Desirée Allen è una giornalista amatoriale sempre alla ricerca di nuovi articoli da pubblicare. Sarà proprio questa passione a portarla a bussare alla porta della signora Williams, sulla quale da sempre circolano voci sinistre. Con l’intento di smentirle decide di intervistarla, tuttavia una ragazza scompare proprio nei pressi della sua antica villa, così Desy in compagnia dei suoi amici farà di tutto per trovare risposte a domande scomode che nessuno ha mai avuto il coraggio di porsi. Determinata a fare chiarezza si troverà coinvolta in una lotta tra bene e male, luce e oscurità, in cui niente è come sembra e arrendersi non è una scelta possibile.
Perché ho scritto questo libro?
Ho scritto questo libro per ritagliarmi uno spazio che mi facesse evadere un po’ dalla realtà, e alla fine mi ha appassionata più di quanto credessi. Scriverlo, poter raccontare la storia di Desy, è stato catartico per me e l’ho accompagnata negli eventi emozionandomi e crescendo con lei, ricordandomi quanto sia importante in un mondo di incertezze e di eventi negativi poter fare affidamento sulla luce che ognuno di noi può portare alla propria oscurità.
ANTEPRIMA NON EDITATA
CAPITOLO 1
Era un tranquillo pomeriggio di giugno, e dalla finestra della mia camera entravano dei fasci di luce dentro i quali erano sospesi dei piccoli granelli di polvere, che danzavano fino a cadere in terra. Li guardavo sovrappensiero. Stavo pensando all’università e a come ottenere l’intervista con la Signora Williams. Le mie attività extrascolastiche includevano il Giornale universitario, oltre alla ginnastica e l’astronomia. Il pezzo su Amelia Williams sarebbe andato veramente forte. Se solo avessi trovato il coraggio di suonare al campanello della vedova, la quale abitava in una antica villa di proprietà in cima alla collina. La casa appariva come un fiore appassito, ma le elaborate rifiniture lasciavano immaginare l’eleganza con la quale sicuramente appariva, un tempo. La signora era avanti con l’età, ma era difficile collocarla in una fascia precisa. Era sicuramente una donna curata nei minimi dettagli, dall’acconciatura che teneva sempre ordinati i lunghi capelli grigi, ai gioielli scintillanti, al portamento altezzoso. E anche lei, come la casa, appariva come una bellezza sfiorita, ma comunque affascinante a suo modo.
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Lo scopo dell’intervista era far svanire l’alone di mistero che aleggiava intorno a lei, alla sua villa in decadenza, troppo grande per una donna sola, e soprattutto far cessare le leggende che da sempre la accompagnavano. Non erano le leggende a frenarmi dall’andare da lei, ma ero intimorita dalla sua figura severa, lo sguardo fiero e malinconico e dal fatto che una persona che sceglie di isolarsi dal mondo, probabilmente non vuole esser disturbata da una giornalista alle prime armi. Avevo paura di non essere all’altezza e di fare una figuraccia, anche con il gruppo del giornale, ovviamente. Quella arpia di Stacey, da quando avevamo iniziato il corso e ci eravamo conosciute, non aspettava altro che un mio fallimento. In genere riuscivo ad averla vinta su di lei, pubblicando articoli migliori dei suoi, nonostante usasse sempre metodi meschini e scorciatoie per ottenere informazioni. Ma stavolta temevo di aver fatto il passo più lungo della gamba.
A forza di pensare fissando il vuoto, la luce era scomparsa per lasciare il posto a un crepuscolo silenzioso. Decisi che era ora di alzarmi dal letto e scivolai fino a toccare con i piedi il parquet. Infilai le pantofole e mi avviai verso le scale per scendere al piano di sotto. Sentendo il rumore dei miei passi, mia madre, che era seduta al tavolo del salone intenta a leggere dei documenti, alzò la testa e mi guardò da sopra gli occhiali da lettura, che erano scesi leggermente sul naso. “Desy, tesoro, stavo per salire a chiamarti. Tutto bene?” mi chiese apprensiva. Quel giorno in effetti ero stata stranamente silenziosa. “Si, tutto bene. Stavo studiando” mentii. La situazione era troppo lunga da spiegare e quella era una delle tipiche giornate in cui hai talmente tante cose da dire, che preferisci tacere. E poi non sarebbe stata assolutamente d’accordo a farmi andare ad intervistare la signora Amelia. Presi un bicchiere di acqua fresca e mi appoggiai all’isola della cucina. “Uhm” mugugnò senza credermi. Si tolse gli occhiali e posò le carte che stava leggendo, incrociando le mani sul tavolo e inclinando leggermente la testa da un lato. ‘dannazione’ pensai ‘ecco il problema di avere una madre psicologa’. Era entrata nella modalità ‘ascolto attivo’ cercando di mascherare la sua preoccupazione. La guardai in attesa che mi porgesse qualche domanda, ma alla fine sospirò e sembrò tornare sui suoi passi.
“Mi chiedevo cosa volessi per cena” disse infine, sviando il discorso. Le fui silenziosamente grata per non avermi fatto il terzo grado e sorrisi. “Bistecca e patate al forno?” proposi alzando le spalle. Sembrò contenta del programma e si alzò, raggiungendomi in cucina.
“Tuo padre dovrebbe tornare a breve” mi comunicò mentre apriva il frigo. Io iniziai ad apparecchiare poi pelai le patate da infornare. Preparai la cena chiacchierando con mia madre del più e del meno, e lei non fece più accenno al mio mutismo di quel giorno. Avevamo un bellissimo rapporto, ma tendeva a essere un po’ invadente a volte. D’altra parte però sapeva essere molto comprensiva e quando un giorno le chiesi il favore di lasciare che fossi io ad aprirmi con lei senza che forzasse la mano, capì subito di dover fare un passo indietro. Con mio padre era un po’ più difficile convincerlo che ormai non ero più una bambina. Lui lavorava come poliziotto locale e avere una figlia femmina rende sicuramente più ansiosi. Tuttavia il livello di criminalità del nostro minuscolo paesino rasentava lo zero, ed io sono sempre stata molto responsabile. Nonostante questo, gli volevo un mondo di bene ed era l’unico uomo di cui sentivo di potermi realmente fidare.
Quando rincasò finalmente cenammo tutti insieme in tranquillità. Ero serena e avevo dimenticato i crucci della giornata. Ma si, l’intervista avrebbe potuto aspettare. Una volta trovato il coraggio e aver portato a termine il colloquio mi sarebbe bastato un pomeriggio, forse due, per elaborare tutto su carta e spedirlo a Nick, il ragazzo del gruppo di giornalismo che si occupava della grafica e di impaginare gli articoli. D’altronde l’università sarebbe finita a breve, avrei dato gli ultimi due esami e poi mi sarei goduta la pausa estiva. Salii di nuovo in camera dopo cena, guardai una serie TV sul portatile, poi con la testa sgombra dai pensieri, quella sera caddi in sonno senza sogni.
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