Era una di quelle feste che si organizza sperando di conoscere gente nuova e che poi si trascorre preparando beveroni, servendo pizzette, e osservando splendide ragazze conoscere e divertirsi un mondo con quelli che si sono invitati solo per far numero (traditori). Feste stancanti, che gli organizzatori trascorrono in una frenesia competitiva inespressa, desiderando da una parte essere riconosciuti come chi ha combinato il tutto, e dall’altra disperdersi tra i fortunati che a nulla devon pensare tranne che mangiare, bere ed elencare collaudate spiritosaggini a chi capita sotto tiro. A cercar di fare cose opposte, si sa, non se ne fa poi nessuna bene: si finisce per puntare in cinque l’amica della fidanzata del cugino, le si parla a tratti tra un vassoio e l’altro, cercando di spedir via gli altri quattro con allusioni incomprensibili a compiti assurdi da svolgere; intanto si condensano i magnifici discorsi preparati insieme ai tramezzini in poche frasi dal significato però oscuro e del tutto distante dai desideri, alla fine. Non un gran che insomma, ma che per qualche sconosciuta ragione alla fine, quando si riassetta tutto con l’aiuto delle donne degli amici (le vere menti di tutto, le fate buone d’ogni compagnia) lascia un entusiasmo tardivo, una voglia di rifarlo, tutti, sempre, e alla fine non si sa neppure a che scopo.
Per fortuna io quella sera sono arrivato lì come invitato di terzo livello, ossia come amico dell’amica della ragazza di un organizzatore, e me la stavo spassando ad osservare quello che di solito facevo io, fatto da altri. Diana, con cui ero entrato, giocava con me a fare la coppia libera, attirando e respingendo i corteggiatori allentando o stringendo il filo di sguardi e sorrisi che ci legava insieme. Piccola concessione masochistica di due amici, la cui voglia di avventure romantiche stile Liala non riusciva mai a superare lo sbarramento dell’ironia, né ad essere da questa soppressa. Ad un tratto, eccola. Quasi per caso, nascosta tra due battutine che avevo lasciato cadere con quella che speravo fosse leggerezza, ma chissà cos’era veramente, presentata non ricordo più da chi, fendeva un mare di volti allegri ma per me di colpo espressivi come gusci di blatte, infrangendo la complicità fragile che stavamo costruendo con Diana. È arrivata così Lucrezia nella mia vita. A pensarci non so ancora cosa mi ha colpito in lei così tanto, quella sera; forse quel suo modo così unico di ridere, o forse come guardava (me, forse? Possibile?). Boh, forse fu il suo collo: lungo, aristocratico, che lei mostrò con un gesto che mi parve non ricordo più se civettuolo o generoso, ma che forse era solo naturale, ravviandosi i lunghi boccoli, di un castano rossiccio biondo a cui non sono mai, accidenti, riuscito ad assegnare un colore preciso. Colpito. Come in un film immaginario, all’improvviso tutte le voci intorno a me hanno messo la sordina e i miei occhi han voluto solo osservare lei. Siccome questo non aiuta molto, né ad assumere la necessaria espressione disinvolta e di successo, né tantomeno ad evitare i tavoli, che non avevo mai pensato così numerosi in una festa, mi sono avvicinato a lei come un incrocio tra un Alberto Sordi con gli occhi acquosi ed un pullman posteggiato in discesa senza freno a mano. Ciao! Le ho detto, originale.
Gli occhi acquosi li ho anche ora, porca miseria. Guardo il muro di fronte al divano dove mi sono lasciato cadere, e non lo vedo. Vedo solo il film di quella serata: lo giro io come piace a me, fermandomi rallentando e ripetendolo dove voglio. Lo padroneggio, non come questa stupida realtà che tende a farsi i fatti suoi e che non sono mai riuscito a controllare, né per davvero né almeno per un poco.
Calma, devo calmarmi; ora respiro, bene, così, fermo, ecco.
Macché. I miei pensieri sono troppo veloci, corrono intorno a me, scappano, li cerco: eccone un altro, se ne va. Fermo!
Niente.
Ho bisogno di bere.
Ah beh, ecco qua un’idea originale: serata d’estate, calda, profumata, carica di promesse. Esco con la persona che dà senso a me, all’estate, a questa sera, che mi fa cantare nel cuore. D’improvviso scopro che ciò che pensavo vero, stabile e certo scolora di colpo, come un brutto manifesto sul muro in una sera di pioggia. Resto da solo. Mi guardo in giro. Torno a casa, mi butto sul divano e mi ubriaco. Ma bravo, devo farmi proprio i complimenti.
Non ci posso credere, non c’era nulla che andasse storto, nulla. Incomprensioni? No, no, nessuna: mi ama, lo so, lo so, e anch’io l’amo, Dio come l’amo. Qualunque cosa di lei amo: le sue gambe (oh mamma mia, che gambe: ricche tornite e snelle) gli occhi, il loro colore, il suo seno a far capolino, il modo storto che ha di guardarmi e di scherzare, il sorriso. L’incredibile, unica forse, leggerezza nel guardare e capire le cose, capire il tutto e rivestirlo con una battuta dolce e intelligente, dolce come lei, come il suo sguardo, come il suo sorriso..
Troia.
Mi ha liquidato così, senza un tremito, solo un leggero fastidio per dover sbrigare una pratica imbarazzante e un po’ noiosa. Con lo zelo annoiato di chi cerca di schiacciare una mosca, senza darlo troppo a vedere. E io lì, appeso ai suoi occhi, lo sguardo stranito del pesce attaccato all’amo, con il rampino che mi strazia le branchie, di colpo, con l’aria che entra bruciando nei polmoni e mi toglie il fiato. Non è vero, non mi hai pescato, ributtami nel mare dai, stai scherzando, vero? No. Paf! Nella cesta, a dibattermi, a soffocare nell’aria mentre lei guarda già oltre, guarda già il mare.
Buono però, questo rum; originale cubano, proprio buono. Me l’ha portato Diego da uno dei suoi viaggi. E bravo Diego, rendiamogli onore.
Mah! Forse è proprio vero che la danza la guidano le femmine, purtroppo, e noi solo per gioco crediamo di guidarla. Beh, in effetti già il modo di presentarmi a lei, durante quella festa, ha marcato subito — e mio malgrado – la distanza enorme che mi separa dai sorridenti James Bond dei miei sogni. Avrei voluto planare sul suo gruppetto come un nobile falco, signore delle alte vette e dell’aria fredda e fina: son caduto invece pesante come un fumoso aereo in avaria, e non so che miracolo mi ha impedito d’atterrare su di lei in modo rovinoso, goffo come mi sento in questi casi. Per cercare di risollevare la mia immagine rovinata, ho imboccato una strada pericolosa e sconnessa: freneticamente cercavo di pronunciare frasi interessanti, pensando intanto a cosa dire dopo e cercando insieme di ascoltare cosa mi stava dicendo lei; possiamo immaginare con che bei risultati. Invece no, questa volta son riuscito, non so ancora bene in che modo — ma sospetto grazie ad una sua mossa — a rimanere da solo con lei, che mi guidava calma tra i miei pensieri trafelati, scostandoli lieve e dando loro ordine e forma. Abbiamo così creato nella festa una bolla colorata, nel cui silenzio giocare con le nostre anime, almeno con quello che se ne fa vedere durante il corteggiamento. Bolla iridescente a tremula ma abbastanza forte, per me almeno, da nascondermi il resto del mondo. Non così forte, però, da nascondermi al resto del mondo. Qualcuno è entrato nel nostro regno effimero, scoppiandola.
Ho proprio bisogno di un altro bicchiere.
Ecco, ora non ci manca altro che una bella ubriacatura.. poi magari però lei arriva, entra, mi trova così: tenebroso, con la bottiglia mezza vuota, lo sguardo addolorato ma fermo e mi dice: «Perdonami, ho capito tutto». Nel sottofondo: As time goes by. Io: impassibile, ascolto. Lei: si dispera, piange, mi carezza timorosa una spalla. In fondo, l’amo. Mi volto, la guardo, mi guarda. Si scioglie, mi sciolgo: un bacio lunghissimo, cinematografico.
Sì, ma mi puzza l’alito. Capirai, con tutto questo rum.
Non ho mai capito come facciano quegli ubriachi nei film a riconquistare le loro donne; quelle li lasciano, questi vanno a bere, soffrono in silenzio (virilmente, certo) non muovono un dito ed ecco la dama da loro, cotta a puntino. Fan così da brilli, chissà cosa faranno da sobri. Io lo so, cosa faccio da sobrio: penso a lei, la cerco, la vedo, è lì. Ma appena provo a toccarla lei svanisce, diafana illusione che mi lascia di colpo qui a stringere la mia mano vuota, il petto pesante, gli occhi sgranati, solo. Non mi resta, visione, che inseguirti. Saltare sul nastro dei miei ricordi, scagliato verso la prima volta che ti vidi.
Il telefono! Ecco, fa sempre la cosa sbagliata: qui doveva venire, non starsene comoda a casa. Vabbè, vabbè, la perdono; lo sapevo comunque che bere serve a qualcosa: se lo fan tutti una ragione ci sarà pure, no? Calma ora, mi raccomando Luca, calmo. Vediamo.
Pronto? Ah, ciao, Dario. (uughhh!) No, no, non disturbi (mica). Cosa? Ma no, che dici, che bevuto (ma come fa, il maledetto? Sente l’alito dal telefono?). Cosa? Domani? Ah. No, grazie. Sì, sì, lo so che è Domenica (se avessi voluto un calendario avrei chiesto).. Peccato sai, è che ho già un impegno e… Quale? (ma che t’importa?). Eh ma una cosa che non ho capito neppure io (sì, dar da mangiare ai lombrichi del poggiolo) … Ma no, davvero. Non posso.. I miei, sai, delle volte hanno bisogno … (grande questa) non so (che bella cosa gli amici insistenti; devo chiudere, ora, non reggo più). Casomai ti richiamo domattina, ok? (dai, basta ora, su!). Ma sto bene, ti dico. Ciao. Sì, ciao. Saluti a Giorgia, ciao.
Ecco. Anche i ricordi si frantumano. L’unica cosa da fare ora è dormire, e placare forse il carosello d’immagini che mi comincia a scorrere intorno, insieme ai muri della stanza. A dormire, sì: ma prima un bel goccetto.
Marco Solimano
Ciao a tutti, volevo scrivere questo messaggio per ringraziarvi del grande supporto che state dando al mio tentativo. Quando ho cominciato a pensarci però, mi sono accorto di avervi detto, senza volere, una cosa sbagliata. Ho detto “ho scritto un libro”, avrei dovuto dire “sto scrivendo un libro”. Per vanità ho pensato che la mia opera fosse conclusa, invece no. Ci sono parti farraginose, inutilmente prolisse e un po’ troppo enfatiche, come qualche amico ha giustamente notato. Però é bello. Allora ho capito lo spirito di BookaBook: costruire squadre che rendano reali i sogni, che per noi esordienti rimangono spesso tali. Non è un caso che la mia bozza verrà sottoposta ad un editing pesante se supererà i 200 e sarà pubblicata entro 180 giorni dopo la fine della campagna. 100+180.. la nascita. La vanità mi ha impedito di notarlo prima ma ora penso: ognuno di noi sta rendendolo un po’ più reale. Varrà la pena che nasca? Secondo me sì, ma io non sono obiettivo. Grazie ancora a tutti