Mia nipote, infatti, la figlia di mia sorella, non ha idea di che faccia avessero o chi fossero stati i nostri nonni. Non degli antichi avi vissuti chissà quando, ma i nostri nonni, quelli con cui abbiamo trascorso un pezzo della nostra esistenza. Quindi se io avessi avuto un figlio, questo avrebbe avuto un altro figlio, mio nipote, e quando mio nipote avrebbe avuto un figlio, io già non sarei mai esistita per lui.
L’algoritmo è che ogni tre generazioni, massimo quattro, si scompare dalla memoria dei propri discendenti. Totalmente.
Pensate, questo mi consola.
Credo che funzioni come per i libri: a meno che tu non sia stata una persona davvero famosa, in un campo qualsiasi, sei destinato a scomparire nell’arco di un centinaio d’anni al massimo. È esattamente come per milioni di libri che hanno avuto magari anche un discreto successo, che erano oggetto di conversazione nei salotti, nei bar, nei locali, la gente ne parlava per strada, ma che poi sono scivolati inesorabilmente nell’oblio più buio. Tempo cinquanta anni e nessuno che respiri su questa Terra sa più nemmeno il nome dell’autore o la trama. Libri che sono stati importantissimi per tanta gente, anche per intere generazioni poi evaporano, come le mamme, i papà, i nonni.
I libri può capitare che risorgano a nuova vita, per un po’, una stagione, un annetto o due, se qualcuno li scopre e ne fa materiale per un film o una serie televisiva.
Invece per le persone il corrispettivo quale sarebbe? Un tempo poteva capitare di aprire un cassetto di casa per curiosare e scoprire dei vecchi album di fotografie, di cui non sapevi l’esistenza, che ritraevano i tuoi genitori da piccoli, i tuoi nonni da giovani, forse qualche bisnonno e sconosciuti parenti. Chiamavi tua madre o tuo padre e loro ti raccontavano chi era questo e chi era quello. Storie incredibili, tra l’altro. Prigionieri di guerra, partigiani, fuggiaschi dai Tedeschi attraverso le fogne, qualche parente matto, qualcuno che è emigrato all’estero, bellissime ragazze, veri personaggi degni di romanzi d’appendice.
Ora con le foto digitali la nostra memoria è ancora più precaria. I supporti vorranno altri formati di file che diventeranno obsoleti e se non ci sarà qualcuno che li convertirà, ciao, tanti saluti.
Un altro pensiero, che poi è un dato di fatto, che mi consola, è che ci estingueremo e che l’universo cesserà di esistere. Se ragioniamo come specie e non come individuo, e guardiamo avanti di qualche decennio o secolo o millennio, riprodursi è inutile, perché inesorabilmente come specie ci estingueremo. Se anche questo non dovesse accadere per mano degli esseri umani, il sole si spegnerà e la Terra morirà comunque. Certo c’è anche l’ipotesi che per allora potremmo avere colonizzato altri pianeti, in effetti quest’eventualità un po’ mi turba perché mi toglie certezza a questa consolazione. Dato che io per essere felice devo sempre guardare avanti, questo tema mi fa ragionare così: non ho figli, ah beh, tanto ci estingueremo comunque, estinguerti adesso al termine della tua esistenza o tra qualche centinaio di anni, cosa cambia?
Mi sono buttata a capofitto anche sull’idea della reincarnazione. Se la nostra anima si reincarna tante volte, allora tutta la visione della vita cambia. Tutto quello che non ho fatto e mi sono perso in questa vita, avrò la possibilità di farlo nella prossima. Tutto assume una luce diversa. È la consolazione della seconda chance. Non ti sei laureato? Potrai farlo nella prossima vita. Hai un pessimo rapporto coi tuoi genitori? Nessun problema, sistemerai tutto nella prossima vita, perché in questa hai imparato la lezione. Ti senti un fallito nel tuo lavoro? Prossimo giro probabilmente sarai un ricco milionario di successo. Non hai viaggiato abbastanza? Non temere, nelle prossime esistenze viaggerai per tutto il mondo. Tutti i conti in sospeso che abbiamo ora, dovremmo poterli sistemare nelle prossime reincarnazioni. Non hai figli? C’è una ragione di sicuro e nella prossima vita ne potrai avere dieci, se lo vorrai.
In ogni caso le consolazioni non solo non bastano, ma assomigliano a una farfalla che voglia spostare un transatlantico e io sto sempre male.
Mangio poco, rido pochissimo, mi sveglio di notte senza più riuscire a trovare pace, non ho più voglia di fare niente, nemmeno tutte quelle attività che mi davano gioia e divertimento, non ho l’energia per fare sport, non ho voglia di vedere gli amici, piango tutti i giorni. In una parola: sono depressa come non lo sono mai stata in vita mia. Non riesco a trovare lo scopo, il senso a nulla.
Lorenzo non sa più cosa fare, soffre ed è arrabbiato, come tutte le persone che sono accanto a chi soffre. Forse dovrei andare da uno psicoterapeuta o fare un lungo viaggio che mi faccia dimenticare questo presente doloroso. Dovrei iscrivermi a un corso di yoga? Imparare a suonare uno strumento? Forse dovrei provare con la boxe, con tutto l’allenamento che faccio col materasso magari avrei qualche possibilità. Dovrei provare a darmi al bricolage? Alla pittura? Mi sembrano tutti cerotti su un arto amputato.
Ma, come in ogni storia che si rispetti, arrivò il deus ex machina che cambiò tutto.
Era un lunedì ed io ero tornata a casa dopo una giornata di lavoro estenuante. La cena era quasi pronta e io mescolavo distrattamente il passato di verdure nella pentola, assorta nei miei pensieri, non esattamente rosei. Ultimamente mi capitava spesso di fissare lo sguardo su un punto nello spazio e senza accorgermene iniziare a vagare con la mente per dei lassi di tempo anche lunghi, come se mi assentassi pur rimanendo fisicamente lì.
Lorenzo aprì la porta ed entrò con un gran sorriso, facendomi quasi sussultare.
«Ciao», mi salutò e si tolse velocemente scarpe, giacca a vento, berretto. Fuori la temperatura era di qualche grado sotto lo zero, eravamo all’inizio di gennaio.
«Ho scoperto una cosa che forse ti può interessare» esordì Lorenzo con il suo solito tono di voce pacato.
«Ah sì? Che cos’è?» risposi fingendomi interessata.
Si sedette a tavola e notai con sorpresa che aveva gli occhi luccicanti, accesi di una strana luce, inusuale negli ultimi mesi.
«È un posto che penso potrebbe piacerti e magari farebbe bene a entrambi … forse», esitò, «forse ci farebbe stare un po’ meglio, Giulia» rispose Lorenzo alzando le sopracciglia.
Lo guardai con sguardo interrogativo. «Cioè? Un posto che ci farebbe stare meglio? Hai un biglietto per lo Shuttle diretto su Marte?» sogghignai e spensi il fornello.
«Ah ah, che ridere», disse serio Lorenzo, «ti sto dicendo che è qualcosa che pensavo non esistesse e nemmeno tu, altrimenti ci saremmo già andati, molto probabilmente.»
Mi misi a tavola e servii la cena. «Quindi? Mi dici che posto è? Un villaggio turistico in un paese tropicale? Una crociera? La foresta amazzonica? New York?» chiesi con crescente curiosità.
Lorenzo posò il cucchiaio appoggiandolo al piatto di zuppa fumante e mi guardò fissa negli occhi. «È un posto senza bambini.»
Sbattei le palpebre un paio di volte e corrugai la fronte scettica. «Vuoi dire come quei ristoranti che hanno sale separate per chi ha con sé i bambini e chi non li ha?» chiesi, cercando di nascondere il filo di delusione nella voce. Già mi ero immaginata un bel viaggio dall’altra parte del mondo.
«No, niente del genere. Molto più radicale e molto più in grande. È una piccola città dove vivono soltanto coppie che non hanno figli, che non hanno potuto averne, come noi. È isolata da tutto, su una montagna. Era uno di quei paesi che col tempo diventano disabitati, perché le nuove generazioni vanno a vivere in pianura e quindi diventano abbandonati, come … sai, quei paesi nei film sul far west», disse tutto d’un fiato Lorenzo, «poi qualcuno ha avuto l’idea e ha pubblicato sui social questo progetto e indovina, ha ricevuto un sacco di adesioni. Di gente nella nostra situazione ce n’è tanta, non pensavo.»
«E come funzionerebbe?» chiesi ancora più dubbiosa. «Andiamo a vivere in montagna, lasciamo il nostro lavoro e alleviamo mucche?»
«Da quel poco che c’è scritto sull’articolo è possibile fare un periodo di permanenza di un mese, poi se ci si è trovati bene, si può anche pensare di andare ad abitare lì stabilmente. Oppure può essere anche solo per un periodo limitato, come per disintossicarsi» spiegò Lorenzo versandosi un bicchiere di vino.
«Uhm, non sembra male. Un mese di ferie, montagna, paese isolato da tutto … finiremo per scrivere ‘il mattino ha l’oro in bocca’ e a impugnare un’ascia … mi piace l’idea» dissi con un lieve sorriso.
Lorenzo ignorò il mio commento, e non so se capì il riferimento, avendo troppa paura di qualsiasi film e libro horror, genere invece da me prediletto.
«Il posto è a quattro ore di macchina da qua. Sabato pomeriggio c’è un incontro per spiegare a potenziali nuovi abitanti come funziona il paese, le sue regole, diritti e doveri, immagino.» Lorenzo bevve un sorso di vino e chiese: «Ti va se andiamo a vedere? Partiamo sabato mattina e torniamo domenica sera. Intanto ci facciamo il fine settimana in montagna.»
Lo guardai sorridendo. «E me lo chiedi? Sai che non direi mai di no a un viaggetto. E poi sono curiosa di vedere cosa si sono inventati. Guarda che se poi mi piace stiamo là per il mese di prova! Ho un’infinità di ferie da smaltire e anche tu.»
«Perfetto, sono d’accordo», rispose Lorenzo. «Ah, dimenticavo, guarda, ho stampato il volantino che c’era insieme all’articolo.» Me lo porse.
C’era la fotografia di un gruppo di persone, circa dai venticinque ai settanta anni, così a occhio, tutti adulti e sorridenti, con alle spalle lo sfondo delle montagne con il sole che splendeva.
Lessi voracemente il breve articolo: “Volete dimenticare i periodi tristi della vostra vita, legati al non avere avuto figli? Volete vivere in un universo dove non esistono i bambini? Quei bambini che non avete potuto avere? Volete scordarvi completamente di non essere genitori? Qui potrete dimenticare i vostri rimpianti, i rimorsi, le vostre ferite e vivere da adulti completi, senza quella sensazione che vi manchi qualcosa. Abbiamo poche semplici regole per una convivenza serena, tanta tranquillità e tanto divertimento. No limiti di età.»
Poi proseguiva con l’indirizzo e le informazioni che mi aveva dato Lorenzo sul mese di prova.
«Grazie Lo», dissi iniziando finalmente a mangiare la zuppa, «sei un tesoro. Comunque sarà questo posto, il tuo pensiero è stato molto bello.»
Lorenzo, da sempre l’autentica reincarnazione di un orso, si limitò a mugugnare qualcosa e impugnò il telecomando, accese la televisione e con questo dichiarò implicitamente la fine di quell’argomento.
Quella notte feci fatica ad addormentarmi perché continuavo a pensare alle parole del volantino, che rilessi più e più volte. Chi le aveva scritte sapeva di cosa parlava, e se lo sapeva significava che ci era passato, e se ci era passato significava che era come noi, e se era come noi forse tutte quelle persone nella foto erano come noi.
La settimana trascorse velocemente. Io mi sentivo adrenalinica come non mi capitava da mesi, forse anni. Ogni giorno che passava accorciava la distanza all’incontro di sabato e questo mi infondeva nuova energia. Lorenzo lo percepiva ed essendone contagiato era a sua volta più allegro ed espansivo del solito.
Sabato mattina ci alzammo di ottimo umore e scherzammo tra noi da subito, anche questo non capitava da un bel po’. Facemmo colazione e partimmo. Era una giornata molto fredda ma soleggiata. Durante il viaggio di quattro ore ascoltammo la musica in silenzio, chiacchierammo di lavoro, di amici, dei libri che stavamo leggendo e di qualsiasi cosa ci passasse per la mente. Nessuno dei due nominò cosa dovevamo aspettarci nella destinazione verso cui eravamo diretti.
Il navigatore ci portò diligentemente all’indirizzo indicato nel volantino nei tempi previsti. Quando scendemmo dall’auto per entrare nell’hotel dove si teneva l’incontro, mi tremavano un po’ le gambe, avevo il cuore che sbagliava qualche battito e sudavo sotto il maglione, ma feci finta di niente e pensai che dal di fuori non si poteva notare niente di tutto ciò, solita tecnica usata con Lorenzo, collaudata da sei anni di relazione.
Insieme a noi entrarono molte altre coppie, di varie fasce d’età. Notai, mentre camminavamo per scegliere dove sederci, che c’era chi si teneva per mano, chi invece stava parecchio distanziato dal suo partner, chi camminava con le braccia incrociate sul petto, chi teneva le mani in tasca, chi parlava ininterrottamente, chi gesticolava esageratamente, chi era molto serio, chi dall’aria scocciata o chi al contrario era molto sorridente o tranquillo.
Io e Lorenzo avevamo assunto una certa indifferenza apparente, cercavamo di avere un’aria anonima e qualunque, nessuna espressione decifrabile sul viso, basso profilo.
Quando tutti i partecipanti furono seduti, le luci si abbassarono leggermente e salirono sul palco un uomo e una donna, tra i quarantacinque e i cinquanta anni e in ottima forma fisica. Guardarono la sala, che si era popolata di una trentina di persone, con due sorrisi compiaciuti.
«Buongiorno a tutti e benvenuti. Siamo Gabriele e lei è mia moglie Sofia, i primi fondatori della nostra comunità, parola che non amo particolarmente, detto tra noi, perché potrebbe avere per qualcuno di voi un suono un po’ religioso, oppure ricordare un centro di recupero per una qualche dipendenza… mentre il nostro microcosmo, ecco, questa mi piace di più, non ha nulla a che fare con nessuno dei vostri eventuali orientamenti religiosi, o con le vostre dipendenze. Prima di entrare nel tecnico vi racconto la breve storia del nostro mondo.» L’uomo fece una piccola pausa e riprese a parlare alla platea immersa in un assoluto silenzio.
Mi piacque il fatto che venne usata la parola “microcosmo”, perché era il termine con cui io pensavo all’esistenza di ciascuna persona. In questo caso invece era usata per un insieme di persone.
«Tre anni fa io e mia moglie abbiamo attraversato un periodo difficile. Avevamo da poco capito che, nonostante tutti i tentativi provati nel corso di vari lunghi e dolorosi anni, non potevamo avere figli. Non avremmo mai avuto dei figli. Questo quasi ci distrusse ma poi avemmo un’idea… fulminante.
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