Il divano aveva la stessa stoffa logora di sempre, quella di quando ero bambino, di quando i divani stazionavano ancora nella vecchia casa. “Vuoi che andiamo adesso?”. Ci mise qualche secondo a rispondere, dopo -mi parve- un sunto mentale delle fatiche spese e delle fatiche spendibili. “Sì. Mi va. A te va?”. “Certo!”. Non era una bugia. Mia moglie Francesca, e Matilde e Alessandro, i nostri figli rispettivamente di cinque e tre anni, sapevano che non sarei tornato prima di cena e al lavoro avevo già avvisato della mia irreperibilità fino a fine giornata. Mi alzai sulle gambe e battei le mani sulle cosce per suonare una sorta di sveglia. “Un po’ di moto ci farà bene”. “…E anche un po’ di verde” aggiunse mio padre, che sorrise con un velo di lacrime agli occhi, il suo nuovo modo sempre incompleto di essere felice.
La luce del cielo era come una biglia di vetro che, sparata a mille all’ora contro il muro a piani irregolari dell’orizzonte, si era frantumata in milioni di pezzi sparsi e veleggianti nell’aria. Il parco lo avevamo raggiunto con la mia macchina, era lo spazio più verde in città e mamma mi ci portava spesso quand’ero bambino. Essere lì, a camminare braccio a braccio con mio padre, a sorreggerlo nel suo claudicare, mi faceva sentire strano, avevo addosso la sensazione di essere tornato il bambino che non ero mai stato. La nostalgia di momenti che potevo vivere ma che, per oscure ragioni, non avevo vissuto mi arpionava il cuore, rendendomelo felice e colmo di tristezza insieme.
Seguimmo il sentiero principale di ciottoli. I pioppi seguivano la curvatura segnata al suolo e sembravano riparare le nostre teste da possibili (quel giorno improbabili) intemperie. Riuscii ad immaginarli, mentre passavo lì in mezzo, mentre il profumo di resina e fioritura mi riempiva le narici, come guide e come scudi. In lontananza un rumore di una sirena si alternò al calpestio sicuro di un corridore in allenamento che vestiva una giacchetta blu e con i capelli castani incollati alla fronte. “E’ sempre uguale, eh!” disse mio padre, riferendosi al parco. Lo disse in un moto di sereno stupore. Forse, stanco dei cambiamenti repentini del centro abitato, i cui locali danzavano in un continuo andirivieni di aperture e chiusure, e perlopiù di offerte che mio padre neanche comprendeva appieno, si ritrovò finalmente in un ambiente famigliare, al di fuori del proprio appartamento. Sorrisi. “Non so se hanno messo qualche pianta nuova…”. Lui controbatté: “Ah, e chi ci bada!”. E ridemmo insieme.
Ci sedemmo sulla panchina di una radura dove un laghetto con un ponticello nel mezzo interrompeva il verde acceso dei fili d’erba. Una vecchia villa grigia e dall’intonaco ammaccato aveva mantenuto quell’aspetto dalla mia infanzia; si innalzava appena sopra una linea spessa di tigli. Avevo le mani intrecciate e poggiate sui jeans, la schiena tesa verso il pelo dell’acqua: tentavo di spiare il movimento funambolico dei pesci gatto. Mio padre rimaneva in silenzio e muoveva le labbra come se se le stesse masticando, un tic che aveva preso da poche settimane. Non so perché parlai.
“Mi ricordo questo posto. Mi ci portava sempre mamma quando avevo…quando ero piccolino”. Non avevamo mai accennato a lei dal giorno del funerale. Avevamo ritenuto sufficienti dei grandi ed eloquenti silenzi: ero stato educato, esattamente come mio padre dal suo, ad essere un uomo fino al midollo del carattere e della personalità. Niente di tragico o di sbagliato, non per forza perlomeno, ma tra le regole ferree di quest’educazione vige quella della sofferenza mai condivisa né nascosta, solo fatta intuire. Gestirla come una crepa di un muro che corre lungo fino alle sue fondamenta e non come il crollo del muro stesso. I picchi viverli nella dimensione più privata possibile. “Mi metteva…”. Mi concentrai sul ricordo, cercando di dimenticare il poco rispetto che stavo dimostrando per tutto ciò che eravamo in quella panchina. “Ci mettevamo lì, sul prato. Lei apriva sempre…era la coperta con la pubblicità di una radio? Io inseguivo le farfalle. Oddio, non so se sempre. Ho quest’immagine chiara. Forse è capitato qualche volta…”.
Mio padre allungò la mano e arpionò la mia. La strinse. Era calda. Lo guardai, stava fissando il prato e forse le mie parole avevano generato le stesse sensazioni che avevo provato io pochi minuti prima, una strana nostalgia su ciò che poteva essere. Una felicità colma di tristezza. I suoi occhi erano più velati del solito. Sorrise, si morse le labbra e sorrise di nuovo, spostando lo sguardo su di me. Sentii la mano stringere ancora. Non sapevo bene come comportarmi. Tra le regole vigeva l’aborto del contatto fisico nel suo aspetto più affettuoso. Al massimo una stretta di mano per complimentarsi…ma quella stretta di mano era diversa. Avvolgeva come un abbraccio e scaldava come un bacio sulla fronte. Mio padre andò oltre intrecciando le dita alle mie e, stando lì, riprese a guardare il laghetto. E io con lui.
Stemmo lì un po’ così, fermi e -per quanto riguardava me- leggermente imbarazzato dallo strano guazzabuglio di emozioni. Dopo qualche minuto mio padre lasciò la mano. Ruppe il silenzio annunciando che il pino alto un paio di metri, quello vicino al sentiero e ai pioppi, era sicuramente stato piantato da poco. Annuii. “Si vede che deve crescere ancora”. “Ma sta crescendo bene”, assicurò lui.
Morì il 16 giugno, una giornata calda e soleggiata e anonima per la stagione. Il funerale si tenne in chiesa. Mi piacerebbe dire che era gremita, ogni seduta occupata da un viso triste e dispiaciuto, ma non fu così. Di gente ce n’era, e commossa, certo, ma, quando si vive tanto, i molti affetti che verrebbero ad onorarti sono –mi piace immaginare- già dall’altra parte ad aspettarti impazienti. Io e Francesca ci mettemmo sulla prima fila, lei teneva la mano a Matilde, io ad Alessandro. Piansero per buona parte della cerimonia, e io cercai di stringere la mano ad Alessandro e di intrecciare le dita, di trasferirgli tutto l’affetto possibile nel modo in cui, appena il mese prima, aveva fatto mio padre.
Al momento della sepoltura, lasciai Alessandro all’attenzione di Francesca. Mi avvicinai alla bara, al corpo spento e adagiato di mio padre. Misi una mano sopra le sue, elegantemente posate sul petto come si addice ad un defunto. Le accarezzai. Gelide ed immobili, non risposero al mio richiamo. Mi scese qualche lacrima, forse mi si velarono solo gli occhi, e la sensazione di un ritardo irrimediabile mi fece tremare le gambe.
Passai il pomeriggio con la mia famiglia. Prima di tornare a casa, cercammo una pasticceria per strada, dove ci tirammo su il morale con un’abbuffata di paste e pasticcini. Inevitabilmente, prima di cena, io e Francesca frugammo negli album di famiglia, ripescando momenti dimenticati dove i miei genitori presenziavano senza acciacchi o ombre di solitudine. Dove se ne stavano a divertirsi, allegri. Dalle loro foto passammo ad ammirare i ricordi immortalati dei nostri figli, dei loro primi passi, dei loro primi giochi, delle loro prime esperienze. Fu solo a notte inoltrata, quando ci mettemmo a letto nel silenzio sfumato del buio, che ripensai alla passeggiata al parco. Alla sua stretta affettuosa, al suo sorriso e a –mi piacque pensare- l’ultimo insegnamento dettato dal suo ruolo, ovvero che l’unico peccato capitale non è tanto il ritardo verso il padre o la madre, ma quello verso i figli.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.