Yuri le aveva dato un appuntamento disperato che sapeva di ultima spiaggia e che non riservò sorprese, dal momento che lei non si presentò. In quell’imbrunire costellato dal frinire dei grilli, immaginò ancora una volta quella creatura della mezzanotte seduta di fronte al tavolino del caffè e gli tornarono in mente i suoi abiti di tenebra, i suoi braccialetti di zanzare, i suoi laccati artigli di belva e il suo sinistro fascino di strega. Un’esile sensazione d’inquietudine gli infilzava i muscoli ogniqualvolta la sua ombra toccava quella di lei ma Yuri era tragicamente attratto dalle sue evanescenti movenze di spettro; aveva intuito che nulla di positivo potesse arrivare da quella donna, dai suoi occhi bui, dalle notturne lande battute dal vento della sua anima; aveva intuito, in una parola, che i nastri di seta color della notte che le impreziosivano i capelli non erano fatti per cingere ma per strangolare. Nonostante ciò, aveva permesso a Bianca (così, per somma ironia, si chiamava lei) di scivolare sotto la sua pelle; aveva lasciato che i corvi che le facevano corona venissero a stormi sul davanzale a gracchiare nel suo cuore le loro offese e i loro malauguri. Lui si accontentava di naufragare sui frastagliati scogli delle sue spigolose tenerezze.
Bianca, tacendo della sua nera aura, era una donna molto affascinante; Yuri si chiedeva di continuo che cosa ci facesse una così con un uomo come lui, ma, del resto lei, nel bene e nel male, non era come le altre e si muoveva in territori inusuali. Si domandava spesso cosa potesse offrire lui, persona affidabile, quieta e assai poco avventurosa, alla sua inesauribile sete di magia, stupore e fuochi d’artificio, e ogni volta concludeva che Bianca, per qualche strana ragione, vedeva in lui qualcuno dei lampi di infinito che solo l’amore sa mostrare; li vedeva nonostante lui fosse un uomo metodico e crepuscolare, totalmente inadeguato al volo e, di conseguenza, spesso vittima del malumore e della melanconia, come quegli uccelli che, pur avendo le ali, non sanno alzarsi da terra e, per questo, sono prede molto facili da ghermire.
Adesso, seduto da solo a un tavolino del Caffè del Minotauro mentre il sole tramontava, non riusciva a dimenticare che con Bianca aveva vissuto momenti di feroce felicità. Lei sapeva trasformargli il mondo attorno rivoltando il minerale grigiore della sua quotidianità: con un solo sguardo sapeva far crollare interi palazzi, lunghe e grigie schiere di case, alte cortine di muri secolari, aprendo improvvisamente orizzonti d’oltremare accarezzati dal vento; il suono della voce di lei provocava subitanei sventramenti urbani che spalancavano la vista, d’abitudine confinata negli angusti e rassegnati recinti dei suoi confortevoli sogni, su sconfinate steppe che lo lasciavano sgomento dandogli sensazioni di vertigine. I suoi asfittici scorci da pittore ottocentesco, con le loro malinconiche pozzanghere e i loro consueti angoli d’enigmatiche ombre, le impercettibili variazioni nella tonalità della luce sulle facciate delle case, le poltiglie dei suoi ricordi, la metafisica degli intonaci corrosi e delle pietre immemori levigate dal tempo; tutta quest’antica città sommersa, questa Atlantide padana, veniva ogni volta spianata a cannonate dai suoi baci blasfemi; rasa al suolo dalle spietate formazioni dei suoi neri bombardieri; devastata dalla cieca violenza dei suoi terremoti; e rovinava come le mura di Gerico al suono delle sue sconcertanti parole d’amore. Portami via da qui, le diceva, portami via da queste giornate polverose e pallide, da queste notti illuni, da queste periferie di tenebra, dal fragore delle banalità, da questi cataloghi d’amarezze, da queste enciclopedie di delusioni. Portami via.
L’avrebbe seguita ovunque: negli spaventi che precedono l’alba, nei colossali mausolei che rimbombano di silenzio quando s’approssima il buio, nelle scomode e taglienti consapevolezze del declino, negli aspri e scorticati giorni senza poesia, lungo le coste battute dal vento del suo crepuscolo, nei riverberi di inutili tramonti di plastica, nelle foreste gelate dei lunedì mattina d’inverno, nelle periferie tutte uguali dei loro selvaggi malumori. Restava un cuore ormai spento, il navigabile oceano della sua pelle e la meticolosa rassegna delle sue malinconie. Sei perduta adesso, amore mio, pensava; sei una bambina smarrita in un giardino notturno pieno d’orchi di cartone che ti raccontano favole nere senza lieto fine.
Quando, di ritorno dal Caffè del Minotauro, entrò in casa, trovò Miyako sdraiata sul divano, abbigliata come la vestale d’un dipinto di Klimt. Miyako era il suo demone privato, la personificazione della sua cattiva coscienza e dei suoi pensieri negativi, un demone che aveva, chissà perché, le sembianze di una languida ragazza giapponese. Cosa ci fai qua? le chiese Yuri seccato. Miyako alzò appena lo sguardo dallo schermo dello smartphone. Abito qui, rispose freddamente, nel caso tu non te ne fossi accorto. Era una creatura permalosa, permalosissima, ma dopotutto non era cattiva. Certo, tentava con ogni mezzo di spingere Yuri al peggio, di farlo scivolare verso il basso, ma in fin dei conti faceva solo il suo mestiere, senza acrimonia. E poi era un demone pigro: non insisteva mai troppo; quando vedeva che Yuri non cadeva nei suoi velenosi tranelli, spariva senza insistere eccessivamente. Aveva sicuramente parecchie responsabilità nella spirale discendente di Yuri ma lui, dopotutto, non aveva opposto molte resistenze. Non è venuta, vero? gli domandò Miyako sarcastica. No, rispose Yuri svogliatamente, non è venuta. E certo, prosegui il demone, spietato, era ovvio. È stata una mossa davvero patetica. Patetica e disperata. Giusto un fallito come te poteva pensare di risolvere tutto con questo miserabile coup de théâtre.
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