di Biase (proprietario verificato)
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Antonio Russo (proprietario verificato)
Tra i piaceri della vita va sicuramente annoverata la lettura di un bel libro.
A me piace farlo accanto ad un buon calice di vino. Mi rilassa e mi permette di calarmi meglio nei panni del protagonista del romanzo.
Io “Memorie di un fobico” l’ho letto in anteprima. Trasformarmi in Pietro Peroni dal salotto di casa mia per un pó è stato molto divertente.
Lo consiglio vivamente!!
PS: per l’abbinamento col vino eviterei una bollicina. Il libro è già frizzante di per sé 😂
Nicoletta Russo (proprietario verificato)
Si legge tutto d’un fiato…ti fa divertire molto ma s’inabissa anche nelle profondità dell’animo umano!