Quando muori passano mesi prima che le compagnie telefoniche riattribuiscano il tuo numero. In quei mesi sei in un limbo, non sei più vivo ma neanche morto. I tuoi amici osservano la tua foto profilo e forse ti piangono, o almeno ti ricordano. Se avevi un ragazzo o una compagna, quelli andranno a leggere il tuo stato su Whatsapp e avranno come la sensazione che tu gli stia inviando un messaggio dal mondo dei morti. Ho sentito storie di persone che lasciano messaggi sul numero della persona defunta, una sorta di ultima promessa d’amore. La versione digitale di un messaggio nella bottiglia che non approderà mai su una spiaggia dall’altra parte del mondo. Se esistesse davvero un posto fisico, magari in fondo all’oceano, dove si trovano i fantomatici server, ecco, allora immagino un tizio con la chierica e la forfora che ascolta tutti i messaggi d’amore lasciati dai vivi ai partner passati a miglior vita. Me lo vedo mentre si soffia il naso e li archivia in una cartella apposita. Preme taglia e li incolla in “messaggi per amanti morti”.
Io l’altra sera sono andato a letto dopo essermi mangiato un intero polpettone, essermi bevuto una bottiglia di Chianti e aver visto un documentario sui fenicotteri rosa che sono rosa perché mangiano una sorta di gamberetti e che quindi se non li mangiassero sarebbero dei buffi uccelloni con le gambe sproporzionate. Comunque mi sono svegliato verso le tre con un tappeto in bocca e la t-shirt bagnata come se mi c’avesse pisciato sopra un cavallo. Accendo il cellulare, vado su Whatsapp e trovo la sua foto con una citazione degli Smiths. È un attimo, ma in quell’istante credo che lei sia viva e sono io ad aver sognato tutto. Cerco il suo nome tra le ultime chiamate. Ma non lo trovo. Perché non la chiamo da quattrocento trentotto giorni. Il senso di colpa risale l’esofago tipo salmone. “April love”. Faccio subito partire la chiamata. Squilla. Squilla. Cazzo squilla. Mi bagno le labbra. Il salmone dà un colpo di coda al cuore. “Pronto, chi è?” mi risponde la voce impastata di un quindicenne”. “Nessuno, ho sbagliato, scusami”. Stava per eiaculare e io gli ho bloccato lo schizzo con questa stronzissimo tentativo di connettermi con un morto. La mia morta. C’era più poesia nella sua sega che nel mio salmone.
Speriamo April non stia flirtando con qualche cantautore romano. Se mi conosce un minimo, sa bene che non le perdonerei mai neanche il tradimento di una notte. Non accetterei mai come giustificazione, ma eravamo sbronzi, e morti, mentre tu eri ancora vivo.
April mi manchi. Mi manchi da morire.
MOLTI MESI DOPO
La verità è che mi stavo annoiando, fuori pioveva e io e Bukowski non potevamo uscire. Lui aveva paura di salire in soffitta ma io che sono notoriamente uno stronzo lo avevo portato di forza. Una volta su, gli avevo iniziato a far vedere i vari palloni e palline nelle vecchie ceste di giocattoli. Dentro vi era di tutto, non potevo certo rinfacciare ai miei che avessero lesinato sui giocattoli. Potevi trovarci ogni tipo di intrattenimento infantile, dai Lego, alle figurine, ai pupazzi. Buk sembrava preoccuparsi solo dell’abbaino da cui arrivava il bagliore dei lampi. La scala però era troppo irta per provare a dileguarsi al piano di sotto. Poi. L’occhio mi cadde su una vecchia musicassetta,Vitalogy dei Pearl Jam. Che bella che era. Me l’aveva registrata un amico dei tempi. La presi in mano, lo strato di polvere sembrava essersi compattato con la plastica, e a malapena si leggevano i titoli delle canzoni. La strusciai su una vecchia coperta che spuntava da un baule, e dopo averla tolta dal guscio di plastica, vidi una scritta in bella calligrafia sulla parte interna del cartoncino. To Noah, i hope you like it, Pza Calvino 13, tel. 055872923.
Il tipo, Lorenzo, si era appuntato anche il telefono di casa mia, se non mi avesse incrociato in giro per molto tempo me lo avrebbe recapitato a casa. Sarebbe stato meglio se avessi coltivato con più attenzione la nostra amicizia. Sembra faccia il medico per una onlus in Bolivia. Almeno lui fa qualcosa d utile ed emozionante. Piccola, in basso, la data a sancire il regalo, il rito d’iniziazione. 1997.
E il 1997 mi ingoia lasciando il povero Bukowski a guardarmi perplesso in questa mansarda farcita di ricordi e giochi da tavolo.
Mi ritrovo così a metà anni novanta, indosso jeans larghissimi, una felpa gialla e un cappellino dei Chicago Bulls. Ascolto solo rap. Faccio graffiti, ballo hip hop, o almeno ci provo. Improvviso rime anche sul lampredotto. Il rock è il nemico. Con la roba di casa nostra è guerra aperta, mentre per gli americani mantengo un certo rispetto. Comunque se non sei nero e con i boxer che riparano il culo altrimenti in bella mostra, dato che i pantaloni ciondolano all’altezza del cavallo, io non ti ascolto. Lorenzo, il mio amico, mi ha appena portato questa cassettina. Mette le mani avanti dicendo che non è il mio genere. La inseriamo nello stereo e sento subito aria di rabbia e ribellione e questo mi suona bene.
“Di dove sono questi ragazzi?”, chiedo.
“Di Seattle, come i Nirvana.”
“Ah ok… devo un attimo, farci l’orecchio…”
“Oh ce lo farai, e vedrai che li amerai! Sono nati per suonare per i tuoi ginocchi appuntiti che sbucano dai jeans”, fece lei, amica di Lorenzo, affacciandosi all’improvviso dai sedili posteriori della Panda.
Queste parole erano uscite dalla fessura tra le labbra carnose di lei. Oh Vanessa, con i suoi lunghi capelli corvini, spuntata alle nostre spalle. Nessun a prima di lei mi aveva mai detto che avevo dei ginocchi appuntiti. Comunque, fu questa la prima volta che incontrai i Pearl Jam, su una Punto scalcinata, tra i ginocchi appuntiti e la dolce Vanessa.
Infilai la cassetta nei calzoni sdruciti e una volta fuori dalla soffitta la nascosi nello zaino come fosse un pacchetto di droga.
Su quella musicassetta era impresso il mio vecchio numero di telefono e io volevo ad ogni costo provare a chiamarlo. Chissà che mi avrebbe detto il mio vecchio me stesso. Che poi il giovane adesso era lui ed io il vecchio rincoglionito. Se solo avesse saputo tutte le cose in cui mi ero infilato. Certo sarebbe rimasto un tantino deluso.
L’AMORE CHE CI UCCIDE A NOI CI SALVERÀ
Mind the Gap. Scendo dalla metro. Caldo, umido, vento, freddo. Frutta di dimensioni enormi in bella vista davanti al negozio dei bengalesi. I laburisti, la brexit, un rapper mi sfida da un pannello pubblicitario. Un biondina pulisce i vetri di un pub mentre giovani Harry Potter scompaiono in una piccola cattedrale.
Sono tre mesi che non ci parliamo. Dalla finestra della cameretta di un quarantenne nostalgico escono gli U2.
“Senti gli U2”, le dico sorridente come una pubblicità della Mentadent.
“Ma da quando ti piacciono gli U2???”, mi prende in giro lei.
“Era per dire… With Or Without You è un pezzo iconico, con o senza di te è un idioma extralinguistico, metaconcettuale…”
Silenzio. La sua faccia appare la discendente in linea diretta di un iceberg. Le nuvole accorrono, il cielo si rabbuia e il sole se ne lava le mani alla Ponzio pilato nascondendosi veloce.
“vedi, il sentimento che provo per te va oltre l’odio…”
“oh.”
“oh, sì esatto. Mi hai lasciata sola nel mondo. Sola a dover vivere in un mondo parallelo da sola. Sola senza di te.”
“Ehm”, mi schiarisco la voce.
Un donna tende i panni. Un uomo accende il barbecue e uno con la barba raccatta la cacca del cane. Il Jack Russell mi osserva, ha intuito il momento catartico. Lo saluto timidamente. Mi risaluta pieno di comprensione.
“Mi rendo conto di aver commesso un grosso errore…”
“Un grosso errore!?!”
“Se mi permetti vorrei ricordarti che io mi sono trasferito qua per te e, anche se a ragione, sei tu che mi hai lasciato solo. In questo posto. Con questo lavoro. Con queste persone. Sono lontano da tutto. Non conosco nessuno. Mi hai umiliato davanti a tutti. Non mi saluta neanche il custode. La gente pensa che sia nipote di Hannibal Lecter.”
“Per certi versi lo sei.”
“Non scherzare. Io so di aver sbagliato ma tu mi hai isolato. Ho lasciato il mio lavoro per venire a Londra con te e ora non posso tornare indietro però non so neppure come andare avanti.”
“Oh, tu vai sempre avanti, risulti simpatico a quasi tutti purtroppo, sei una via di mezzo tra Batman e Bukowski.”
Sorrido un istante immaginandomi con la mascherina del supereroe che scrivo ubriaco al computer. Ma non sembra affatto divertita dalla sua stessa battuta.
“Non merito il male che mi hai fatto. Non ti perdonerò mai. Non cercarmi più”, fa lei.
“Ok, non ti cerco più.”
“E che ci fai qui allora?”
“Sto aspettando una collega che stacchi da lavoro per farmi accompagnare a vedere una stanza, ma alla fine di tutto credo che me ne tornerò a casa…”
“Uhm”, digrigna i denti lei.
“Possiamo fare questo tratto di strada insieme oppure devo fermarmi e darti un vantaggio di cinquanta metri???”
“Stupido…”
Odore di brioche di un bar arredato in legno si mischia con quello di vomito sul marciapiede.
“Come stai?”, mi fa un filo preoccupata.
“Non c’è malox”, le sorrido fasullo.
Finge di crederci e poi.
“Ma che capelli ti sei fatto?”
“Non ti piacciono, lo sapevo… il barbiere mi ha fatto questo taglio molto british ma io ho ‘sto viso strano e ora sembro un calciatore mediorientale.”
“Ti odio, lo sai? Ti odio così tanto che è un sentimento talmente forte da essere QuasiAmore.”
“esistono infiniti mondi ma noi esistiamo soltanto in uno, quello in cui stiamo insieme”, le dico sfiorandole un dito col mignolo.
Ti amo, ma non glielo dico. Io non amerò mai nessuna persona come questa creatura così complicata. A causa sua non dormo più, compro sonniferi in quantità ospedaliere, sogno di essere abbandonato in gelidi appartamenti in quartieri grigi di un mondo dove non esiste il perdono. Piango tre volte al giorno nei momenti meno opportuni. Ieri un tizio seduto accanto a me in metro ascoltava i Coldplay. Senza accorgermene gli ho sfiorato le cuffie, ho sentito che si trattava di Don’t Panic e poi sono esploso a piangere su una signora cinese con un sacchetto pieno di cicoria. E a noi neanche piacciono i Coldplay. e il dolore che provo mi sfila il respiro con un grosso amo, e poi mi schiaccia lo sterno come un lottatore di sumo. La testa mi ruota alla ricerca di un equilibrio che solo il suo amore sapeva darmi. Uno di questi giorni mi butterò sui binari della metro ma, un secondo prima di essere travolto e squartato in due tronconi, urlerò alle persone sulla banchina ‘ditele che la amo. La amo. Ma da morire’.
“Mi sento Dexter davanti ad Emma…”, mi esce dalla bocca così, senza volere.
“A Parigi.”
I suoi occhi però ora brillano così tanto da abbagliare un aereo in fase di decollo a Stansted.
Senza accorgercene siamo nel mezzo della strada. Ci voltiamo quando sentiamo il rumore di un veicolo che sta arrivando. Anzi due. Sì, sono due moto e stanno gareggiando tra loro, una sulla corsia di destra e una su quella di sinistra. Lei fa per retrocedere, io per avanzare. Io la tiro e lei mi spinge. Adesso siamo così vicini che sento il suo sangue incazzoso scorrere come un torrente. Se fossimo un’istallazione di arte contemporanea ci intitoleremmo ‘Amanti che si sfiorano un momento prima di morire – Lovers brush themself a moment before to die. Le due moto si avvicinano con un rombo che suona come la telefonata della Farnesina a mia mamma per comunicarle il decesso del suo unico figlio. L’ultimo primogenito di una stirpe di tormentati figli unici. Sorride, e io mi chiedo che ci sia da sorridere. Poi mi guarda malefica. Mi concentro alla ricerca di un’illuminazione che ci salvi. Ok, ci sono. Le due moto sono i nostri cuori. Il suo ha troppa prudenza per non rallentare mentre il mio ha troppo coraggio per non accelerare. O forse no, forse il suo ha troppo buonsenso per andare avanti e il mio troppa paura per tornare indietro. I centauri ci vengono incontro alla velocità della Delorian in Ritorno al Futuro. Lei vuole andare avanti, io tornare indietro. Lei mi spinge e io la tiro. Si può vivere da soli tutta la vita oppure morire insieme. Noi scegliamo di restare a centro strada. È tutto così complesso, così difficile, eppure. Alla fine. Credo che. L’amore che ci uccide a noi ci salverà.
UN ANNO e OTTO MESI DOPO
Mi trovavo in piedi sulla metro. Northern Line direzione ostello. Io amo la Northern Line. Non c’era molta gente, a quell’ora gli inglesi stanno già facendosi la seconda pinta, con i maschi che si arricciano paonazzi le maniche delle camice e le ragazze che saltellano ridacchiando tra gli sgabelli dei pub. Io dovevo farmi solo tre fermate e così ero rimasto in piedi. Schiena sulla porta del vagone e mano sul palo di sostegno: nelle cuffie un brano di rap italiano di uno la cui tipa se n’era andata lasciando lui a ricordare i finestrini appannati e un tombino otturato dalle foglie morte.
Davanti a me una vecchina con con i capelli turchesi su un cappotto color cammello. Io mi ero tolto il cappellino di lana perché là dentro faceva un gran caldo e stavo iniziando a pettinarmi il ciuffo, quando, alla mia sinistra, notai una coppia. Erano turisti. Forse spagnoli, forse italiani. Lui alto, moro, con la barbetta e un botto di pensieri negli occhi. E lei. Lei mi gelò il sangue. La metro si bloccò improvvisamente e per un attimo vidi i suoi occhi guardarmi come se fossero il giardino di casa sua. Mi obbligai a voltarmi ma gli occhi violentarono il collo. Continuai ad osservarla impassibile, fino alla conclusione che LEI era uguale a lei. Cioè, costei sulla metro di Londra era quasi identica a MayaLaStronza. Gli occhi verdi, guizzanti, la pelle photoshoppata e un cappello di lana grigia, fatto dalla nonna, a rendere la sua bellezza un pizzico goffa. Ovviamente il cappello glielo doveva aver fatto la nonna dell’altra. Bo, che casino, comunque, ebbi solo il tempo di notare come anche le sopracciglia fossero accuratamente spettinate, come quelle di Maya. Fino a qualche istante prima stavo riflettendo sulla mostra dei Clash che, d’accordo era stata gratis ma anche decisamente stitica. Stavo bene, che non vuol dire niente finché non stai male, ma io fino a quel momento stavo bene. La mappa della metro, alta sulla parete del vagone, divenne un intreccio confuso di linee colorate. La vecchina dai capelli turchini si tramutò in una singolare statua di cera di Madame Tussauds. I miei occhi divennero invece un lavandino che gocciolava sulla mia faccia. D’un tratto si voltò verso di me e il pompom del suo berretto dondolò come il campanello al collo del gatto che avevo a sette anni. Mi guardò come se mi conoscesse, come se ci stessimo guardando ancor prima di trovarsi su quel vagone della metro. Mi guardò come chi si attende.
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