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Mind the Gap – Non prendere mai la Northern Line

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Dopo la morte della moglie April, Noah riesce a mettersi in contatto telefonicamente con il se stesso del passato e lo avverte sulla sua vita futura: se si comporterà come da lui consigliato, non incontrerà mai la donna, non si innamorerà di lei e, di conseguenza, non soffrirà mai la sua perdita. Ingannare il destino tra le numerose e intricate linee della metropolitana di Londra, però, non si rivelerà così semplice come immagina.

CENNI DI VITA DA AMANTI MORTI

Quando muori, passano mesi prima che le compagnie telefoniche riattribuiscano il tuo numero. In quei mesi sei in un limbo, non sei più vivo ma neanche morto. I tuoi amici osservano la tua foto profilo e forse ti piangono, o almeno ti ricordano. Se avevi un ragazzo o una compagna, quelli andranno a leggere il tuo stato su WhatsApp e avranno come la sensazione che tu gli stia inviando un messaggio dal mondo dei morti.

Ho sentito storie di persone che lasciano messaggi sul numero della persona defunta, una sorta di ultima promessa d’amore, come la versione digitale di un messaggio nella bottiglia che non approderà mai su una spiaggia dall’altra parte del mondo.

Se esistesse davvero un posto fisico, magari in fondo all’oceano, dove si trovano i fantomatici server, ecco, allora immagino un tizio con la chierica e la forfora che ascolta tutti i messaggi d’amore lasciati dai vivi ai partner passati a miglior vita. Me lo vedo mentre si soffia il naso e li archivia in una cartella apposita. Preme “taglia” e li incolla in “Messaggi per amanti morti”.

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L’altra sera sono andato a letto dopo essermi mangiato un intero polpettone, essermi bevuto una bottiglia di Chianti e aver visto un documentario sui fenicotteri rosa che sono rosa perché si nutrono di una sorta di gamberetti e che, quindi, se non li mangiassero sarebbero dei buffi uccelloni bianchi con le gambe sproporzionate.

Mi sono svegliato verso le tre con un tappeto di arsura in bocca e la t-shirt bagnata come se ci avesse pisciato sopra un cavallo.

Accendo il cellulare, vado su WhatsApp e trovo la sua foto con una citazione degli Smiths. È un attimo, ma in quell’istante credo che lei sia viva e che sia io ad aver sognato tutto.

Cerco il suo nome tra le ultime chiamate… ma non lo trovo perché non la chiamo da quattrocentotrentotto giorni.

Il senso di colpa risale l’esofago tipo salmone.

«April Love.»

Faccio subito partire la chiamata. Squilla. Squilla. Cazzo, squilla!

Mi bagno le labbra.

Il salmone dà un colpo di coda al cuore.

«Pronto, chi è?» mi risponde la voce impastata di un quindicenne.

«Nessuno, ho sbagliato, scusami.»

Probabilmente stava per eiaculare e io gli ho bloccato lo schizzo con questo stronzissimo tentativo di connettermi con un morto. La mia morta.

C’era più poesia nella sua sega che nel mio salmone.

Speriamo che April non stia flirtando con qualche cantautore romano defunto. Se mi conosce un minimo, sa bene che non le perdonerei mai neanche il tradimento di una notte. Non accetterei mai come giustificazione “Ma eravamo sbronzi, e morti, mentre tu eri ancora vivo”.

April, mi manchi. Mi manchi da morire, anzi, mi manchi da vivere.

VOLEVO SOLO CHIAMARE ME STESSO

Una settimana dopo

La verità è che mi stavo annoiando, fuori pioveva e io e Bukowski non potevamo uscire.

Lui aveva paura di salire in soffitta, ma io, che sono notoriamente uno stronzo, lo avevo portato forza.

Una volta su, avevo iniziato a fargli vedere i vari palloni e palline nelle vecchie ceste di giocattoli. Dentro vi era di tutto, non potevo certo rinfacciare ai miei genitori che avessero lesinato sui giochi. Potevi trovarci ogni tipo di intrattenimento infantile, dai Lego, alle figurine, ai pupazzi.

Buk sembrava preoccuparsi solo dell’abbaino da cui arrivava il bagliore dei lampi. La scala, però, era troppo irta per provare a dileguarsi al piano di sotto.

L’occhio mi cadde su una vecchia musicassetta, Vitalogy dei Pearl Jam. Che bella che era. Me l’aveva registrata un amico dei tempi.

La presi in mano, lo strato di polvere sembrava essersi compattato con la plastica, e a malapena si leggevano i titoli delle canzoni.

La strusciai su una vecchia coperta che spuntava da un baule, e dopo averla tolta dal guscio di plastica, vidi una scritta in bella calligrafia sulla parte interna del cartoncino: To Noah, I hope you like it, P.za Calvino 13, tel. 055872923.

Il tipo, Lorenzo, si era appuntato anche il telefono di casa mia, se non mi avesse incrociato in giro per molto tempo me lo avrebbe recapitato a casa. Sarebbe stato meglio se avessi coltivato con più attenzione la nostra amicizia. Sembra che ora faccia il medico per una onlus in Bolivia, almeno lui fa qualcosa di utile ed emozionante.

Piccola, in basso, era trascritta la data che sanciva il regalo, il rito d’iniziazione: 1997.

E il 1997 mi ingoia all’improvviso lasciando il povero Bukowski a guardarmi perplesso in questa mansarda farcita di polvere e giochi da tavolo.

Mi ritrovo a metà anni Novanta, indosso jeans larghissimi, una felpa gialla e un cappellino dei Chicago Bulls. Ascolto solo rap. Faccio graffiti, ballo hip-hop, o almeno ci provo. Improvviso rime anche sul lampredotto. Il rock è il nemico.

Con la roba di casa nostra è guerra aperta, mentre per gli americani mantengo un certo rispetto. Tuttavia, se non sei nero e con i boxer che riparano il culo, altrimenti in bella mostra a causa dei pantaloni che ciondolano all’altezza del cavallo, io non ti ascolto.

Lorenzo, il mio amico, mi ha appena portato questa cassettina. Mette le mani avanti dicendo che non è il mio genere. La inseriamo nello stereo e sento subito aria di rabbia e ribellione e questo mi suona bene.

«Di dove sono questi ragazzi?» chiedo.

«Di Seattle, come i Nirvana.»

«Ah ok… Devo un attimo, farci l’orecchio…»

«Oh, ce lo farai, e vedrai che li amerai! Sono nati per suonare per i tuoi ginocchi appuntiti che sbucano dai jeans!»

A parlare era stata lei, amica di Lorenzo, affacciandosi all’improvviso dai sedili posteriori della Panda.

Queste parole erano uscite dalla fessura delle sue labbra carnose.

Oh, Vanessa, con i suoi lunghi capelli corvini, spuntata alle nostre spalle. E chi se la dimentica.

La guardai e le sorrisi sognante. Nessuna prima di lei mi aveva mai detto che avevo dei ginocchi appuntiti. Fu così che incontrai i Pearl Jam per la prima volta, su una Panda scalcinata, tra i miei ginocchi appuntiti e la dolce Vanessa.

Presente. Infilai la cassetta nei calzoni sdruciti e, una volta fuori dalla soffitta, la nascosi nelle profondità zaino neanche fosse un pacchetto di droga.

Su quella musicassetta era impresso il mio vecchio numero di telefono e io volevo a ogni costo provare a chiamarlo. Chissà che mi avrebbe detto il mio vecchio me stesso. Se solo avesse saputo tutte le cose in cui mi ero infilato… Certo sarebbe rimasto un tantino deluso.

I tempi di un foglietto con tutti i numeri di telefono degli amici, ripiegato nel portafogli, accanto a una tessera telefonica con una barra nera e un gatto e un pulcino, erano lontani come gli Assiri e i Babilonesi.

Entrare in una cabina e dire a un altro: «Dettami tu il numero che qua non ci si vede una minchia, e speriamo che non risponda sua mamma» costituiva uno di quei momenti topici, generazionali».

Poi un giorno arriva un tizio. Il ricco del gruppo, il maranza, e ci sfoggia un mattone nero con dei tasti, una cosa che se la avessi tirata da un cavalcavia avrei ammazzato anche l’autista di un carro armato. I telefoni cellulari hanno ucciso la poesia e noi non glielo perdoneremo mai.

Il giorno dopo intorno alle sette andai dove sapevo ci fosse ancora una cabina telefonica pubblica e d’un tratto mi ritrovai dentro un ascensore temporale.

Su una delle pareti di plexiglass, infatti, avevano scritto una poesia: “Vorrei svegliarmi domani nel futuro che mi ero promesso, rivivere il meglio, senza dimenticare il peggio, e cercare di capire il senso, un senso che fugge ancora adesso”.

Un ispirato poeta metropolitano doveva essersi esercitato a scrivere ’sta puttanata durante una serata in solitudine.

Adesso stava piovendo sul tetto di questa zattera plasticosa mezza rossa e mezza trasparente, e io, al suo interno, cercavo di parlare con qualcuno che abitava vent’anni nel passato.

Ma poi, per parlare con qualcuno che vive vent’anni indietro rispetto a te, si fa un prefisso particolare? O quando la voce registrata risponde, digiti una password? Per un attimo immaginai di dire “Fidelio” e di ritrovarmi nell’orgia massonica di Eye Wide Shut con tutti indosso maschere veneziane.

Ma non fu così.

Composi quel numero… ma ovviamente non funzionò.

2022-05-29

Evento

Firenze, zona Ugnano Conto alla rovescia. Mancano sei giorni alla presentazione del libro, domenica 29 maggio alle ore 16,30 a Ugnano (fi). Pomeriggio alcolico di fine maggio tra narrariva,musica ed amici. Chi non viene è un pellettaio. Vi aspetto! ps, in foto l'animatore, il famoso Toro di Caloveto, mentre la bartender sarà la dolce dea dei boschi di Gubbio, serena M

Commenti

  1. Antonio Lomurno

    Tema principale del libro è la situazione nella quale la maggior parte di noi si rigira nel letto passando tante di quelle notti in bianco: se potessi tornare indietro non commetterei quell’errore. Questo è quello che cerca di fare Noah, il protagonista del libro, mettersi in contatto telefonicamente con il se stesso del passato per cercare di metterlo in guardia e convincerlo a non innamorarsi della donna della quale soffrirà la prematura scomparsa.
    Il libro affronta in modo deciso e nel modo giusto con una storia intrinseca un tema, forse poco discusso ma uno di quelli sui quali l’uomo non riesce a darsi una risposta: è possibile ingannare il destino?
    È quello che mi sono chiesto dalla lettura di questo libro e sono arrivato a una conclusione, la risposta è NO, poiché a mio parere l’uomo saggio è forgiato dagli errori del passato.
    Lettura super consigliata, uno di quei libri da leggere tutto d’un fiato.

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Saimo Tedino
nasce nel 1980 a Firenze. Laureato in Scienze politiche, ha
co-diretto quattro cortometraggi e conduce una trasmissione radiofonica su Radio Canale. Nel 2013 pubblica il romanzo breve Fuggirò con le scarpe e la sposa e nel 2018 esce per bookabook la sua seconda opera, Cani soli di mezza taglia. Ha trascorso la vita tra Firenze e Londra, scrivendo e prenotando voli low cost e leggendo Bukowski.
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