Non appena si mosse, le figure lo inseguirono. James correva ansimando e aveva il cuore in gola. Il sudore gli gocciolava dalla fronte mentre cercava di andare il più veloce possibile. Nonostante la rapidità con la quale scappava, quelle lo raggiunsero con estrema facilità. Si voltò e le vide, erano numerose e terrificanti. Tremante di paura, tentò di accelerare ancora di più la sua corsa. Ogni volta che scendeva una rampa di scale, leggeva il numero del piano. Ne mancavano altri quattro e sarebbe potuto, forse, uscire da quel palazzo. Cercò di darsi coraggio anche se le gambe erano ormai sfinite e non aveva più aria nei polmoni, tanto aveva corso. Ce la posso fare, si ripeteva. “3° piano”. Ce la faccio, si disse. “2° piano”. Le figure erano sempre più vicine. “1° piano”. Ce l’ho fatta! Pensò, ma non appena scese l’ultima rampa di scale, non si ritrovò all’uscita. James ebbe quasi un mancamento, aveva la bocca secca e il viso paonazzo. Non può essere… Alzò lo sguardo e trovò davanti a sé un’altra scritta: “3° piano”. Che…?!
Le creature gli erano quasi addosso e lui riprese a correre, incredulo. Era arrivato fino in fondo, come potevano mancare altri tre piani? Dov’era l’uscita? Nonostante fosse confuso, non poteva fermarsi. Continuò a scendere, ma quando superò di nuovo il primo piano, si ritrovò all’ottavo. Non ha senso… Ogni volta che sembrava stesse per raggiungere l’uscita, si ritrovava sempre più in alto.
Era distrutto, le gambe non lo reggevano più e iniziarono a cedergli. Inevitabilmente, James crollò a terra. Respirava a malapena. «Mi arrendo» disse, per poi venire avvolto dall’oscurità.
Lo avevano preso.
James aprì gli occhi e si alzò di scatto dal letto. Aveva i capelli grondanti di sudore e il respiro affannoso. Si portò le mani al volto e si guardò intorno, sincerandosi che fosse sveglio per davvero e che non stesse ancora sognando. Sentiva le gambe stanche come se avesse realmente corso per tutta la notte. Gli capitava continuamente di fare incubi del genere, ma non era riuscito ancora ad abituarcisi. Erano sempre terribili e, soprattutto, molto realistici. Diede uno sguardo alla sveglia sul comodino. Erano le 3:33. Si svegliava spesso a quest’orario, e la precisione con cui lo faceva lo lasciava esterrefatto. Lasciò la camera da letto e si diresse in cucina per bere un bicchiere d’acqua. Quando si mise a sedere, ripensò a quelle creature nere e senza volto. Non era la prima volta che le vedeva…
Che razza di incubo! pensò.
Capitolo 2
II risveglio burrascoso aveva ormai ostacolato il suo sonno, succedeva sempre così. Ogni volta che si svegliava nel cuore della notte, non riusciva a riaddormentarsi e si ritrovava, stordito, ad attendere le luci dell’alba. La stanchezza, però, si faceva sentire e i suoi occhi erano pesanti come macigni, si chiudevano da soli. Ma ogni volta che appoggiava la testa sul cuscino, quelle creature sembravano materializzarsi davanti a lui, impedendogli di dormire. Era davvero fastidioso, considerando che, al mattino, sarebbe dovuto andare al lavoro. James era un giornalista, l’interesse per tale professione gli era stato in un certo senso tramandato da suo padre, Ralph. Infatti, anche lui si era occupato di giornalismo.
James si girava e rigirava nel letto, la sua testa era un proliferare di pensieri. Un senso di angoscia lo attanagliava, sembrava avesse un nodo alla bocca dello stomaco. Si sentiva spesso così. La sua mente iniziò a divagare soffermandosi proprio su suo padre. Quello non era un giorno come tanti. Era il 13 di settembre, data che lui non avrebbe mai potuto dimenticare. L’ansia iniziò a crescere sempre di più e non c’era niente che lui potesse fare per farla cessare, i suoi pensieri erano irrefrenabili.
Nonostante tutto, la stanchezza ebbe il sopravvento e i suoi occhi cominciarono a chiudersi lentamente, per poi farlo crollare in un sonno profondo.
L’aria era fresca e leggera. Era pieno giorno, il sole splendeva raggiante nel cielo sereno e una luce chiara e limpida illuminava l’ambiente circostante.
Dove sono? si chiese.
Si portò le mani al viso per coprirsi gli occhi, accecati dallo splendore lucente del sole. Il suo senso di disorientamento cresceva sempre più, non sapeva dove fosse né come ci fosse arrivato. Finalmente, i suoi occhi si abituarono alla luce e gli permisero di riconoscere quello che era un grazioso chiostro all’aperto.
Un convento… Ma… non c’è nessuno, si disse.
Con passi calmi e lenti, James si mise a perlustrare la zona in cerca di qualcuno, senza, però, trovare anima viva. I suoi piedi calpestavano l’erba, luccicante di rugiada. La brezza leggera sembrava quasi accarezzarlo e un profumo di fiori lo inebriava inondandogli i polmoni e lasciandolo estasiato. Al centro dello spazio erboso rettangolare c’era una grande fontana da cui sgorgava acqua fresca e cristallina, tanto da suscitare in lui il desiderio di abbeverarsene. L’ampio spazio centrale era circondato da corridoi con tettoia che presentavano delle aperture, definite da archi e colonne a fusto liscio. Prese a camminare pestando l’erba sotto i suoi piedi e inspirando a pieni polmoni l’aria pulita che aleggiava in quel luogo. Dei fiori risaltarono ai suoi occhi: aiuole colme di rose coloravano visibilmente tutto il chiostro; erano rosse, rosa, blu e bianche, tanto belle quanto profumate. Vi si avvicinò e si chinò per odorarle. Il loro profumo era delicato e dolce. James non avvertiva più alcuna ansia o angoscia, si sentiva in pace con se stesso. Il rumore dell’acqua della fontana, il cinguettio degli uccelli che svolazzavano sopra di lui e il rumore del vento, leggero e fresco, lo rilassavano.
Da dove si trovava, riuscì a vedere una statua, posta in uno dei corridoi; si incamminò in quella direzione per osservarla da vicino. La piccola scultura raffigurava un viso dolce, buono, con un sorriso affettuoso e caloroso.
Un angelo pensò, riconoscendo la raffigurazione sacra.
D’un tratto, gli uccelli smisero di cinguettare. Gli alberi, le cui foglie erano di colori raggianti, iniziarono a scurirsi, sfruttando le raffiche di vento per proporre strane e sinistre melodie. Un silenzio spettrale piombò sul chiostro, e il vento, da leggero, divenne impetuoso e tagliente. Il sole si oscurò completamente e il convento sprofondò nell’oscurità. James si guardò intorno spaventato e in preda alla confusione: era tutto così calmo fino a un secondo prima, cos’era successo? Il cielo era ora intriso di un nero plumbeo, e i fulmini lo squarciavano e frantumavano in innumerevoli ritagli.
Cosa sta succedendo?! si chiese James. Con grande prontezza e tempestività, si riparò nei corridoi un attimo prima che la violenta pioggia si scagliasse sul chiostro, inzuppando e distruggendo le rose. Esalò un sospiro di sollievo e osservò gli alberi venire quasi scaraventati via dal vento, sradicati dal suolo erboso. In quello scenario fragoroso e impetuoso, il rumore della pioggia e dei tuoni era l’unico a echeggiare nel convento ma, improvvisamente, James udì anche delle urla strazianti. Sembrava provenissero da molto lontano, ma non così tanto da non essere udibili. James si mise a correre verso di loro e, a mano a mano che proseguiva, quelle si facevano sempre più chiare, intense e penetranti. Con le gambe allo stremo, corse fino a raggiungere l’entrata del convento. Lì, le grida s’intensificavano notevolmente, e finalmente lui poté vedere cosa stava succedendo.
Dinanzi alla grande porta in legno c’era un bambino che dava le spalle a James. La sua figura era così esile e gracile che gli sembrava impossibile potesse emettere quelle urla così assordanti e laceranti. In ogni caso, aveva smesso di urlare e ora il suono che fuoriusciva dalla sua bocca era un pianto disperato e implorante. James osservava la scena con il fiato sospeso, come se fosse uno spettatore invisibile. Con stupore si accorse che assieme al bambino c’era un uomo. Era alto, possente, probabilmente suo padre. James avvertiva che la propria presenza era inopportuna, invadente; non voleva che lo scoprissero lì a origliare, così si nascose dietro una delle numerose colonne. Tuttavia, pareva che loro non potessero vederlo, come se lui non fosse realmente lì.
Le urla ripresero all’improvviso.
«Papà, non mi lasciare… Ti prego, non abbandonarmi qui!» Il pianto del bambino si fece via via più intenso.
James con stupore e tristezza, riconobbe in quell’uomo suo padre, Ralph. Era fermo davanti a lui, immobile. Sembrava una statua di marmo. Un’espressione di collera, però, si fece spazio sul suo viso, che mostrò un evidente dispiacere. Guardava costantemente un orologio. «Mi dispiace figliolo… Addio…» disse, per poi girarsi di spalle e andarsene, scomparendo in una nebbia fitta e perlacea, e lasciando crollare il figlio nella disperazione.
Improvvisamente, la porta del convento si chiuse con violenza, emettendo un tonfo assordante che fece sobbalzare James, provocandogli così un senso di vuoto e paura, come se stesse precipitando in una grande voragine.
Quando aprì gli occhi si rese conto che aveva sognato di nuovo. Guardò fuori dalla finestra: era l’alba; finalmente la giornata poteva avere inizio. Le lenzuola erano bagnate di sudore e appiccicate alla sua pelle. Si alzò dal letto visibilmente scosso, era stanco di tutti quegli incubi, non ne poteva più.
Andò in bagno e si precipitò sotto la doccia, aveva avuto una notte abbastanza movimentata. Non riusciva a smettere di pensare a quel bambino che urlava. Non era un semplice sogno, era un ricordo. Quel bambino era lui e quell’uomo era suo padre. Gli capitava spesso di sognare quel momento della sua vita, soprattutto quando ricorreva la data di quel giorno preciso, in cui tutto accadde: il 13 settembre. Era un ricordo indelebile per lui, nonché un incubo inevitabile.
James era cresciuto in una famiglia agiata, ma orfano di madre, morta dandolo alla luce. Quello che sapeva di lei lo aveva appreso soltanto attraverso i ricordi e i racconti dei suoi familiari. Nonostante tutto, aveva avuto un’infanzia felice, era stato un bambino spensierato e giocoso, sempre pronto a esplorare e a curiosare in giro. Tale spensieratezza si era spezzata proprio il 13 settembre.
James e Ralph avevano vissuto in una grande villa, lontana dallo stress cittadino e circondata dal verde. Per un bambino come lui, che amava stare all’aperto, quella casa era l’ideale. Trascorrevano molto tempo insieme, ma in quel periodo, qualcosa sembrava essere cambiato. Suo padre non era più lo stesso, un fatto o un pensiero lo preoccupava, ma James non aveva minimamente idea di cosa fosse. Era solo un bambino e non poteva sapere cosa stesse succedendo a suo padre, ma più il tempo passava, più per lui le cose diventavano strane e incomprensibili.
James aveva iniziato a passare molto tempo con i nonni perché Ralph non c’era quasi mai, usciva di casa e tornava la sera tardi, oppure non tornava affatto. Poi, il 13 di settembre, tutto cambiò. Lui aveva dieci anni e i suoi nonni se ne erano appena andati, visto che suo padre era tornato a casa prima.
Erano circa le tre del pomeriggio e James stava giocando all’aperto con la palla. Ed era questo l’ultimo ricordo che aveva di quel giorno: lui che, spensierato e divertito, calciava la palla e correva sul prato, gettandosi sull’erba e sporcandosi i pantaloni di terriccio. Poi, c’era il buio totale. A frammenti, come dei flash, ricordava un albero, un temporale e quello che doveva essere un edificio religioso, ma ciò che ricordava perfettamente era l’attimo in cui, aprendo gli occhi, si era reso conto di non trovarsi più sull’erba umida e profumata, ma steso sul sedile posteriore dell’auto di Ralph. Si era stropicciato gli occhi, come se si fosse risvegliato da un sonno profondo, e aveva visto suo padre guidare attentamente. Era evidente quanto fosse in ansia, le sue mani tremanti poggiavano sul volante, cercando di assumere una presa stretta, il suo viso era lucido di sudore e i suoi occhi si muovevano ossessivamente a destra e a sinistra. Di tanto in tanto, dava uno sguardo allo specchietto retrovisore, per assicurarsi che fosse tutto tranquillo, come se avesse paura che qualcuno lo stesse inseguendo.
«Papà, che succede?»
L’uomo non aveva detto una parola e si era limitato a rivolgergli uno sguardo attraverso lo specchietto. Accelerava sempre di più, sorpassando le auto che ostacolavano la sua corsa. Il cielo aveva iniziato a incupirsi, poi all’improvviso era cominciato a piovere a dirotto. Controllava in continuazione un vecchio orologio da taschino, anche se ne aveva un altro al polso. L’acqua che cadeva sul parabrezza innervosiva l’uomo, ma dopo pochi minuti erano arrivati finalmente a destinazione. Ralph era sceso dall’auto ordinando a suo figlio di fare lo stesso. Il bambino si era guardato intorno confuso e un’espressione perplessa si era fatta spazio sul suo volto. «Dove siamo?»
«È questa la tua casa, ora» gli aveva detto l’uomo, indicandogli un edificio. Era un convento.
«Cosa? Perché, papà? Tu dove vai?»
«Non posso più restare con te.»
Le lacrime avevano rigato il volto di James e, con la voce rotta dal pianto, si era aggrappato a suo padre, implorandolo di restare. «Papà, non mi lasciare! Ti prego, non abbandonarmi qui!» urlava.
L’uomo si era staccato dalla presa del figlio e gli si era rivolto con uno sguardo fermo e malinconico. «Mi dispiace. Addio.»
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