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Non fare l’indiano

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Dodici racconti dinamici, capeggiati dalla disavventura di un avvocato che affronta con amara leggerezza le contraddizioni tra legge e giustizia, nella difficile impresa di mantenere distacco emotivo dai suoi clienti e dalle ipocrisie della realtà di tutti i giorni. A complicare il tutto, una moglie campionessa di arti marziali vietnamite e una nonna novantenne in guerra con la badante.

Come sopravvivere? Spesso con sarcasmo e ironia, che venano anche la maggior parte degli altri racconti, fra treni soppressi, stazioni fantasma, inciampi del destino e rese dei conti con se stessi, in un sogno o in una vetrina per strada. La gioventù e la vecchiaia, i bei tempi andati e le novità, eccitanti o sconfortanti, la vita e la morte, scelte o subite, oscillano in questi racconti, come elementi indispensabili del quadro di cui facciamo parte.

1. COINCIDENZE E INCIAMPI 

“Quest’anno la partenza delle rondini
mi stringerà per un pensiero il cuore.”
Umberto Saba 

Una sera dello scorso inverno, tornando in treno da Parigi scesi alla stazione di Basilea per cambiare e prendere il Cisalpino per Milano. 

Sul marciapiede lungo il binario solo una signora, elegantissima nel suo vestito nero. 

L’avevo già notata durante il viaggio, era salita a Strasburgo e sedeva due file avanti a me. Avrei addirittura giurato che, vedendomi su quella carrozza, mi avesse lanciato uno sguardo meravigliato. 

Mi si avvicinò e in un italiano con forte accento tedesco mi chiese a che ora vi fosse la “corrispondenza” per l’Italia. 

«Corrispondenza?» chiesi. «Signora, noi in Italia purtroppo non le chiamiamo così.» 

«Ah no? E come dite voi quando si arriva in una stazione con un treno e se ne prende un altro per giungere a destinazione?» 

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«Coincidenza, mia cara signora, coincidenza! È assai diverso.» 

«Mein Gott, mi pare che siano sinonimi, no? Ciò che corrisponde, coincide» rispose. 

«Forse qui in Svizzera, in Italia è più complesso, più articolato, meno scontato.» 

«Davvero non capisco quale sia mai questa profonda differenza» disse con una punta di irritazione, come se le stessi facendo perdere del tempo prezioso con le mie ubbie nominalistiche. 

«Vede signora, in Svizzera se l’orario dice che all’arrivo del treno da Zurigo al binario uno, dopo sette minuti corrisponderà la partenza di quello per Milano dal binario tre, sarà assolutamente così e se incredibilmente così non fosse, certamente si sarà verificata una imprevedibile, non voluta, inaspettata coincidenza di fattori imponderabili. Qui vi è, infatti, una perfetta corrispondenza fra gli orari previsti e quelli realmente rispettati.» 

«Ma vede che ho ragione, è la stessa cosa, come potrebbe essere altrimenti?» disse. 

«Mi faccia finire per cortesia, in Svizzera questa è la regola, come dicevo, in Italia, invece, se lei arriva a Milano col treno da Torino e volesse andare a Bologna, contando sul fatto che quest’ultimo treno partirà dal binario tre nove minuti dopo l’arrivo del suo da Torino, sarà solo per una mera e fortuita coincidenza che lei effettivamente riuscirà a prenderlo, superando i ritardi, i cambi di percorrenza, i guasti sulla linea, altre amenità e fortuiti inciampi del destino. Per questo la chiamiamo così: coincidenza.» 

Mentre dicevo ciò mi parve che l’accenno al fatto che il destino in Italia potesse, anche lui, deviare dal suo corso, in qualche modo divertisse la signora. 

«Ohhhh, davvero pittoresco,» disse infatti, quasi sorridendo, «ora può dirmi, per gentilezza, se il treno per l’Italia partirà da questo binario, sì?» 

Stavo per risponderle, quando, proprio in quell’esatto momento, l’altoparlante annunciò la soppressione del nostro treno, a causa di uno sciopero improvviso dei macchinisti svizzeri. 

«Verdammt, è incredibile, gli svizzeri che scioperano, il crollo di un mito!» disse, questa volta senza neppure cercare di dissimulare il nervosismo. 

«Non dica così, non trova che sia una felice e inaspettata coincidenza che al nostro incontro corrisponda la cancellazione del treno? Potremmo cenare insieme, c’è un ottimo ristorante pakistano qui vicino, ma, mi perdoni, non mi sono ancora presentato, Francesco D’Amico.» 

Lei ci pensò un attimo e poi, sorridendo: «Grazie, preferirei di no». 

Neppure Bartleby lo scrivano l’avrebbe detto meglio e con più gentile fermezza. 

Leggermente ferito nell’orgoglio di maschio italiano, la salutai comunque con cortesia e mi avviai verso il ristorante Samarcanda: piccantissima cucina pakistana. Nient’altro di piccante si preannunciava per la serata. 

Dopo una decina di minuti passati a tentare di tradurre il menù, scritto in pakistano e tradotto in tedesco, piluccando piccole speziatissime sfoglie di pasta fillo, vidi la signora del treno entrare al braccio di un uomo di mezza età, che peraltro mi somigliava parecchio. 

La ferita all’amor proprio si stava allargando e cominciava a sanguinare copiosamente, quando, passando accanto al mio tavolo, la signora mi strizzò l’occhio e, senza farsi sentire dal suo accompagnatore, mi sussurrò: «Ringraziami, stupido!». 

Proprio in quel momento dal suo smartphone partirono le note di una canzone di Vecchioni di molti anni fa, il cui testo faceva più o meno così: “Sbagli, t’inganni, ti sbagli soldato, io non ti guardavo con malignità, era solamente uno sguardo stupito, cosa ci facevi l’altro ieri là?”. 

Iniziai a sudare freddo, e certamente non per il pollo biryani, assai più piccante di una commedia sexy con Lino Banfi e Edwige Fenech. 

Altro che coincidenze e corrispondenze, vuoi vedere che l’incontro con la nera signora era tutt’altro che accidentale e solo per un inciampo del Fato, perché alla Parca erano scivolate per un attimo le forbici di mano, ero ancora lì a tentare di mangiare pakistano? A mangiare tout court? 

Cercando di mantenere un minimo di dignità, chiamai il cameriere, pagai il conto e mi affrettai verso l’uscita, deciso a non aspettare il treno del giorno dopo. 

Noleggiai un’automobile, ansioso di lasciare la Svizzera e tornare il più presto possibile a casa, mettendo centinaia di chilometri fra me e la signora in nero. 

Per riacquistare un ritmo cardiaco accettabile ci vollero parecchi minuti; collegai il telefonino via bluetooth alla macchina e dalla playlist di Spotify partì una meravigliosa canzone di Roberta Flack: The first time ever I saw your face. 

Ascoltandola mi incantai: è una melodia senza tempo, di assoluta dolcezza, e mentre mi stupivo ancora una volta di come la musica possa curare quasi ogni affanno, fermandomi a un semaforo vidi un signore di mezza età immobile sul marciapiede, benché per lui il semaforo indicasse il verde. 

Indossava un completo di colore indefinito, una camicia che dava sul grigio – un po’ color can che fugge, come diceva mio nonno – e delle scarpe sformate, un tempo alla moda. 

Non era elegante, ma certo dignitoso; quello che mi colpì, però, non fu l’abbigliamento, ma il fatto che si passasse ripetutamente e velocemente, con gesti tanto meccanici, quanto accurati, entrambe le mani sul viso e poi fra i pochi capelli, lisciandoli, e poi di nuovo sugli occhi e ancora sul viso. 

Con la coda dell’occhio vidi che per me il semaforo era sempre rosso, quindi per lui il passaggio continuava a essere libero, ma non si muoveva; continuava a passarsi le mani sul volto e sui capelli, quasi a voler scacciare brutti pensieri e a rendersi più presentabile all’incontro con qualcuno che forse lo attendeva. 

Ma le mani possono molte cose, non tutto, non riescono mai a cancellare e a scacciare gli accidenti, le incomprensioni, le inadeguatezze, gli insulti che si assommano negli anni e traspaiono, tutti, sempre, sia dagli occhi e dalle rughe che contornano la bocca e solcano la fronte, sia dai pochi capelli superstiti, tormentati e sfibrati, ma per questo decisi a resistere indomiti, dritti come stecchi verso il cielo, immuni a ogni piega: “Mi spezzo, ma non mi liscio” sembrano dire. 

Scattò il semaforo, per me ora era verde e proprio in quel momento il signore si decise ad attraversare. 

Aveva il piede ancora a mezz’aria fra il marciapiede e le strisce pedonali, che la prima auto della fila strombazzò col clacson e il suo guidatore gli indirizzò un cortese cenno di saluto nella lingua di Dante: «Ah scemooo», un compatriota che sgommò via, fiero dei suoi duecentocinquanta cavalli. 

Lo guardai ancora per un attimo, mentre al conducente della vettura dietro la mia stava montando una crisi di nervi per i pochi secondi di attesa, e lo vidi con le mani a coprirsi le orecchie per negare l’ultima, insopportabile aggressione cialtrona alla propria vita. 

Rimase lì, fermo ad aspettare di nuovo il verde di via libera, forse anche lui sperando in un inciampo del Fato. 

Ripartii e corsi verso l’Italia, era ormai domenica e a casa mi aspettavano con le pasterelle, tradizione indefettibile come il destino. 

(Grazie a Natalino Balasso, Maestro di molti, a sua insaputa.) 

 

2. COME LE STAR AL CORONAV(A)IRUS BAR 

“La prima volta che ridete di una battuta a vostre spese potete dire di essere diventati adulti.”
Ethel Barrymore 

Al tempo del Coronav(a)irus, qualunque quisquilia assume proporzioni drammatiche, si traveste da tragedia greca, che Euripide lévate che ce fai rìde! 

 A Milano si mormora di gestori di ristoranti pluristellati, già noti per proporre come antipasto un singolo finocchio gratinato con crema di avocado e topinambur a 23€, che non reggono alla disperazione indotta dal lockdown e vanno in analisi dallo strizzacervelli alla moda, che però non li fa distendere sulla canonica chaise longue in pelle di anaconda, ma li ascolta via Zoom, aggravandone inesorabilmente la depressione, o di avvocati che, in mancanza di cause da discutere in tribunale, si mettono a polemizzare anche col parcheggiatore, tanto per restare in esercizio. 

Ascoltate cosa è successo stamattina a un mio conoscente, Crudelio Feroci, mentre tentava semplicemente di far colazione al bar, in effetti non un semplice bar, ma un “concept bar”. 

Bene, Crudelio, tranquillo e sereno, era al banco con una brioche alla marmellata in mano, aspettando che la barista – una concept barista, ritengo – gli chiedesse se preferiva un macchiato o un cappuccino. Per esperienza più che decennale Crudelio era strasicuro che appena avesse dato il primo morso alla brioche, la concept barista gli avrebbe chiesto, immancabilmente: “Cosa desidera?” e lui, con la bocca piena, si sarebbe trovato in grave imbarazzo a risponderle. Per questo aspettava di ricevere attenzione, senza addentare la brioche che intanto cominciava a disperdere zucchero a velo sulla sua giacca, imbiancandogliela, cosa che lui odia, come detesta ogni macchiolina imbratti i suoi abiti (non soffre di Asperger, questo no… magari un pochetto, ecco). 

Aspetta e aspetta, però, Crudelio cominciava a innervosirsi, anche perché in studio l’attendeva un cliente che doveva pagargli una parcella e, capirete, di questi tempi sono più rari della foca monaca. 

Aveva anche una fame “lupigna”, come diceva Camilleri, e così si risolse ad addentare la brioche. 

Avrete già capito che la concept barista, quasi gli avesse teso un agguato – e non è escluso che l’abbia proprio fatto –, mentre Crudelio masticava il primo boccone di brioche e marmellata si produsse con voce squillante nella domanda fatidica. 

Crudelio è buono e caro, ma certe cose lo mandano fuori dai gangheri, così, in preda a un picco pressorio, tentò di rispondere: «Unpf coffù maffiuatof, mallefiffione». 

«Prego?» cinguettò la concept barista, e Crudelio, ormai in preda all’ansia, perse la coordinazione naso/gola e inspirò un mezzo etto dello zucchero a velo presente sulla superficie del cornetto, producendosi in uno starnuto ciclopico, che disseminò sostanze rossastre (la marmellata era ai lamponi) sul bancone del concept bar. 

Il terrore si dipinse sul volto di Adele, la barista, e dei pochi astanti; il concept direttore si precipitò al telefono, urlando: «Quale minchia è il numero per le urgenze da coronav(a)irus, per Diana!» e Adele: «Il 1500, per Bacco» (era vegana e preferiva il vino alla cacciagione). Gli altri clienti, intanto, si davano alla fuga, scordandosi di pagare il conto, precipitandosi di corsa in mezzo alla strada, causando così un tamponamento a catena di dimensioni indo-pachistane. 

In tutto ciò Crudelio, tentando di riguadagnare la dignità perduta, disse: «Guardi non importa, prendo solo la brioche, quant’è?». 

«Nooo!» urlò l’inurbano concept direttore. «Stanno venendo a prenderla con l’ambulanza asettica, se va via mi arrestano, ora lei sta lì e la smette di respirare, per la Madonna, untore maledetto!» 

«Guardi che è stato lo zucchero a velo che mi è andato nel naso, non sono malato…» 

«Sì, sì, dicono tutti così, se fa un passo le sparo!» 

Nel frattempo arrivò l’autoambulanza asettica, dalla quale scesero tre individui vestiti da capo a piedi con tute giallo limone. Il concept direttore, indicando Crudelio con l’indice della mano destra tremante, li esortò: «È lì, portatelo via, vi prego, è un pazzo assassino!». 

Crudelio, che è un tipo razionale e crede nel prossimo suo, tentò ancora di spiegare: «Ma no, è stato lo zucchero a velo, non vede che ho il naso bianco?». 

Non l’avesse mai detto! Il tizio dell’ambulanza, originario di Norimberga e che si chiamava Wolfango, prima di assestargli un colpo di taglio sulla nuca per stordirlo, gli gridò: «Che schifo, untore e pure cocainomane, dovrebbero tenerti in quarantena per sei anni, fosse per me!». I tre presero di peso Crudelio, lo misero sulla barella, assicurandolo con le cinghie, gli infilarono i due beccucci dell’ossigeno nel naso, lo caricarono sull’ambulanza e partirono in quarta a sirene spiegate, speronando una Panda grigia, bloccata dal tamponamento a catena. 

Non ho altre notizie di Crudelio, non si sa neppure esattamente dove l’abbiano ricoverato, pare, si mormora, sia stato posto il segreto di Stato; l’unica cosa certa è che gli automobilisti inferociti per il tamponamento a catena e per l’ingorgo “a croce uncinata” che si era prodotto per le vie della città presero d’assalto il concept bar e, in preda alla sindrome da accaparramento, si mangiarono questo mondo e quell’altro, avanzando solo una brioche vegana ai semi di lino e lasciando Adele e il concept direttore increduli e affranti. 

2020-10-09

Aggiornamento

Di chi avevate bisogno da bambini?
16 luglio 2020

Aggiornamento

Dai che mancano solo 15 copie all'obiettivo. Gli ultimi saranno i primi!
Le somme ricavate dai diritti d'autore delle copie prenotate in crowdfunding sono destinati alla Lega del Filo d'Oro.
22 maggio 2020

Aggiornamento

NON FARE L'INDIANO
Cari amici,
penso che Non fare l'indiano debba anche voler dire "tenere a mente, aver cura", onde per cui ho pensato di donare alla LEGA DEL FILO D'ORO, associazione che da decenni si occupa meritoriamente di migliorare le condizioni di vita dei bimbi sordociechi (la cui esistenza non riesco neppure a immaginare), l'intera somma proveniente dai diritti d'autore delle copie preordinate.
Vi sono ancora 80 giorni di tempo, disobbedite quindi ai DPCM, assembratevi al link e prenotate e fate prenotare a parenti, amici, beneamati e beneamanti.
Siamo in missione per conto di Dio, come Jake e Elwood!
Grazie mille.
09 maggio 2020

Aggiornamento

Non c'è niente da capire, a volte un sigaro è solo una cosa che si fuma, e un racconto è solo un racconto.
Stephen King
14 aprile 2020

Aggiornamento

Coltivare il vizio della memoria, diffidando delle tradizioni.
07 aprile 2020

Aggiornamento

Il mare africano (Paola, stazione di Paola).

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Giovanni Papaleo
nato a Padova nel maggio del 1964, si perse il ’68 per via dell’età. Cercò di rifarsi frequentando Scienze Politiche, ma effettivamente quando vi arrivò erano ormai altri tempi. Avvocato civilista, si occupa prevalentemente di diritto del lavoro e responsabilità civile. Vive a Brescia con Elena, due figli e Fren, un cocker che si crede il padrone di casa (e forse lo è). Non fare l’indiano rappresenta il suo esordio letterario.
Giovanni Papaleo on Facebook
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