L’altra sera sono andato a letto dopo essermi mangiato un intero polpettone, essermi bevuto una bottiglia di Chianti e aver visto un documentario sui fenicotteri rosa che sono rosa perché si nutrono di una sorta di gamberetti e che, quindi, se non li mangiassero sarebbero dei buffi uccelloni bianchi con le gambe sproporzionate.
Mi sono svegliato verso le tre con un tappeto di arsura in bocca e la t-shirt bagnata come se ci avesse pisciato sopra un cavallo.
Accendo il cellulare, vado su WhatsApp e trovo la sua foto con una citazione degli Smiths. È un attimo, ma in quell’istante credo che lei sia viva e che sia io ad aver sognato tutto.
Cerco il suo nome tra le ultime chiamate… ma non lo trovo perché non la chiamo da quattrocentotrentotto giorni.
Il senso di colpa risale l’esofago tipo salmone.
«April Love.»
Faccio subito partire la chiamata. Squilla. Squilla. Cazzo, squilla!
Mi bagno le labbra.
Il salmone dà un colpo di coda al cuore.
«Pronto, chi è?» mi risponde la voce impastata di un quindicenne.
«Nessuno, ho sbagliato, scusami.»
Probabilmente stava per eiaculare e io gli ho bloccato lo schizzo con questo stronzissimo tentativo di connettermi con un morto. La mia morta.
C’era più poesia nella sua sega che nel mio salmone.
Speriamo che April non stia flirtando con qualche cantautore romano defunto. Se mi conosce un minimo, sa bene che non le perdonerei mai neanche il tradimento di una notte. Non accetterei mai come giustificazione “Ma eravamo sbronzi, e morti, mentre tu eri ancora vivo”.
April, mi manchi. Mi manchi da morire, anzi, mi manchi da vivere.
VOLEVO SOLO CHIAMARE ME STESSO
Una settimana dopo
La verità è che mi stavo annoiando, fuori pioveva e io e Bukowski non potevamo uscire.
Lui aveva paura di salire in soffitta, ma io, che sono notoriamente uno stronzo, lo avevo portato forza.
Una volta su, avevo iniziato a fargli vedere i vari palloni e palline nelle vecchie ceste di giocattoli. Dentro vi era di tutto, non potevo certo rinfacciare ai miei genitori che avessero lesinato sui giochi. Potevi trovarci ogni tipo di intrattenimento infantile, dai Lego, alle figurine, ai pupazzi.
Buk sembrava preoccuparsi solo dell’abbaino da cui arrivava il bagliore dei lampi. La scala, però, era troppo irta per provare a dileguarsi al piano di sotto.
L’occhio mi cadde su una vecchia musicassetta, Vitalogy dei Pearl Jam. Che bella che era. Me l’aveva registrata un amico dei tempi.
La presi in mano, lo strato di polvere sembrava essersi compattato con la plastica, e a malapena si leggevano i titoli delle canzoni.
La strusciai su una vecchia coperta che spuntava da un baule, e dopo averla tolta dal guscio di plastica, vidi una scritta in bella calligrafia sulla parte interna del cartoncino: To Noah, I hope you like it, P.za Calvino 13, tel. 055872923.
Il tipo, Lorenzo, si era appuntato anche il telefono di casa mia, se non mi avesse incrociato in giro per molto tempo me lo avrebbe recapitato a casa. Sarebbe stato meglio se avessi coltivato con più attenzione la nostra amicizia. Sembra che ora faccia il medico per una onlus in Bolivia, almeno lui fa qualcosa di utile ed emozionante.
Piccola, in basso, era trascritta la data che sanciva il regalo, il rito d’iniziazione: 1997.
E il 1997 mi ingoia all’improvviso lasciando il povero Bukowski a guardarmi perplesso in questa mansarda farcita di polvere e giochi da tavolo.
Mi ritrovo a metà anni Novanta, indosso jeans larghissimi, una felpa gialla e un cappellino dei Chicago Bulls. Ascolto solo rap. Faccio graffiti, ballo hip-hop, o almeno ci provo. Improvviso rime anche sul lampredotto. Il rock è il nemico.
Con la roba di casa nostra è guerra aperta, mentre per gli americani mantengo un certo rispetto. Tuttavia, se non sei nero e con i boxer che riparano il culo, altrimenti in bella mostra a causa dei pantaloni che ciondolano all’altezza del cavallo, io non ti ascolto.
Lorenzo, il mio amico, mi ha appena portato questa cassettina. Mette le mani avanti dicendo che non è il mio genere. La inseriamo nello stereo e sento subito aria di rabbia e ribellione e questo mi suona bene.
«Di dove sono questi ragazzi?» chiedo.
«Di Seattle, come i Nirvana.»
«Ah ok… Devo un attimo, farci l’orecchio…»
«Oh, ce lo farai, e vedrai che li amerai! Sono nati per suonare per i tuoi ginocchi appuntiti che sbucano dai jeans!»
A parlare era stata lei, amica di Lorenzo, affacciandosi all’improvviso dai sedili posteriori della Panda.
Queste parole erano uscite dalla fessura delle sue labbra carnose.
Oh, Vanessa, con i suoi lunghi capelli corvini, spuntata alle nostre spalle. E chi se la dimentica.
La guardai e le sorrisi sognante. Nessuna prima di lei mi aveva mai detto che avevo dei ginocchi appuntiti. Fu così che incontrai i Pearl Jam per la prima volta, su una Panda scalcinata, tra i miei ginocchi appuntiti e la dolce Vanessa.
Presente. Infilai la cassetta nei calzoni sdruciti e, una volta fuori dalla soffitta, la nascosi nelle profondità zaino neanche fosse un pacchetto di droga.
Su quella musicassetta era impresso il mio vecchio numero di telefono e io volevo a ogni costo provare a chiamarlo. Chissà che mi avrebbe detto il mio vecchio me stesso. Se solo avesse saputo tutte le cose in cui mi ero infilato… Certo sarebbe rimasto un tantino deluso.
I tempi di un foglietto con tutti i numeri di telefono degli amici, ripiegato nel portafogli, accanto a una tessera telefonica con una barra nera e un gatto e un pulcino, erano lontani come gli Assiri e i Babilonesi.
Entrare in una cabina e dire a un altro: «Dettami tu il numero che qua non ci si vede una minchia, e speriamo che non risponda sua mamma» costituiva uno di quei momenti topici, generazionali».
Poi un giorno arriva un tizio. Il ricco del gruppo, il maranza, e ci sfoggia un mattone nero con dei tasti, una cosa che se la avessi tirata da un cavalcavia avrei ammazzato anche l’autista di un carro armato. I telefoni cellulari hanno ucciso la poesia e noi non glielo perdoneremo mai.
Il giorno dopo intorno alle sette andai dove sapevo ci fosse ancora una cabina telefonica pubblica e d’un tratto mi ritrovai dentro un ascensore temporale.
Su una delle pareti di plexiglass, infatti, avevano scritto una poesia: “Vorrei svegliarmi domani nel futuro che mi ero promesso, rivivere il meglio, senza dimenticare il peggio, e cercare di capire il senso, un senso che fugge ancora adesso”.
Un ispirato poeta metropolitano doveva essersi esercitato a scrivere ’sta puttanata durante una serata in solitudine.
Adesso stava piovendo sul tetto di questa zattera plasticosa mezza rossa e mezza trasparente, e io, al suo interno, cercavo di parlare con qualcuno che abitava vent’anni nel passato.
Ma poi, per parlare con qualcuno che vive vent’anni indietro rispetto a te, si fa un prefisso particolare? O quando la voce registrata risponde, digiti una password? Per un attimo immaginai di dire “Fidelio” e di ritrovarmi nell’orgia massonica di Eye Wide Shut con tutti indosso maschere veneziane.
Ma non fu così.
Composi quel numero… ma ovviamente non funzionò.
Antonio Lomurno
Tema principale del libro è la situazione nella quale la maggior parte di noi si rigira nel letto passando tante di quelle notti in bianco: se potessi tornare indietro non commetterei quell’errore. Questo è quello che cerca di fare Noah, il protagonista del libro, mettersi in contatto telefonicamente con il se stesso del passato per cercare di metterlo in guardia e convincerlo a non innamorarsi della donna della quale soffrirà la prematura scomparsa.
Il libro affronta in modo deciso e nel modo giusto con una storia intrinseca un tema, forse poco discusso ma uno di quelli sui quali l’uomo non riesce a darsi una risposta: è possibile ingannare il destino?
È quello che mi sono chiesto dalla lettura di questo libro e sono arrivato a una conclusione, la risposta è NO, poiché a mio parere l’uomo saggio è forgiato dagli errori del passato.
Lettura super consigliata, uno di quei libri da leggere tutto d’un fiato.