Le ha posizionate Lucie sul davanzale del salotto, secondo il suo gusto: dalla più alta alla più bassa, dopo aver provato varie combinazioni. Osserva il viale fuori, le case dei vicini dove già bruciano le fiammelle per l’8 dicembre, in una gara a chi ne ha di più di cui importa solo a lei.
«Attenta, Lucie, che ora le accendo – dice mamma, col fiammifero in mano – che poi quando è buio mica si vede se sono nuove o consumate».
Non è vero e lei lo sa benissimo, ma mettersi a brontolare non ha senso.
«L’anno prossimo le compriamo tutte nuove, mamma? Ne potremmo prendere 17, come gli anni che compirà Michelle oggi tra un anno».
Lucie mi guarda e mi fa l’occhiolino, come se la questione delle candele avesse qualcosa a che fare col mio compleanno.
«Vediamo – cinguetta mamma, con un’euforia nella voce che non capisco –. Ho altri piani per i nostri risparmi. Domani compro i biglietti, ragazze: tra qualche giorno partiamo per cercare papà».
Cala un silenzio strano. Io guardo mia sorella. Mia sorella guarda me.
Sono anni che mamma dice che «prima o poi andremo a cercare papà», ma non l’ho mai presa sul serio. È una delle frasi che rientra tra quelle che non ascolto, come «mettete in ordine la vostra camera» o «ma era davvero necessario spendere i soldi della paghetta in un giradischi?». Forse quella su papà però le batte tutte, nel campionato delle frasi inconsistenti. Papà non c’è più, non c’è da nove anni, dal giorno di dicembre del 1940 in cui è partito per la guerra. Da allora è diventato un fantasma, il fantasma della mia infanzia felice, quella che gli devo aver dato in regalo perché non si dimenticasse di me. L’ultima immagine è in stazione, l’atmosfera sospesa, lui e mamma che fingono sia una festa ma pare che lei voglia piangere e che a lui stiano per cedere le gambe. Papà indossa una camicia blu. I suoi capelli rossi paiono più spenti del solito, nel ricordo sono grigiastri come una vecchia foto sbiadita. Mi prende in braccio anche se sono già grande e mi ha schiocca un grosso bacio sulla guancia, così come fa con Lucie, aggrappata alle gambe di mamma: «Tornerò presto e mi farai sentire quanto sarai diventata brava a leggere», mi dice. Mi scende una lacrima, ho come la sensazione che non andrà così.
Papà mi aveva guardata con gli occhi grandi e lucidi, chissà se aveva paura in quel momento, chissà se era eccitato per quella specie di missione che si era imposto, la scelta assurda di partire per combattere e fare la propria parte.
Le lettere di papà sono arrivate per un po’, tre anni circa. Poi il buio e il telegramma dell’esercito in cui si riferiva che era disperso. Non una parola in più, non un’indicazione: disperso, punto e basta. È stato allora che è comparsa quella frase in bocca a mamma, ripetuta più volte negli anni, proiettata in un futuro vago: saremmo partite per cercare papà ma prima doveva finire la guerra, poi lei doveva riprendersi dalle ‘brutte ferite’ che si era misteriosamente procurata dopo aver iniziato a criticare i nazisti ed essere sparita. Poi la nonna doveva stare meglio, poi dovevamo mettere via dei soldi, cercare informazioni. Nonna nel frattempo è morta, i soldi chissà. Forse risparmiare sulle candele è servito a qualcosa.
«Avete sentito, ragazze? – ripete mamma – Partiamo».
C’è una punta di delusione nella sua voce, come se non avesse contemplato la possibilità di una nostra reazione non entusiasta.
«Ma per dove, mamma?» chiedo, deglutendo.
Finge di non cogliere lo scetticismo nella mia domanda. Allarga la bocca in un sorriso un po’ troppo tirato: «Per l’Inghilterra, andiamo in una città che si chiama Liverpool».
Scende un silenzio pesante.
«Cosa c’è? – incalza mamma – Perché non siete contente?»
Devo dirglielo senza farla arrabbiare. Devo risponderle e non le piacerà.
«È solo che non capisco. Sono molti anni che papà è disperso. Se stesse bene sarebbe tornato a casa. Che ci andiamo a fare, in Inghilterra?»
Si è offesa, lo vedo dal modo con cui ha tirato indietro le sopracciglia, come se le stessi negando la gioia di darci una bella notizia: «Disperso non vuol dire vivo e non vuol dire morto. Vuol dire ‘quest’uomo si è immolato per la libertà di tutti quanti e l’unico nostro compito come Stato nei suoi confronti era ricordarci di lui. E abbiamo fallito’».
Più parla e più il viso le si incendia, svelando una rabbia mai spenta.
«Se l’esercito non sa dove sia, come possiamo trovarlo noi?» le chiedo.
«Io non vado da nessuna parte, mamma» sbotta Lucie, con la sua usuale irruenza.
«Non vi sto chiedendo il permesso, noi partiamo e basta. Se foste sole in un Paese straniero non vorreste che la vostra famiglia facesse di tutto per aiutarvi, cercarvi, starvi vicino?»
«Papà non vuole niente, è morto» ribatte mia sorella.
Lucie non ha tatto, non l’ha mai avuto. Mamma è diversa, un complesso equilibrio di durezza e fragilità. Deve aver covato a lungo a quest’idea, troppo a lungo per tornare indietro. Lei è già partita, con la testa è già in Inghilterra.
«Non è detto – ripete solenne, col tono di chi ha fatto quel discorso a se stessa mille volte –. Non si abbandona un famigliare. Dobbiamo quantomeno sapere cosa gli è successo».
«Io non vengo, punto e basta!»
Lucie si alza stizzita e va in camera da letto, sbattendo violentemente la porta alle sue spalle. Mamma sbuffa, ma non cerca di inseguirla. Si abbandona sulla poltrona.
«Prova tu a parlarle, Michelle».
Evidentemente dà per scontata la mia adesione. Sono scettica e l’ho detto, ma per lei è già un sì. Come al solito sono relegata al ruolo della figlia responsabile.
«Non lo so, mamma. Sinceramente mi sembra folle».
«Dici che fa sul serio?».
Lucie mi rivolge la domanda senza guardarmi, con la faccia soffocata nel cuscino. Mi ha riconosciuta dai passi, lo fa sempre. Ha la voce annacquata dal pianto, ma non lo ammetterebbe mai.
«Temo di sì».
La mia testa ripercorre come un rullino le immagini di tutte le volte in cui mamma ha espresso quella volontà e io non ci ho fatto caso. La prima versione doveva essere qualcosa del tipo: «Quando guarirò, partiremo a cercare papà». L’ha formulata circa cinque anni fa, mentre rantolava a letto con le gambe spezzate e ingessate, tese nelle bende. Era ricoperta di ferite e bruciature orribili e ha impiegato lunghissimi mesi a guarire e poi a imparare nuovamente a camminare. Ho dovuto lasciare la scuola a dieci anni, di colpo, perché lei non poteva lavorare e noi eravamo in tre e dovevamo pur mangiare. Mi piaceva studiare, ma mi sono ritrovata a fare i doppi turni in maglieria. Passavo ore a piangere nascosta sotto al letto, mentre mamma pareva arrabbiata col mondo. Non ha mai voluto raccontarci dove sia stata davvero in quella settimana in cui è sparita, nell’estate del 1944, prima di ricomparire piena di lividi e tagli e con le gambe rotte all’ingresso di Les Halles de la Martinière, il mercato dove ogni giorno da anni apre la sua bancarella. Sono sicura che c’entri tutto col guizzo che le saettava negli occhi quando cominciava a parlare di politica. Non capivo perché, ma sapevo che non si dovevano dire certe cose e avevo paura. Quella passione improvvisa per gli alti ideali aveva già fatto partire papà, non volevo perdere anche lei. E non sapevo come dirglielo mentre lei si infiammava al punto tale da insegnare a me e a Lucie a scaricare e caricare pistole e fucili, nonostante non ne possedessimo nessuno. Ce lo ha spiegato usando disegni fatti da non so chi e perdendosi tutta entusiasta in dettagli sulle armi che Lucie ascoltava decisamente con più interesse di me.
E poi, di nuovo, più tardi era stata la volta di: «Quando la nonna starà meglio, partiremo a cercare papà». Ma la nonna, la mamma di papà, non è stata mai meglio. A lei la guerra ha portato via sia il marito, in un bombardamento, che l’unico figlio. Forse dentro non siamo altro che orologi, marchingegni di rotelle dentate e incastrate l’una con l’altra che si muovono all’unisono. Quando ha perso le due persone che amava di più, il mondo degli affetti di nonna Géraldine ha cominciato a girare fuori tempo e ha trasmesso quel ritmo stonato a tutto. È tornata bambina, con gli occhi grandi e vacui cerchiati dalle rughe, trasparenti come il vetro. I dottori l’hanno fatta più facile, hanno detto semplicemente: «Demenza», nonostante avesse solo cinquant’anni. All’inizio abbiamo contraddetto i suoi discorsi senza senso, come se spiegarle gli scarti di realtà che le sfuggivano potesse aiutarla, accomodarle con un colpo secco le lancette impazzite e riportarla nel presente. Poi ci siamo arrese. Lucie le lasciava descrivere senza interromperla episodi incredibili della sua vita dove passato e fantasia si mescolavano: città futuristiche in cui aveva vissuto da bambina, superpoteri che possedeva e che qualche terribile nemico aveva desiderato rubarle invano. A un certo punto ha perso il ricordo di tutti, noi comprese. E poi ha smesso di parlare: dopo quattro anni è rimasta semplicemente immobile a letto, un’ombra scura e magra rannicchiata tra le coperte. Noi tre ci prendevamo cura di lei un po’ a turno, finché un giorno anche l’ultimo filo che la legava alla realtà, quel flebile respiro che alzava e abbassava le lenzuola, si è spento. A me piace pensare che sia volata via, come un palloncino, verso la libertà.
L’estate scorsa, a qualche mese dalla morte di nonna, mamma ha detto di nuovo quella frase: «Non appena avrò trovato qualche informazione, partiremo a cercare papà». Io non ci ho fatto caso, di nuovo. I miei ricordi con lui sono una scia rosa, un nastro in cui sono sospese e mescolate in un tempo indefinito giornate senza pensieri: i giochi e le capriole sul letto la sera, il rituale della colazione in cui fingeva di non vedermi mentre gli nascondevo i biscotti per poi indire la caccia al ladro, i giri in bicicletta per Lione. Mi portava tra le bancarelle dei mercati di fiori e frutta dove lui, con l’occhio esperto del commerciante, cercava di spiegarmi come capire quando la merce è di buona qualità e quando non lo è. Non me ne fregava niente e forse lo sapeva, ma tutto ciò che faceva papà era bello a prescindere. Spesso mi portava fino a Francheville, a casa dei nonni, lungo la strada di campagna che in primavera si tingeva di verde e sembrava in festa. Nonna Géraldine ci accoglieva nella sua grande cucina col camino gigantesco e aveva sempre qualcosa di buono da mangiare per me.
La guerra è finita, ma quelle giornate non sono più tornate. Pian piano la nostra vita si è assestata su una nuova normalità dolorosa, grigia e opaca, alla quale mi sono adattata pur senza trovarvi un significato. Lucie va a scuola, io nel frattempo ho lasciato la maglieria e da allora do una mano a mamma, che è tornata a vendere frutta e verdura al mercato, portando avanti la storica attività di famiglia che dopo l’incidente avevamo dovuto chiudere per un po’.
Mi sembra sempre che mi sfugga tutto tra le dita, che tutto ciò che faccio sia solo incasellare scadenze e impegni, come un automa. Lavorare, pulire, aiutare mamma, comprare lo stretto necessario per vivere. Perdersi nella quotidianità per non crollare, per tenere in piedi le nostre vite fatiscenti. Mi sembra di aver cominciato a correre allora e di non essermi mai fermata, come se stessi inseguendo a perdifiato un riscatto che non arriva mai.
In quel vortice ho perso la bussola della mia vita. Il seno mi è spuntato di colpo, in qualche punto irrilevante della mia esistenza di bambina già vecchia, e ho provato solo imbarazzo. Mi è venuto il ciclo e non ho potuto dirlo a nessuno: ho perso i contatti con le mie compagne di classe, che hanno continuato a studiare. Del resto se ho condiviso l’inizio del percorso scolastico con loro è solo perché papà nell’estate del 1939 ha insistito per iscrivermi a una prestigiosa scuola privata dalle suore a Fourvière, convinto del valore di una buona istruzione. Poi, però, è cambiato tutto.
Butto l’occhio all’orologio, sono già le sette di sera. La messa per la Madonna inizierà di qui a un’ora. Né mamma né Lucie sembrano intenzionate ad andare, ma ci sarà mezza città e forse posso darmi un’altra possibilità di essere la ragazza che vorrei essere. Nel diario che scrivo di nascosto di notte, strizzando gli occhi sotto al lenzuolo per non farmi vedere da Lucie, ho fatto una lista di ‘belli e impossibili’. Ho scritto tutti i nomi al contrario, per sviare mia sorella nel caso la trovasse. Ci saranno tutti stasera a messa: Jean Dunon con i suoi ricci e l’aria tenebrosa, il figlio della sarta che ha il laboratorio a place Bellecour, lo strillone di Croix-Paquet.
Mi cambio in fretta, mi butto la mantella sulle spalle ed esco, salutando mia madre con un cenno mentre già mi fiondo giù per le scale a prendere la bici. Pedalo velocemente attraversando il Rodano e la Saona, i bei viali pieni di negozi tra i due fiumi. Chiudo gli occhi e inspiro a fondo l’aria frizzante di questa notte di dicembre, ignorando il vento freddo che mi si infila sotto ai vestiti. Tutti hanno messo i lumignons alle finestre e Lione è un turbinio di piccole speranze accese nella coperta rassicurante della notte. I fiumi sembrano specchi luccicanti. Le strade sono affollate, vanno tutti dove mi sto dirigendo io: a Notre-Dame de Fourvière, ai piedi della collina. Sono passati tanti anni e ho fatto questo percorso molte volte, eppure stasera, in preda ai ricordi, mi torna in mente con malinconia la prima volta che ho fatto questo tragitto per andare a scuola a Fourvière, accompagnata da papà. Aveva tenuto chiusa la bancarella apposta, diceva che era troppo importante. Io avevo saltellato per tutto il percorso, in preda all’euforia della novità. Lui, invece, era stato meno espansivo del solito. Aveva risposto in modo tiepido alla mia eccitazione e si era raccomandato mille volte che facessi attenzione al percorso e agli incroci. La guerra era scoppiata da pochissimo e lui era già preoccupato, intristito dai titoli sui giornali. All’ingresso si era messo tutto impettito, con un mezzo sorriso orgoglioso sotto i baffi rossi, in fila con quelle famiglie d’alto borgo. L’ho salutato sulla porta, mentre lui alzava entrambi i pollici in segno d’incoraggiamento.
Fuori dalla chiesa incontro Colette Thomas. È una delle poche compagne di scuola con cui non ho perso del tutto i contatti, più che altro perché viene a rifornirsi alla bancarella. Sta parcheggiando la bici, avvolta in una mantella col collo di pelliccia bianco e guanti coordinati. Mi saluta mentre armeggia freneticamente con la borsetta. Il suo sguardo sembra frugare incessantemente tra la folla alle mie spalle.
«Che bello vederti, Michelle. È… È oggi il tuo compleanno, vero?»
«Sì, esatto. Il mio compleanno è una festa».
Che cosa scema da dire. Colette sorride debolmente, mentre continua a passarsi le mani tra i capelli, increspati dall’umidità. Le piccole rughe d’espressione attorno ai suoi occhi restano immobili, fisse sulla massa di gente che si avvicina alla chiesa.
«Tanti auguri. Hai ricevuto dei regali?»
So che la domanda è innocente, o almeno spero. Forse Colette pensa che la bancarella sia molto redditizia, o forse, più semplicemente, non ha mai dovuto preoccuparsi di trovare i soldi per vivere.
«Mia madre stamattina ha portato a casa un pomodoro gigante, se vale come regalo».
Forse avrei dovuto mentire. Avrei decisamente dovuto mentire. Colette ridacchia, poi tutto a un tratto sembra rianimarsi. Noto in quel momento che non ha con sé i suoi occhiali e che si è disegnata una riga audace di matita sopra agli occhi, come nelle riviste che a volte compro di nascosto. Mi guarda in faccia, forse per la prima volta dall’inizio della conversazione, e mi liquida: «Devo andare, Michelle. Ci vediamo in giro. Buona serata!»
La vedo volteggiare via come rapita e andare incontro a Jean Dunon, appena arrivato con i suoi amici. Lui le sorride. I ricci gli cadono sulla fronte come disegnati, come se sapessero di non dover fare alcuno sforzo per risultare attraenti. Prende Colette sottobraccio, rivelando un’intimità di cui non sapevo nulla. Ero stata io a parlarle di quanto fosse diventato bello, mesi fa. Chissà poi com’è andata, lei non mi ha detto niente. Non è strano, in fondo.
Li guardo allontanarsi dall’altra parte della chiesa, unirsi a un gruppetto di amici. Si sono agghindati tutti per la festa. Rimiro la mia miseria: il vestito vecchio, le scarpe bucate, gli sguardi che mi passano attraverso. È colpa mia, lo so. Sono nella città in cui sono cresciuta, circondata da persone che conosco, eppure siedo sola, accanto a un’anziana col marito. O mi sta forse giudicando anche lei?
E pensare che quel primo giorno di scuola, a pochi passi da qui, sembrava tutto perfetto. Sono passati dieci anni e li ho vissuti come se fossero cento. Sembrano le premesse di un’altra vita le gite da bambina, quando la domenica d’estate pedalavamo fino alla plage du Fontanil, per tuffarci nel Rodano. Mamma prendeva il sole, papà giocava con me in acqua. Un paio di volte abbiamo preso il treno e a me è sembrata una cosa incredibile. Quando avevo 4 anni siamo arrivati fino a Marsiglia, in spiaggia. Tutta quell’acqua mi è sembrata un miracolo straordinario, senza confine. Era come la plage du Fontanil, ma senza l’altra sponda. Mentre tornavamo indietro, con ancora negli occhi quella visione, mamma mi ha sorriso e ha detto: «Michelle, avrai una sorellina». Io l’ho guardata e all’improvviso il mare era già diventato un mistero vecchio e scontato. Una sorellina? E com’era successo? Gliel’ho chiesto. «La mamma ha mangiato un semino» mi ha risposto papà, e gli ho creduto. Se sapeva scegliere la miglior frutta e verdura, di sicuro la stessa abilità si poteva applicare anche ai semini.
Quel semino era Lucie e all’inizio ho dubitato che fosse davvero il migliore. Di certo era il più irruento, il più testardo, il più deciso. Ha iniziato a parlare a un anno appena per poter commentare tutto quello che vedeva dal seggiolino della bici, mentre le nostre vite scorrevano sempre sullo stesso binario: i mercatini, le gite alla plage du Fontanil, i giochi.
La tintura fosca che, come un acquerello sporco, piano piano si è insinuata nella mia famiglia è arrivata da fuori, dal mondo minaccioso oltre la porta di casa. Ho iniziato a percepire che qualcosa stava cambiando una mattina in cui, come sempre, a colazione ho rubato un biscotto a papà e lui mi ha ignorato. Era tutto concentrato sul suo giornale, con aria seria, e si è limitato a prenderne un altro dalla scatola. Nessuna caccia al ladro, nessun interrogatorio con la voce buffa, nessun esame delle briciole sul tavolo. Stava arrivando la guerra, ma io ho pensato che fosse colpa mia, di averlo annoiato.
«Non fai la comunione, cara?»
La signora accanto a me, con i capelli grigi raccolti in un crocchio ordinato in cima alla testa, mi guarda come se fossi un cucciolo da salvare. Percepisco una nota di pena nella sua voce per il mio sguardo perso, l’aria dimessa, questa solitudine che mi sembra così evidente, così ingombrante. Lione è piccola e soffocante, un paesone dove io affogo nel mio anonimato, nella mia insicurezza. Un pensiero egoista mi buca la testa all’improvviso: partire per scappare. Dare corda a mamma, andare nella città inglese col nome strano per spezzare il cerchio e darmi la chance di essere un’altra.
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