È già sveglio quando squilla lo smartphone.
Neppure guarda il display, quel numero e a quell’ora, non porta certo buone notizie.
«Nardi» risponde con un alito di voce roca e collosa.
«Ciao Alessio.»
«Ciao Martina. Che succede?»
«Corso Garibaldi, un omicidio. Ti manderei una macchina, ma secondo me, fai prima a piedi.»
«Sicuramente, dammi il civico. Tu sei già lì?»
«Ventuno B, il palazzo di fronte alla macelleria, quella appena aperta. Io sto imboccando ora il Corso.»
«Va bene, inizia pure, a dopo.»
«A dopo.»
Chiude la comunicazione e si alza di scatto dal divano dove, la sera prima, si era addormentato.
La bocca impastata ricorda ancora il gusto amaro e zuccherino dei troppi Campari ingollati, delle troppe sigarette fumate e del cibo buttato giù, più che altro per riempire lo stomaco di qualcosa d’altro che non fosse alcool.
Corre in bagno, si spoglia furiosamente e si butta sotto il getto caldo, l’acqua scivola sul suo corpo e si mescola in un gorgo ipnotizzante con l’urina, giù per lo scarico annegano i postumi della sbronza.
Dieci minuti, non di più, necessari, ma forse non sufficienti, per renderlo presentabile, ma non per scacciare i ricordi.
È una villa isolata, poco fuori Velletri.
La ragazza bionda ha gli suoi occhi sbarrati e le labbra spalancate nell’ultimo respiro, tracce di polvere bianca le scontornano le narici.
Il chirurgo ricco e famoso, in piedi, di fronte a lui, lo guarda come se volesse dirgli “Era solo una troietta che voleva fare l’attrice e tu che cazzo vuoi, vicequestore, io sono intoccabile.”.
I due spari, in rapida successione, frantumano il silenzio, l’incredulità dei tre uomini che lo accompagnano è quasi palpabile.
L’ispettore Martini sbraita un ordine che non ammette repliche, i due agenti escono in silenzio, poi gli si avvicina tenendo in mano un tagliacarte a forma di bisturi e altrettanto affilato.
«Mi scusi dottore, devo farlo» gi dice.
Il dolore è sopportabile, il metallo attraversa i tessuti e gli incide la carne.
L’ambulanza, i camici verdi, le luci, il Pronto Soccorso, la giacca grigia e la camicia bianca intrise di sangue che vengono tagliate e gettate a terra e i suoi uomini fuori, che aspettano.
E l’inchiesta e nessuno che capisca come un quel sessantenne grasso e sfatto sia riuscito a colpire lui, un quarantottenne addestrato di cento chili di muscoli su un metro e novantacinque e, soprattutto, perché lo abbia fatto, ma ci sono le testimonianze, precise, identiche le une alle altre e neppure i famosi avvocati del maledetto riescono a smontare quella recita perfetta.
I suoi superiori hanno capito tutto, sanno come sono andate le cose veramente, ma non possono e forse neppure vogliono, dare fiato e luce ai dubbi.
E poi il suo ritorno in Questura, in quel palazzo di Via San Vitale, vertice di un triangolo fra la Stazione Termini e il Ministero degli Interni.
I colleghi sono incerti se considerarlo un pazzo o uno che ha fatto la cosa giusta, oppure semplicemente entrambe le cose.
Lì non può più restare, lo chiama addirittura il vicecapo vicario della Polizia per comunicarglielo.
«Nardi, le assegniamo una sede tranquilla come capo della seconda sezione della Mobile»
«Dove?»
«Pavia. Lei ci ha studiato e ci risulta che abbia ancora una casa… per un paio d’anni, facciamo calmare bene le acque, poi le diamo una sede consona alle sue qualità» e i due anni ancora non sono passati.
Scuote la testa, con il palmo della destra disegna una spessa parabola di riflesso nel vapore che ha opacizzato lo specchio.
Ciò che vede non gli piace del tutto: i capelli disordinati e, ormai, completamente bianchi, incorniciano il volto pallido, rugoso, stanco e con un’ombra di barba grigia che elimina con rapide passate di rasoio elettrico.
Solo il corpo lo conforta.
Dal collo in giù tutto è ancora come un tempo, i muscoli tonici e la pelle tesa sconfessano la vecchiaia del viso e dell’anima.
Si attacca alla bottiglia del collutorio per scacciare l’alcool dal fiato e poi sputa fuori la tristezza della sbronza, assieme al liquido verde.
Si veste, con cura, abito blue, camicia bianca, cravatta azzurra, stivaletti neri e un cappotto grigio al ginocchio.
Non è un vezzo, tantomeno vanità, piuttosto un rispetto del ruolo, non sacrifica mai l’eleganza alla praticità.
Esce e mentre scende le scale si accende una sigaretta e vaffanculo quella stronza del primo piano, ex fumatrice e ora talebana anti-tabagista, che poi si lamenterà della puzza di fumo.
Fuori fa un freddo fottuto, il cielo è grigio, pesante e sta nevicando. Controlla l’ora, sono le sette e mezza, le sue non sono le prime orme a sporcare il bianco di via Menocchio.
La cupola del Duomo, poco distante, è un’ombra diffusa nel turbinio dei fiocchi grassi e gelidi, si caccia in testa il vecchio Stetson nero e affretta il passo, camminare e respirare il gelo, lo aiuterà a togliersi di dosso anche l’ultima virgola di stanchezza alcolica.
In pochi minuti raggiunge Strada Nuova, si tiene al centro della via, dove due strisce grigie parallele segnano la neve e indicano il passaggio di un’auto, forse proprio quella dalla quale chiamava Martina.
Arriva all’incrocio con Corso Garibaldi, per lui, la più caratteristica fra le strade del centro, col suo susseguirsi di palazzi antichi, di botteghe e piccoli locali e col gioiello romanico della basilica di San Michele che, anche se si intravvede appena dalla strada, comunque gli appartiene.
Ha percorso una cinquantina di metri quando inizia a vedere due pantere parcheggiate di fronte a un palazzo.
Si affretta, il suono gommoso della neve sotto le suole si mescola col brusio dei primi curiosi che si affacciano dalle finestre o escono dai bar.
Un paio di minuti e raggiunge la zona, oltre le pantere nota una vecchia Golf grigia con a fianco un’ambulanza e dietro il furgone della scientifica.
Di fronte a un portone aperto vede l’ispettore capo Stefano Calandrei che sta parlando con due agenti in divisa.
Si muove verso di loro, il suo collaboratore lo vede e si avvicina.
«Buongiorno dottore»
«Sì… buongiorno non proprio! Cosa abbiamo?»
«Mi sa che abbiamo un gran casino, la dottoressa Bergic è già su, la sta aspettando. Ultimo piano.»
«Il PM di turno?»
«È il dottor Spadaforte, lo abbiamo avvisato, la chiamerà.»
Annuisce e attraversa la soglia del portone.
Si ritrova in un androne rettangolare dal quale si apre una scala stretta coi gradini in pietra e le alzate in mattoni. Sale rapidamente e incrocia nessuno.
Al quarto piano arriva con un accenno di fiato corto, dovrebbe fumare meno o non fumare affatto, ma sa benissimo che non ci riuscirà mai.
Sul pianerottolo si apre una sola porta, di fianco alla quale Martina sta parlando con una giovane donna in jeans, maglione chiaro a girocollo e giacca a vento rossa, lei indossa il solito bomber di cuoio sopra un maglione nero a dolce vita, pantaloni grigi e ai piedi gli immancabili anfibi, avvolti da soprascarpe bianche di tivek. I capelli, lunghi e neri, le cadono umidi sulle spalle, la postura del suo corpo, tonico e longilineo, trasmette una vaga tensione e il suo volto, oggettivamente bellissimo, tradisce, nell’espressione, rabbia e dolore.
È lei, sin dai suoi primi giorni a Pavia, la persona sulla quale conta e si fida di più, ha trentatré anni, ma è già commissaria capo ed è una poliziotta brava quanto lui alla stessa età.
È a un metro da loro quando Martina si accorge della sua presenza.
«Ciao», lo apostrofa con quella sua voce secca, raddolcita dall’accento triestino.
«Ciao. E buongiorno signora, è lei che ci ha chiamato?»
«Sì.» interviene Martina «la signora Garlaschi ha scoperto il tutto.»
È sotto la trentina, ha un bel viso anche se, in quel momento, distorto da un’espressione di sgomento e paura, ha gli occhi lucidi e tra le dita della destra serra un fazzoletto di carta, ormai ridotto a una palla umida e sfilacciata.
«Stia tranquilla signora, immagino avrà già detto tutto alla dottoressa Bergic, per cui ora la accompagniamo al Policlinico per farla visitare e, se c’è bisogno, le daranno qualcosa per tranquillizzarla, non si preoccupi, è una routine.»
La donna annuisce senza esitare, quasi come fosse ciò che sperava le fosse detto. Martina la prende sottobraccio per poi affidarla a un agente. Pochi secondi per dare istruzioni e poi torna da lui.
«Allora? Dimmi qualcosa prima di entrare.»
«Tieniti forte… la vittima è la professoressa Irene Rodini.»
«E che cazzo… la Direttrice del Dipartimento di Matematica e in corsa per diventare Rettore dell’Università?»
«Lei. La conoscevi?»
«Non personalmente. Porca puttana, questa città vive di Ospedali e Ateneo, ci staranno tutti col fiato sul collo. Va bene, ci penseremo quando sarà il momento, vai avanti.»
«Garlaschi è… era la collaboratrice domestica della professoressa, veniva tutti i giorni, dalle sette alle undici. Irene Rodini usciva verso le sette e mezza e prima di andare le dava qualche indicazione su quello che voleva fosse fatto. Questa mattina la signora ha suonato, come sempre. Nessuna risposta. Ha riprovato, ma poi vedendo che la professoressa non veniva ad aprire, ha usato la sua chiave per entrare e si è subito trovata davanti quello che fra poco vedrai anche tu. Andiamo.»
La striscia sulla superficie in cristallo del tavolino è come la linea del traguardo delle sue emozioni.
Si china, poggia la cannuccia, poi è solo il tempo di un battito di ciglia e l’euforia si scatena.
Si sdraia sul divano, chiude gli occhi e nella mente gli si riproduce, con nitidezza e perfezione temporale, la sua vita nelle ultime ore.
Non doveva finire così, ma, a quel punto, era inevitabile e la troia ha avuto quello che si meritava.
Era una donna cattiva e arrogante e poi non doveva osare colpirlo, punirla è stato un atto dovuto.
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