“Mista!”
“Operativo signore!”
“Abbacchio!”
“Operativo signore!”
“Giorno!”
“Operativo…”
“Prego?!”
“… signore. Operativo signore!”
“Bene. Sappiamo tutti perché siete qui, siete stati selezionati in quanto i migliori membri dell’arma dei carabinieri d’Italia. Complimenti. Di me posso solo dirvi che sono membro di una task force organizzata tra la DIA e l’Interpole, il mio nome in codice “Agente Montale”, sì come lo scrittore (a patto che sappiate cosa sia uno scrittore), quelli là hanno uno strano senso dell’umorismo… comunque, vi sono stati affidati questi nomi in codice in modo che tra di voi non vi riconosciate, non possiate sapere nulla l’uno dell’altro e mai potrete rivedervi in vita vostra. Ci troviamo stasera per discutere di una maxioperazione per sventare una losca attività di stampo mafioso, secondo le nostre fonti interne, una collaborazione tra la ‘ndrangheta, i Basilischi e la mafia albanese, che va avanti da troppi anni……”
Questa era una delle introduzioni che Angelo diede agli inquirenti il giorno che tutta la banda, dai nomi così bizzarri, esclusi lui e Fugo, sono stati massacrati davanti ai loro occhi dalle tre organizzazioni criminali. La mente confusa di Angelo non era d’aiuto, nonostante nel comando di Cosenza fosse considerato uno dei migliori, se non il migliore, agente operativo. Man mano che il tempo passava però, la sua versione dei fatti mutava, dettagli che comparivano e sparivano, avvenimenti cronologicamente troppo fuori posto. Questo accadeva così tante volte che ormai il Pubblico Ministero, Albano Ferri, all’epoca incaricato del caso, si trovò nella condizione di non potergli credere, preferendo la più lucida versione di Fugo. Ma dopo tutto come dargli torto, il povero Angelo, dopo un lungo ricovero all’ospedale, da quel fallimento di missione, notò qualcosa di insolito in casa sua.
Il sole quel giorno emanava un calore incredibile, tipico del paesaggio così estivo e arido delle campagne calabresi. Ma le finestre di casa erano stranamente chiuse.
“Saranno uscite a prendere un gelato magari” pensò ingenuamente.
Ma allora come se le spiegava le piante secche che ormai avevano preso il controllo del vialetto che porta all’entrata principale? Questo sì che era strano, era il passatempo preferito di Laura prendersi cura del giardino.
Strano. Davvero strano.
Si avvicinò alla porta e la spinse: era aperta, si saranno dimenticate di chiuderla come al solito, che testone che sono.
Lo pervase subito un odore stranamente familiare, macabro. Lo stesso che sentiva quando entrava nell’obitorio a studiare i cadaveri col dottor Briga. Una puzza di chiuso insopportabile.
“Ragazze, sono a casa!” provò a dire. Nella speranza morbosa che qualcuno gli rispondesse. Ormai il panico aveva preso il sopravvento sul suo corpo. Non un comportamento adatto a un carabiniere di quello stampo.
Iniziò ad aprire tutte le porte della casa per capire da dove venisse quel fetore insopportabile.
Bagno. Vuoto. Cucina. Vuota. Salotto. Vuoto. Cameretta di Cristina. Vuota.
Mancava solo la sua camera da letto. Si avvicinò fino ad avere il legno della porta contro la faccia. Il respiro affannato dalla fatica di sperare di non vedere ciò che ormai aveva già capito. La puzza di morte che impregnava tutti i muri del corridoio. Tese la mano verso la maniglia, e con uno scatto inferocito aprì la porta.
Cristina e Laura erano sul letto abbracciate, gli occhi sbarrati dal terrore, la pelle viola e sofferente. Ma almeno erano coperte da un lenzuolo, rosso del loro sangue.
Da lì in poi i ricordi del capitano Angelo Passalacqua non divennero nient’altro che un groviglio di eventi illogici e irrazionali che gli fusero completamente il cervello.
Grazie al cielo, Angelo aveva cessato di esistere quel giorno. Era diventato un problema per tutti a lavoro ormai. Non rispondeva alle chiamate dei suoi superiori, il tasso di reati impuniti era schizzato alle stelle. Era diventato un guscio svuotato della sua anima. Gli occhi azzurri, vitrei, erano fissi sul tavolo degli interrogatori, mentre Ferri cercava di tenere viva la conversazione colpendolo ogni tanto sulla testa con la sua penna di metallo. Una quattro colori magnifica, lucida e scintillante che continuava a ondeggiare guidata dalla mano del PM che ormai aveva perso le speranze con quel sacco di carne seduto davanti a lui.
Ma Angelo non era affatto inerme: stava pensando. Non si sapeva a cosa, ma ci ha pensato per giorni perché con una lucidità che non si vedeva da mesi, in lui, prese la sua pistola, che stupidamente era stata lasciata sul tavolo difronte a lui, e, davanti agli occhi di Ferri e del suo assistente, visibilmente agitato dalla situazione, si puntò la pistola in bocca e, senza ulteriore indugio, premette il grilletto.
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