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Nonic – Storie di Pinte Anonime e Altri Bicchieri

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Un cameriere, uno studente, un barista. Sconosciuti, indefiniti, anonimi. Attraverso una scrittura sperimentale, l’autore propone un flusso di coscienza in cinque racconti, che accompagna il lettore pagina dopo pagina in un percorso di crescita e di riconoscimento di ciò che si voleva diventare e ciò che invece si è diventati. Tra l’Italia e la Spagna, con un bicchiere tra le mani in cui riflettersi e riflettere, prendono vita queste diapositive di esistenze dominate da incertezze e caos. Un passo alla volta, dalla tarda adolescenza alla precaria maturità, ci riconosciamo e ci ricomponiamo, con i gomiti appoggiati al bancone di un bar, avvolti dalle luci soffuse e da un’illusione di appartenenza a qualcosa al di fuori di noi.

INCONTRO CON L’ARTISTA

1

Sarebbe stato un servizio veloce e poco impegnativo. Pranzo a buffet, seguito da conferenza e aperitivo rinforzato, piccola buvette di prosecco e centrifughe. Arancia, carota e zenzero. Kiwi e mela verde. Avevo male alla spalla e speravo sarebbe toccata a me la mescita: la sera prima avevamo lavorato in una boutique in centro e io ero stato assegnato al welcome, dunque a restare immobile accanto all’ingresso con un pesante vassoio d’argento pieno di calici di champagne poggiato sulle dita della mano. Mi ero chiesto spesso come mai non utilizzassero dei manichini o, piuttosto, dei semplici tavoli anziché obbligarci a quell’attesa avvilente. Conoscevo già la risposta ma, con il tempo, preferii semplicemente smettere di pormi quella domanda.

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Terminato il servizio accompagnai i miei colleghi a casa. Carlo mi chiese di lasciarlo al Foxy Blues. Promise che sarebbe stato pronto non più tardi delle sei. Alle cinque e mezza mi chiamò. Parlava troppo e a fatica, scandendo le sillabe in maniera innaturale e insistendo eccessivamente sulle consonanti, come se non riuscisse a separare le labbra l’una dall’altra una volta entrate in contatto. Potevo sentire attraverso il telefono i muscoli del collo e della mandibola tendersi in leggeri spasmi, i denti sfregare l’uno contro l’altro come ciottoli calpestati su un selciato. Mi disse di avere la febbre e di avvisare il capo servizio che non sarebbe venuto al lavoro. Era ancora dentro il locale. Il responsabile bestemmiò e prese il telefono nel tentativo di trovare un sostituto entro l’ora di pranzo.

Intanto, facemmo colazione, poi salimmo fino al ventunesimo piano del grattacielo di proprietà della banca che avrebbe ospitato l’evento nel primo pomeriggio. Dedicammo la mattina all’allestimento della sala congressi e dell’area dedicata al rinfresco che avrebbe contato all’incirca un centinaio di persone. Alle undici pranzammo con toast freddi farciti con prosciutto e formaggio, poi cominciammo a cambiarci. Il momento della vestizione era sempre stato tra i miei preferiti. Noi ragazzi ce ne stavamo in disparte rispetto ai “veterani” e chiacchieravamo allegramente del campionato, di donne e dell’università come se li conoscessimo per davvero, sfilando dagli zaini le camicie e i grembiuli stirati dalle nostre madri. Loro non parlavano quasi mai durante quel rito e lucidavano con cura le loro scarpe nere e si annodavano le cravatte con movimenti e gesti che noi ragazzi ancora non sapevamo e con un’attenzione per le pieghe e le macchie che eravamo ancora capaci di riservare solo al sabato sera o agli esami universitari da non meno di nove crediti. Mi ricordavano gli operai jugoslavi con cui avevo lavorato a Malta; uomini che vestivano ogni giorno gli stessi abiti e la stessa faccia e che trattavano il cantiere come da ragazzi avevano trattato la guerra: con rispetto, timore e soprattutto con silenzio. In verità, noi non conoscevamo ancora nessuno dei tre e abusavamo della nostra giovinezza e di tutto quel che essa comportava senza preoccuparci dell’offesa e del fastidio che avrebbe potuto recare a quegli altri. Ma a vent’anni non è facile accorgersi che ogni sorriso e ogni lamento possono essere per qualcun altro al contempo un monito e un affronto.

L’odore del lucido da scarpe si mischiava alla puzza di piedi, al deodorante e al profumo degli antipasti che i cuochi già cominciavano a disporre con cura sui vassoi; al fumo che entrava dalla porta del magazzino lasciata socchiusa per permettere a tutti di fumare un’ultima sigaretta prima di cominciare il servizio, senza obbligarli a dover scendere e risalire i ventuno piani del palazzo.

I catering pagavano bene e con puntualità ed esigevano una disponibilità saltuaria, buona per lasciare agli studenti abbastanza tempo libero per far sì che potessero agilmente organizzare lezioni e uscite serali, senza mai rischiare di restare troppo a lungo senza un impiego o senza una vacanza. Ogni tanto una bottiglia di Ca’ Del Bosco scivolava per errore nello zaino di qualcuno e quando terminavamo il servizio e quella rispuntava sotto lo sguardo sorpreso dei presenti, ci limitavamo a fare spallucce e ringraziare per la mancia, bevendo il liquido frizzante e tiepido direttamente dalla bottiglia e terminandolo alla svelta, ancora prima di raggiungere l’ingresso della metropolitana o del parcheggio.

Quella mattina tirava una brutta aria. L’ennesimo forfait di Carlo aveva indispettito i veterani più del solito e, anche se per età e mansioni la sua posizione era più prossima alla loro che alla nostra, non smettevano di guardarci di sbieco, aspettando il momento migliore per rimproverarci e farci pagare, a suon di furgoni da caricare e scaricare, la sua colpa – che era ormai diventata anche la nostra. Non era la prima volta che accadeva e, quindi, ci mettemmo subito a lavorare di buona lena, accaparrandoci i compiti più pesanti e cercando di farci perdonare a quel modo il fatto di non esserci presentati al lavoro per restare tutta la notte chiusi dentro il Foxy Blues a bere, tirare coca e giocare a biliardo. Il capo servizio non trovò un sostituto e io e gli altri ragazzi venimmo assegnati allo sbarazzo. Niente mescita. Solo vassoi ricolmi di bicchieri e pile di piatti sporchi. A mezzogiorno arrivarono i primi ospiti. L’assenza di Carlo si fece sentire, ma noi fummo bravi ad alzare il ritmo e pronti a eseguire gli ordini ancor prima che ci venissero impartiti; il servizio filò liscio e, alla fine, i veterani ci guardavano pur sempre severi, ma soddisfatti.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Gianluca Serri
nasce a Milano nel 1992. Affianca, fin da giovane, studi letterari in forma autodidattica a quelli scolastici e, nel 2016, consegue la laurea in Psicologia presso l’Università degli Studi di Pavia. Dopo essersi trasferito in Spagna, fa ritorno in Italia per assumere la gestione di alcuni locali milanesi e durante il lockdown del 2020 compone il suo primo romanzo.
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