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Piena di – Una raccolta di racconti

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Consegna prevista Aprile 2024

Una casa diroccata, tenebrosa ed invitante, davanti alla quale giocano tre bambini. Una cena tra amici, dove un uomo e una donna si scoprono sconosciuti ed interessati. Un viaggio a Vienna: la voglia di un rituale trasformata in una sorpresa irripetibile.

Sono solo tre delle dodici storie che compongono la costellazione di una ricerca, dove, ancora inconsapevoli della loro crescita, i protagonisti di questa raccolta sono vittime delle loro scelte e dei giudizi altrui; di un sistema di valori e delle sue abitudini. A volte mossi dalla sfortuna, a volte illusi dalla fortuna, si muovono come un veliero senza bussola in mezzo all’oceano e finiscono per scovare un tesoro diverso da quello sognato e agognato alla partenza: la relativa importanza di se stessi e un sincero interesse per il mondo attorno a sé.

Perché ho scritto questo libro?

Questa raccolta è maturata in anni di altre scritture e di molte letture. La selezione rappresenta i punti cardine del pensiero che ho costruito sulle persone e sul mondo fino ad oggi. Un pensiero ancora instabile, per lo più incompleto, assolutamente parziale, ma sul quale non posso fare a meno di credere; con il quale devo andare a braccetto ogni giorno, pena il venir meno di un confronto e di uno scontro con chiunque ne abbia da ridire. Pena il dramma delle convinzioni radicate.

ANTEPRIMA NON EDITATA

L’ULTIMO INSEGNAMENTO

Me lo chiese sulle cinque e mezza, le tazze vuote e ancora profumate davanti a noi. Come tutte le richieste degli ultimi mesi – e alcune abitudini, per esempio il tè delle cinque- un po’ mi sorprese e un po’ mi lasciò indifferente. Diciamo che restai indifferente alla sensazione di sorpresa. Mio padre, un uomo che ormai viaggiava dritto come un fuso verso gli ottanta, gli occhi ingobbiti, la pelle del naso sempre macchiata di qualche novità e l’odore a richiamare quello di mio nonno, sembrava rinato dalle ceneri della solitudine. Mia madre era mancata l’anno prima e fu un duro colpo. So che in realtà il suo comportamento non aveva nulla a che fare con la rinascita, ma con il bisogno di riempire dei vuoti. Perciò, come un ventenne preso da mille capricci d’esperienza, voleva provare a fare. Ovviamente, data l’onnipresente sensazione di vecchio fuori dal mondo, cercava nella mia compagnia un anestetico.

“Perché mi guardi così?”. Feci un no abbozzato con la testa, le labbra un cumulo recitato di noncuranza. “Niente, figurati”. Eravamo nel salotto dell’ultimo appartamento in cui avevano vissuto i miei. Non era la casa a cui ero legato, quella fuori città a due piani, dove avevo montato la mia prima porticina da calcio e dove avrei riconosciuto ogni arbusto che vi era cresciuto in giardino, ma un discreto spazio al quinto piano di un palazzo a due passi dal centro. Veniva immerso da una bella luce pomeridiana, ed era una luce che conoscevo solo di sfuggita, un riflesso che non riguardava la famiglia ma una coppia di persone che vi avevano soggiornato nel tramonto della loro avventura.
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Il divano aveva la stessa stoffa logora di sempre, quella di quando ero bambino, di quando i divani stazionavano ancora nella vecchia casa. “Vuoi che andiamo adesso?”. Ci mise qualche secondo a rispondere, dopo -mi parve- un sunto mentale delle fatiche spese e delle fatiche spendibili. “Sì. Mi va. A te va?”. “Certo!”. Non era una bugia. Mia moglie Francesca, e Matilde e Alessandro, i nostri figli rispettivamente di cinque e tre anni, sapevano che non sarei tornato prima di cena e al lavoro avevo già avvisato della mia irreperibilità fino a fine giornata. Mi alzai sulle gambe e battei le mani sulle cosce per suonare una sorta di sveglia. “Un po’ di moto ci farà bene”. “…E anche un po’ di verde” aggiunse mio padre, che sorrise con un velo di lacrime agli occhi, il suo nuovo modo sempre incompleto di essere felice.

La luce del cielo era come una biglia di vetro che, sparata a mille all’ora contro il muro a piani irregolari dell’orizzonte, si era frantumata in milioni di pezzi sparsi e veleggianti nell’aria. Il parco lo avevamo raggiunto con la mia macchina, era lo spazio più verde in città e mamma mi ci portava spesso quand’ero bambino. Essere lì, a camminare braccio a braccio con mio padre, a sorreggerlo nel suo claudicare, mi faceva sentire strano, avevo addosso la sensazione di essere tornato il bambino che non ero mai stato. La nostalgia di momenti che potevo vivere ma che, per oscure ragioni, non avevo vissuto mi arpionava il cuore, rendendomelo felice e colmo di tristezza insieme.

Seguimmo il sentiero principale di ciottoli. I pioppi seguivano la curvatura segnata al suolo e sembravano riparare le nostre teste da possibili (quel giorno improbabili) intemperie. Riuscii ad immaginarli, mentre passavo lì in mezzo, mentre il profumo di resina e fioritura mi riempiva le narici, come guide e come scudi. In lontananza un rumore di una sirena si alternò al calpestio sicuro di un corridore in allenamento che vestiva una giacchetta blu e con i capelli castani incollati alla fronte. “E’ sempre uguale, eh!” disse mio padre, riferendosi al parco. Lo disse in un moto di sereno stupore. Forse, stanco dei cambiamenti repentini del centro abitato, i cui locali danzavano in un continuo andirivieni di aperture e chiusure, e perlopiù di offerte che mio padre neanche comprendeva appieno, si ritrovò finalmente in un ambiente famigliare, al di fuori del proprio appartamento. Sorrisi. “Non so se hanno messo qualche pianta nuova…”. Lui controbatté: “Ah, e chi ci bada!”. E ridemmo insieme.

Ci sedemmo sulla panchina di una radura dove un laghetto con un ponticello nel mezzo interrompeva il verde acceso dei fili d’erba. Una vecchia villa grigia e dall’intonaco ammaccato aveva mantenuto quell’aspetto dalla mia infanzia; si innalzava appena sopra una linea spessa di tigli. Avevo le mani intrecciate e poggiate sui jeans, la schiena tesa verso il pelo dell’acqua: tentavo di spiare il movimento funambolico dei pesci gatto. Mio padre rimaneva in silenzio e muoveva le labbra come se se le stesse masticando, un tic che aveva preso da poche settimane. Non so perché parlai.

“Mi ricordo questo posto. Mi ci portava sempre mamma quando avevo…quando ero piccolino”. Non avevamo mai accennato a lei dal giorno del funerale. Avevamo ritenuto sufficienti dei grandi ed eloquenti silenzi: ero stato educato, esattamente come mio padre dal suo, ad essere un uomo fino al midollo del carattere e della personalità. Niente di tragico o di sbagliato, non per forza perlomeno, ma tra le regole ferree di quest’educazione vige quella della sofferenza mai condivisa né nascosta, solo fatta intuire. Gestirla come una crepa di un muro che corre lungo fino alle sue fondamenta e non come il crollo del muro stesso. I picchi viverli nella dimensione più privata possibile. “Mi metteva…”. Mi concentrai sul ricordo, cercando di dimenticare il poco rispetto che stavo dimostrando per tutto ciò che eravamo in quella panchina. “Ci mettevamo lì, sul prato. Lei apriva sempre…era la coperta con la pubblicità di una radio? Io inseguivo le farfalle. Oddio, non so se sempre. Ho quest’immagine chiara. Forse è capitato qualche volta…”.

Mio padre allungò la mano e arpionò la mia. La strinse. Era calda. Lo guardai, stava fissando il prato e forse le mie parole avevano generato le stesse sensazioni che avevo provato io pochi minuti prima, una strana nostalgia su ciò che poteva essere. Una felicità colma di tristezza. I suoi occhi erano più velati del solito. Sorrise, si morse le labbra e sorrise di nuovo, spostando lo sguardo su di me. Sentii la mano stringere ancora. Non sapevo bene come comportarmi. Tra le regole vigeva l’aborto del contatto fisico nel suo aspetto più affettuoso. Al massimo una stretta di mano per complimentarsi…ma quella stretta di mano era diversa. Avvolgeva come un abbraccio e scaldava come un bacio sulla fronte. Mio padre andò oltre intrecciando le dita alle mie e, stando lì, riprese a guardare il laghetto. E io con lui.

Stemmo lì un po’ così, fermi e -per quanto riguardava me- leggermente imbarazzato dallo strano guazzabuglio di emozioni. Dopo qualche minuto mio padre lasciò la mano. Ruppe il silenzio annunciando che il pino alto un paio di metri, quello vicino al sentiero e ai pioppi, era sicuramente stato piantato da poco. Annuii. “Si vede che deve crescere ancora”. “Ma sta crescendo bene”, assicurò lui.

Morì il 16 giugno, una giornata calda e soleggiata e anonima per la stagione. Il funerale si tenne in chiesa. Mi piacerebbe dire che era gremita, ogni seduta occupata da un viso triste e dispiaciuto, ma non fu così. Di gente ce n’era, e commossa, certo, ma, quando si vive tanto, i molti affetti che verrebbero ad onorarti sono –mi piace immaginare- già dall’altra parte ad aspettarti impazienti. Io e Francesca ci mettemmo sulla prima fila, lei teneva la mano a Matilde, io ad Alessandro. Piansero per buona parte della cerimonia, e io cercai di stringere la mano ad Alessandro e di intrecciare le dita, di trasferirgli tutto l’affetto possibile nel modo in cui, appena il mese prima, aveva fatto mio padre.

Al momento della sepoltura, lasciai Alessandro all’attenzione di Francesca. Mi avvicinai alla bara, al corpo spento e adagiato di mio padre. Misi una mano sopra le sue, elegantemente posate sul petto come si addice ad un defunto. Le accarezzai. Gelide ed immobili, non risposero al mio richiamo. Mi scese qualche lacrima, forse mi si velarono solo gli occhi, e la sensazione di un ritardo irrimediabile mi fece tremare le gambe.

Passai il pomeriggio con la mia famiglia. Prima di tornare a casa, cercammo una pasticceria per strada, dove ci tirammo su il morale con un’abbuffata di paste e pasticcini. Inevitabilmente, prima di cena, io e Francesca frugammo negli album di famiglia, ripescando momenti dimenticati dove i miei genitori presenziavano senza acciacchi o ombre di solitudine. Dove se ne stavano a divertirsi, allegri. Dalle loro foto passammo ad ammirare i ricordi immortalati dei nostri figli, dei loro primi passi, dei loro primi giochi, delle loro prime esperienze. Fu solo a notte inoltrata, quando ci mettemmo a letto nel silenzio sfumato del buio, che ripensai alla passeggiata al parco. Alla sua stretta affettuosa, al suo sorriso e a –mi piacque pensare- l’ultimo insegnamento dettato dal suo ruolo, ovvero che l’unico peccato capitale non è tanto il ritardo verso il padre o la madre, ma quello verso i figli.

2023-08-23

Aggiornamento

150 copie andate, ora si entra nel rush finale delle ultime 50! Colgo l'occasione per ringraziare i sostenitori che hanno seguito il blog Elpuberamato.it negli anni e che mi hanno permesso di avanzare nella campagna di crowdfunding. Dà semplicemente un senso, e non è poco.

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Leonardo Beraldo
Nato a Treviso il 30 agosto 1988, mi sono laureato in Tecniche Artistiche dello Spettacolo a Venezia e ho successivamente frequentato la scuola per scrittura cinematografica Bottega delle Finzioni a Bologna. Mi sono avvicinato alla letteratura lavorando in una libreria all’interno di un
cinema. Ho aperto un blog nel 2018, Elpuberamato.it, dove ho iniziato a muovere i primi passi nella scrittura, dedicandomi a racconti autobiografici dal taglio ironico. Il primo racconto pubblicato si intitola Maratona papà contro il virus, finalista del concorso Storie di resistenza al virus della casa editrice Paesi Edizioni. Un secondo racconto è arrivato in finale al concorso Caffè Corretto della Città di Cave (Roma).

Questa è la mia prima raccolta di racconti.
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