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Portland – La città dei dannati

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Lo straniero ha una sola cosa in testa: la vendetta. È vecchio ormai, la Guerra Civile è lontana quasi vent’anni, eppure s’è fatto tutta l’America a cavallo da costa a costa, da sud a nord, con una sola idea ficcata nel cervello. Trovare chi è stato e farlo fuori. E non gliene frega niente di quanti cadranno sotto il piombo delle sue Colt del Sessantuno. Giunto a Portland, si ritrova a muoversi nel sottosuolo di una città dedita all’alcol, alla droga e alla prostituzione. Allo straniero non frega proprio niente delle donne sfruttate o dei bovari rapiti e trasformati in schiavi sulle navi. Lui ha solo la vendetta in testa. Ma ora si trova a vagare là sotto e ad aiutare persone che non pensava di poter mai aiutare. Con quale scopo?

I

Quella sera nessuno si accorse dello straniero col cappello grigio quando varcò la soglia del Dooley’s Saloon. Il locale era troppo affollato. Il pianista picchiava duro sulla tastiera, le prostitute adescavano i clienti stuzzicandoli con le piume di struzzo e mostrando le cosce nelle calze a rete; il whiskey a base di tabacco e zucchero scorreva a fiumi, la birra calda lo accompagnava.

C’erano un sacco di tavoli da poker nella sala, ma lo straniero dal cappello grigio andò dritto a quello in fondo, quello dove giocavano gli scagnozzi del signor Dooley, il padrone del locale. Erano in quattro, ghigne affilate, bicchieri e dollari sul tavolo, carte in mano e pistole nelle fondine. Ce n’erano altri tre che tenevano d’occhio il locale, uno era appoggiato alla balaustra delle scale in alto e giocherellava con un orologio a cipolla, uno scherzava con una prostituta all’angolo accanto alla porta cercando di infilarle le mani sotto la gonna, l’ultimo sorseggiava birra al bancone. Erano pistoleri svelti, ma nella baldoria del saloon anche loro non si accorsero dello straniero, finché lo straniero non estrasse le pistole.

Le due Colt Navy del ’61 iniziarono a cantare, ruvide e sorde. Prima stesero i quattro al tavolo da poker che capriolarono insieme alle sedie, chi con un buco in testa chi con un secondo ombelico. Poi quello al bancone, che si aggrappò alla bottiglia di whisky e cadendo giù strappò via dal chiodo lo straccio per asciugarsi i baffi. Infine quello accanto alla porta che aveva già impugnato la pistola ma non aveva fatto in tempo a sparare, e piombò per terra lasciando uno schizzo di sangue sul muro e la prostituta a strillare. Lo straniero si era già voltato verso l’ultimo pistolero che scendeva di corsa le scale sparando all’impazzata, prese la mira e lo centrò in pieno petto facendogli ruzzolare gli ultimi gradini.

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Il saloon si era svuotato. Le facce delle prostitute rintanate sotto i tavoli erano pitture graffiate con le mani, il pianista era un pezzo di legno aggrappato alla tastiera. Solo il barista aveva trovato il coraggio di prendere la pistola da sotto al bancone e puntarla in faccia allo straniero, ma la mano gli tremava e la fronte era un fiume. Chi ebbe il sangue freddo di sbirciare tra i tavoli vide lo straniero dal cappello grigio avanzare a passo sicuro verso di lui, fissarlo dritto negli occhi senza batter ciglio e strappargli la pistola di mano con uno scatto. La gettò via mentre il barista correva fuori con le brache sporche, poi puntò dritto verso la porta a doppia anta in fondo alla sala, quella dell’ufficio del padrone.

La porta dell’ufficio di Dooley si spalancò di schianto lasciando la placca della serratura che ciondolava divelta dal legno.

Lo straniero poggiò lo stivale a terra e si fermò sulla soglia con le pistole in pugno mentre gli occhi d’acciaio perlustravano già il salottino. C’era carta da parati con gigli neri, l’orologio a pendolo nell’angolo ticchettava, alla scrivania in mogano non c’era nessuno, due passi più in là c’era la cassaforte in acciaio brunito e decori in ottone. Gart Dooley non c’era, oppure Gart Dooley era un codardo e si era nascosto bene; e infatti un attimo dopo sbucò da dietro il sofà gridando come grida chi ha paura.

Era un piccoletto con le basette folte, stempiato. Attraversò di corsa il salottino vomitandogli contro tutti i sei colpi della Smith & Wesson usando il palmo della sinistra per ricaricare il cane. Lo straniero dal cappello grigio non batté ciglio. C’erano due cose che i pistoleri, quelli veri, imparavano presto dalla vita: a non fare stupidi giochetti con le pistole e a prender bene la mira. Si prese il suo tempo puntandogli l’addome, poi sparò centrandogli lo sterno. Gart Dooley ruzzolò sulle assi di legno come un sacco di patate, poi si rialzò sui gomiti e si trascinò verso la parete. Gemeva a denti serrati, dal pungo chiuso sulla ferita sgorgava tanto sangue come se stringesse un’arancia spremuta.

«Chi cazzo sei?»

Sputacchiava tra i denti macchiati di rosso, il volto era cartapesta, faceva versi come se stesse per vomitare.

Lo straniero si avvicinò a passo lento, tintinnando gli speroni, fino a sovrastarlo. Gli stracci di fumo si dissipavano attorno a lui facendolo somigliare a una statua di cera. Slacciò i primi due bottoni dorati della redingote blu lunga fino al ginocchio, i baffi e il pizzetto grigi erano curati, le rughe attorno agli occhi erano solchi scavati dal sole. Estrasse una vecchia foto dalla giacca e gliela mostrò.

Gart Dooley strinse gli occhi per guardarla bene, poi corrucciò lo sguardo come chi rammenta qualcosa, e scoppiò a ridacchiare storcendo la bocca per la ferita.

«T’hanno mandato fin qui per quella puttana?»

Lo straniero rimase impassibile. Gli occhi erano diamanti azzurrini. Gli puntò la pistola alla gola e tirò su il cane. Il suo sguardo era impassibile, chiunque l’avesse visto avrebbe giurato di aver visto gli occhi del demonio. Non battè ciglio quando premette il grilletto, e la palla di piombo squarciò la gola di Dooley e si piantò nelle assi del muro.

Lo straniero affilò lo sguardo fissando Gart Dooley che soffocava nel suo sangue schiumoso, rigirò la foto fra le dita e gliela lanciò in faccia come si tira una carta da poker sul ghigno all’uomo che ha barato. Poi se ne andò lasciandolo lì a morire.

II

Samuel Brown non staccava gli occhi dalla porta laccata di bianco dell’Emerald Hotel, dall’altra parte di Montgomery Street. La sua Vivien era entrata da due minuti ormai, e due minuti erano tanti in quel brutto posto dimenticato da Dio.

Guardandosi attorno non vedeva altro che ubriachi e mandriani che uscivano ed entravano nei saloon in cerca di donne e divertimento, e per lui lasciare Vivien sola in una città così sporca e depravata era peggio che piantarsi uno stiletto nel fianco. Vivien era un’anima pura e indifesa, così minuta sotto il cappellino infiocchettato. Schizzo era un cane fedele, sì, certo, ma era piccolo e qualunque malintenzionato l’avrebbe potuto allontanare con un calcio ben dato.

Samuel rimuginava su tutte quelle cose, logorandosi le mani nell’attesa. Era stata lei a dirgli di restare lì, gli aveva detto che quella non era New York, era Portland, una città di frontiera, e anche se erano trascorsi quasi vent’anni dalla fine della guerra civile era meglio che lui non si facesse vedere in giro, soprattutto che non entrasse in un hotel in compagnia di una giovane bianca dai capelli rossi e dai tratti irlandesi. I proprietari o qualche avventore svelto di pistola avrebbero potuto aver qualcosa da ridire, perché anche se lui era un ragazzo perbene, vestito di tutto punto, con cravattino e occhialini sul naso, era pur sempre un negro.

Fortunatamente un attimo dopo Vivien sbucò dalla porta a doppia anta dell’hotel, prese in braccio Schizzo e attraversò la strada a piccoli passi sollevando la gonna quel poco che bastava perché non si sporcasse di fango. Samuel l’attese senza rendersi conto dell’enorme sorriso che aveva in faccia. Quando fu abbastanza vicina la prese per il polso e l’abbracciò più stretta che poteva. Gli era mancata più del respiro.

«Allora? Ci farà entrare?»

Lei annuì svelta. Aveva occhietti nocciola e un faccino smagrito per il lungo viaggio in treno, aveva anche un po’ di fuliggine ancora sulla guancia che lui pulì col dito, poi risero insieme.

A Samuel tornò in mente il turbinio di peripezie che avevano passato, lui e la sua Vivien. La fuga da New York, il lungo viaggio in treno per una terra così vasta che avevano stentato a immaginare, e ora erano vicini alla realizzazione del loro sogno, il matrimonio e un futuro tutto da costruire. L’amava tanto, l’amava come il primo giorno che si erano incontrati, quando un filantropo di New York l’aveva presentato nel salottino del padre di lei, il magnate O’Malley. Era usanza a New York darsi delle arie presentando nei salotti dell’alta società giovani studenti abili nel parlare. Quel tizio aveva sorseggiato whiskey dicendo che la guerra aveva avuto i suoi vantaggi, adesso potevano vantarsi di avere un negro acculturato. Samuel non l’aveva neanche sentito, la vista di Vivien seduta compostamente sul sofà di fronte gli aveva ingabbiato il pensiero.

Samuel strinse forte la mano di Vivien quando attraversarono di nuovo la strada, mentre con l’altra trascinava la valigia più pesante di un baule pieno di mattoni e lei portava Schizzo in braccio come un bambino. Iniziò a tirare su il bagaglio sui gradini dell’hotel sotto l’insegna bianca, quando Vivien lo tirò per il gomito indicandogli il vicolo vicino, quello accanto al saloon con scritto Hubort lungo la facciata.

«Per di qua, Sammy. Il proprietario mi ha chiesto di passare dal retro, per non dare nell’occhio.»

Lui aggrottò le sopracciglia per niente contento di quella deviazione, poi scrollò le spalle e la seguì nel vicolo borbottando come una teiera. «Questa discriminazione non mi piace affatto. I miei dollari valgono quanto quelli di un bianco, e per di più me li sono guadagnati onestamente!»

Lei rispose con un sorriso. «Non ti scaldare, dai. Hai sentito anche tu tutte le storie sulla frontiera.» Poi gli fece una carezza sulla guancia. «So bene che tu sei un uomo giusto, più di molti bianchi che vivono in questa città. È per questo che ti amo.»

Sì, mi ama, ma mi tratta pur sempre da negro!

Incrociò le braccia sul petto rimanendo un passo dietro di lei che metteva giù il cagnolino e bussava tre volte alla porticina sul retro. Poi si convinse che in fondo Vivien aveva ragione, e si tolse il broncio dal viso. Non lo trattava da negro, semplicemente si prendeva cura di lui e temeva che qualcuno gli facesse del male, dopotutto era lei che aveva accettato le rinunce maggiori lasciando New York per imbarcarsi in quell’avventura. Lei era figlia del ricchissimo O’Malley, avrebbe potuto sposare un bianco della sua casta e vivere bene, e invece aveva mollato tutto per stare con lui, che era un uomo libero, sì, ma era pur sempre un negro; se fosse stato bianco il padre di lei non avrebbe avuto niente da ridire sulla loro relazione.

Sì, Vivien O’Malley è l’unica persona che mi tratta da essere umano. E si scoprì a sorridere come uno scemo.

«Lascia fare a me, amore mio. Ti farai male» le disse avvicinandosi alla porta, mentre lei si massaggiava il polso sottile e le piccole nocche arrossate dopo aver bussato senza ricever risposta.

Samuel batté a pugno chiuso, con vigore, e mentre batteva pensava che stanotte l’avrebbe stretta tra le braccia, finalmente dopo tante settimane in un letto vero; bussò ancora, e avrebbe bussato una terza volta, e con più forza, se Schizzo non avesse ringhiato verso la strada e qualcuno da quella parte non avesse detto: «Ma guarda chi abbiamo qui. Un negro e la sua puttana».

C’erano tre figure buie stagliate nel bagliore della strada. Uno teneva un randello, dalla cintura di quello al centro sporgeva il calcio di una pistola. L’ultimo era grosso, fu lui che si occupò di Schizzo che non la smetteva di abbaiare: lo prese a calci fino a lanciarlo contro il muro, dove il cane rimase a mugolare.

Le braccia di Samuel formicolarono, così come le ginocchia, e anche la gola. Ma tenne duro, tenne duro perché quelli erano ladri e lui sapeva che i ladri volevano una cosa sola; bastava dargliela e sarebbero andati via. Strinse il polso di Vivien che già tremava e le bisbigliò nell’orecchio di non temere, poi poggiò la valigia per terra e sollevò il mento cercando di tenere salda la voce. «Volete soldi? Ve li posso dare.»

Si fece passare da Vivien il blocchetto di dollari legati con lo spago che teneva nella borsetta e lo gettò ai loro piedi. Certo, era dura gettar via così i risparmi di tre anni, tre durissimi anni di lavoro svaniti in un attimo in un vicolo di quella città del peccato, ma non poteva fare diversamente, se non glieli avesse dati lui, se li sarebbero presi con la forza.

Quello al centro raccolse i soldi, ci passò il pollice come per contarli, poi si fece avanti prendendosi in faccia la luce dei lampioni e Samuel rabbrividì per com’era sfigurato. Il labbro stava sollevato sugli incisivi, come una tenda tirata; quel tizio continuava a tirar su la saliva che non la smetteva di colare. Era un risucchio che graffiava la schiena.

«Un bel gruzzolo, ometto. Ma non hai ancora capito che non vogliamo solo i soldi. La tua bambola ha i riccioli rossi. Qui valgono una fortuna.»

No, non poteva essere, non dopo tutto quel viaggio, non ora che erano quasi arrivati. Aveva sentito male, sì, aveva di sicuro sentito male. Lo sfregiato sibilava più che parlare, e poi aveva un accento strascicato, di sicuro voleva intendere un’altra cosa. Sì, un’altra cosa. E mentre lo pensava gli si era spezzato il respiro e le ginocchia erano divenute tronchi d’albero piantati nella brughiera.

Non si era nemmeno accorto che la sua piccola Vivien si era pigiata il ricciolo ribelle su nel cappellino e si era accanita sulla porta picchiandoci a due mani. Se ne rese conto solo quando lo sfregiato smise di ridere e disse che era inutile affannarsi tanto, «bambolina».

«Nessuno ti verrà ad aprire. È stato proprio Big Tom che c’ha detto di voi.» E nel dirlo aveva ammiccato col pollice all’hotel, poi fece un cenno col capo ai suoi. «Prendetela. E lui… fatelo fuori.»

Samuel aveva una mandria di bufali nel petto, una mandria di bufali che correva in tondo dentro un recinto che stava per crollare. Incespicava sui piedi, non ci credeva. Pensò alla fuga, ma alle sue spalle c’era un muro alto tre metri, troppo, e la porta non si apriva, e allora decise che l’unica soluzione era lottare. Gridò scagliandosi contro il primo, quello dagli occhi a mandorla che impugnava il bastone. Ma Samuel non aveva mai combattuto in vita sua, l’altro di sicuro lo faceva per mestiere.

Le mani lo agguantarono per le spalle e lo sbatterono contro il muro. La bastonata lo prese in piena fronte e Samuel cadde giù, di faccia nel fango.

Sentì una carezza calda che scendeva sul viso, la puzza di melma ficcata nel naso, Vivien che strillava, poi non sentì più niente e vide solo nero.

III

Le insegne dei saloon e dei bordelli erano un lungo corridoio di luci, cancan e chiasso giù per Montgomery Street. Si spegnevano nella baia, dove ondeggiava la foresta spoglia degli alberi delle navi e svettavano le ciminiere delle segherie a carbone. Il cielo era una pennellata di nero.

Lo straniero dal cappello grigio e la redingote blu camminava a passo svelto giù per la strada, le pistole le aveva riposte, una nella fondina Slim Jim col calcio all’indietro alla maniera sudista, l’altra di traverso nel cinturone. Lo sguardo era di pietra.

Tornò in sé non appena una mezza dozzina di uomini a cavallo del town marshal scrosciò su per Montgomery Street. Frustavano i puledri facendosi largo tra gli ubriachi che ciondolavano per strada abbracciando i lampioni. Le voci correvano in fretta per Portland, qualcuno li aveva avvertiti. Allo straniero toccò infilarsi nel primo vicolo che trovò per evitare d’esser notato. Non aveva remore a piantare un po’ di piombo in pancia a un tutore della legge, solo che gli erano rimasti pochi colpi nelle pistole, meno di quanti gliene sarebbero serviti per spedirli tutti al cimitero.

Li tenne d’occhio dall’angolo finché non sparirono oltre la gobba della strada, poi s’appoggiò al muro e riprese fiato. Gli sembrava d’aver fatto tutto in apnea, dalla sparatoria nel Dooley’s Saloon fino a ora.

La mano corse da sola nella tasca interna della redingote e tirò fuori una piccola lettera ben ripiegata; la carta era gialla, ruvida tra le dita. Toccarla gli dava brividi alla schiena. La tenne per un po’ tra le mani, assaporandola coi polpastrelli, mentre nei suoi occhi grigi scorrevano troppe storie per riconoscerne almeno una; poi l’agguantò con la foga di strapparla e non pensarci più, ma prima che lo facesse una mano gli afferrò lo stivale e lui si fermò.

Quella mano apparteneva a un negro, era steso per terra, era vestito bene, ma aveva una brutta ferita in fronte che grondava sul viso, e poi farfugliava. «Vi prego, aiutatemi. Me l’hanno portata via.»

***

La puzza di sangue e polvere da sparo era ancora forte nel Dooley’s Saloon quando gli uomini del marshal irruppero con le pistole in pugno. L’ultimo era butterato, aveva una stella di latta a cinque punte sul petto e imbracciava un fucile Spencer con la canna mozzata. Fu lui che guidò gli altri verso l’ufficio di Dooley, lo fece tanto in fretta che nessuno si accorse che qualcuno da dietro il bancone li spiava.

July era rimasta là dietro per tutto il tempo della sparatoria. Indossava un abito rosso sgargiante, i capelli erano lunghi e del colore della fuliggine, gli occhi che facevano capolino dal bancone brillavano di smeraldo. Tirò giù il capo e maledisse quella bastarda di catena che aveva alle caviglie, era lunga appena un braccio e non le consentiva di correre, solo camminare. Era per questo che non era scappata. Era stato Dooley a mettergliela, quel gran figlio di puttana, l’aveva fatto perché era una recidiva, una che in appena due anni aveva tentato almeno dieci volte di fuggire. Be’, era normale che volesse scappare: quel posto lo odiava.

Si raccolse nelle ginocchia sperando che gli uomini del marshal Finney non venissero a curiosare là dietro. Si disse che forse avrebbe dovuto tentare la sorte e fuggire subito. Ma poi si convinse che mettendosi a sferragliare verso l’uscita con quel maledetto arnese alle caviglie non sarebbe andata lontano, l’avrebbero agguantata. E poi il marshal era in società con quel bastardo di Dooley, lurido maiale, e alla fine non avrebbe fatto altro che cambiare padrone. Si picchiettò le unghie sul mento rimuginando su come poter uscire.

Uno degli uomini del marshal rimasti fuori si affacciò alla porta. «Capo! Hanno visto il pistolero andar giù per Montgomery Street. Non dev’esser lontano» gridò.

«In sella!» disse Finney uscendo dall’ufficio di Dooley senza il fucile Spencer dalla canna mozzata, e guidò gli altri in strada.

July trattenne il fiato finché non furono tutti fuori, poi scattò in piedi dicendosi che sì, adesso poteva scappare.

Aspettò di sentire i cavalli galoppare via, poi sferragliò nell’ufficio di Dooley. Quel bastardo giaceva nella pozza di sangue con la gola squartata, gli sputò addosso per tutte le angherie che aveva dovuto subire, per tutte le volte che quel mostro la portava su in camera, la legava al letto e la violentava. Grandissimo vigliacco figlio di puttana. Ma lei gli aveva sempre tenuto testa, a quello lì, lei se ne fregava delle botte che le dava e gli diceva che ce l’aveva così minuscolo che neanche lo sentiva. Chiunque fosse il tizio col cappello grigio che l’aveva ammazzato, be’, gli aveva fatto fare la fine che si meritava.

Si gettò su di lui e gli rovistò nel gilet coprendolo di offese da bovaro, si fermò di colpo quando tra le sue unghie laccate di rosso capitò la piccola chiave che cercava. Sedette per terra, tirò su la gonna e usò la chiave per aprire il lucchetto della catena, poi la lanciò in faccia a Dooley ringhiando: «Viscido animale!». Si precipitò sulla scrivania e scardinò il cassettino, prese la piccola Papperbox Derringer a quattro canne e se la infilò nella giarrettiera. Ebbe appena il tempo di tirare un sospiro di sollievo convinta d’avercela fatta, che i passi di qualcuno risuonarono nel saloon e lei s’irrigidì come una candela.

Per niente al mondo stavolta si sarebbe fatta riacchiappare. Piuttosto, che le mettessero una corda al collo e la gettassero legata nel fiume. Piuttosto, che la spellassero viva e con la sua pelle ci facessero delle scarpe alla moda come aveva sentito dire che giù nel Texas era capitato. Piuttosto tutto ma non restare in quel posto di merda ad allargare le cosce e a farsi montare.

Lanciò occhiate frenetiche là attorno senza trovare alcun posto dove potersi rintanare, c’era solo una porta ma era da lì che venivano i passi e da lì non si scappava. Pensò allora di usare la pistola, dopotutto era facile, bastava puntarla e premere il grilletto. Poi con la coda dell’occhio vide la tenda pesante che si muoveva al vento della sera. La finestra era spalancata. Non ci pensò neanche un secondo, scostò la tenda e scavalcò la mensola gettandosi nel vicolo vicino.

La tenda si stava richiudendo come mossa da una ventata quando il vice del marshal coi baffi a spiovente entrò di corsa e col fiatone. Si soffermò solo un attimo a guardare la catena per terra, si accigliò perché non ricordava d’averla vista prima, poi scosse la testa e agguantò il fucile Spencer appoggiato al muro. Finney l’aveva dimenticato lì, ogni tanto capitava.

Mentre stava per uscire, lo sguardo gli cadde sull’angolo di una fotografia che sbucava dal sangue sul pavimento. La tirò via e la pulì sulla spalla di Dooley, che tanto era morto e non si lamentava. Le dette solo un’occhiata, poi pensò che al capo potesse interessare, la infilò in tasca e corse fuori.

***

Lo straniero col cappello grigio si nascose nel buio del vicolo quando la torma degli uomini del marshal passò di nuovo tra i filari di palazzi a tre piani di Montgomery Street; galoppavano all’impazzata. Quello in testa aveva il volto butterato e una stella di latta a cinque punte sul petto; tutti indossavano larghi cappelli, avevano pistole e fucili. Gridavano che dovevano perlustrare tutta la zona, gridavano che dovevano buttare giù dal letto ogni puttana per scoprire se tra le gambe nascondesse l’infame che aveva ammazzato Dooley, quella brava persona.

Lo straniero finì di pigiare l’ultima palla di piombo nel tamburo della pistola, tappò il buco con la cera e la infilò nella fondina. Adesso le pistole erano cariche e pronte per ammazzare. La lettera se l’era infilata di nuovo in tasca; non era il momento di gettarla via, non ancora.

Il negro intanto continuava a ronzargli attorno fastidioso come una mosca, si aggrappava a lui implorando il suo aiuto. Gli aveva detto di Vivien, che l’avevano rapita. Aveva detto che erano stati tre uomini, che la volevano per via dei capelli e che uno di loro era sfregiato. Gli occhi erano venati e larghi come pompelmi maturi.

Lo straniero usò il gomito per tenerlo a distanza, poi dette un’occhiata in strada dove gli uomini del marshal scorrazzavano a cavallo, ne vide un paio uscire in sella dal saloon sull’altro lato della via, quello che aveva l’insegna Holy Moses che penzolava. Okay, per Montgomery Street non si passava. Dalla parte opposta la situazione non migliorava, il vicolo era sbarrato da un muro, ed era troppo alto da scavalcare. Però sotto quel muro notò qualcosa d’interessante: c’era un cagnolino bianco e zoppo che raspava il terreno, era già un po’ che lo faceva.

Lanciò un’occhiata al negro. «È tuo il cane?»

«È di Vivien. È suo…»

«Mh.» Lo straniero non cambiò espressione, di rado la cambiava, poi si tolse di dosso il negro e andò a controllare.

Le unghie del cane avevano grattato via la terra fino a scoprire un tavolato. Annusava e graffiava senza interruzione. Lo straniero tastò il tavolato col tacco dello stivale, suonava a vuoto ed era quello che sperava. Sguainò il coltellaccio Bowie dalla lama larga e lucente facendo cagare sotto il negro, che evidentemente non c’era abituato, poi spinse via il cane con la punta dello stivale e infilò il coltello nei margini della botola; appena trovò il meccanismo di chiusura, ruotò il polso e lo scardinò. La botola si aprì con uno schiocco verso il basso, era come se fosse stata progettata apposta per catturare.

«Ma che fate?» chiese il negro stropicciandosi le mani.

«Vuoi la tua donna? Allora seguimi.»

03 Marzo 2016
non era ancora partita la campagna e già si parlava di Portland - La città dei dannati e dei progetti futuri dell'autore, Simone Giusti! Condividiamo con voi due articoli tratti da Tuttomondonews.it e Il Tirreno che contribuiranno a darvi un'immagine del lavoro che Simone sta portando avanti da tempo.

Ecco il link a Tuttomondonews.it:  https://www.tuttomondonews.it/focus-simone-giusti-pulp/

In basso, l'articolo estratto da Il Tirreno:

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07 Marzo 2016
tutti gli autori, il giorno della partenza della campagna, fremono e cercano il modo migliore per prepararsi al lancio. Simone Giusti ha colto un'occasione d'oro: l'annuncio della partenza l'ha fatto davanti a una platea di lettori, raccolti per ascoltare brani delle sue opere, dalle primissime a Portland - La città dei dannati.

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05 Aprile 2016
sull'uscita di oggi de La Nazione, Laura Martini ci parla di Simone Giusti, di Portland - La città dei dannati e di bookabook. Un mix perfetto per farne un articolo interessante!! Buona lettura a tutti.

05 Maggio 2016
si intensifica il lavoro del nostro autore Simone Giusti per far conoscere la sua opera. Potrete curiosare e trovare tutte le informazioni su Portland - La città dei dannati anche su Facebook e soprattutto sul blog dell'autore! Inoltre, nasce anche la newsletter di Portland - La città dei dannati che ogni martedì terrà informati tutti i sostenitori. Di seguito i link alla pagina fan di Facebook e al blog di Simone Giusti: https://www.facebook.com/Portlandilromanzo/?fref=ts https://simonegiusti.wix.com/scrittore# !portland/uyzfx
09 Maggio 2016
un'interessante iniziativa del nostro autore Simone Giusti che, in occasione della giornata della memoria per il rogo dei libri di Berlino del '33, ha organizzato una presentazione della sua opera Portland - La città dei dannati insieme a David Giuntoli e al suo libro Il segnato. L'evento si terrà martedì 10 maggio alle ore 21.15 in via Mercanti 3/a a Pisa con la coordinazione di Camilla Rigatti. Di seguito la locandina con tutte le informazioni. Partecipate numerosi!
12 Maggio 2016
il 10 maggio si è tenuto l'incontro di Simone Giusti in occasione della memoria per il rogo dei libri di Berlino. Di seguito troverete un articolo, tratto dal blog di Simone, che vi racconterà (se non ci siete stati) com'è andata la serata! https://simonegiusti.wix.com/scrittore# !Leditoria-che-rompe-le-barriere/c1q8z/5733c82b0cf2eac0f5213ca8 16/06/2016: domenica 12, in orario aperitivo, Simone Giusti ha tenuto una relazione sul West a Montelupo, al Tesla Science Bar, raccontando “I segreti del West”, dai pistoleri, al duello, alle pistole, fino ai sotterranei di Portland e la tratta degli schiavi. Ecco alcune foto dell'evento!
12 Luglio 2016
tante iniziative sono state fatte e tante sono previste per il futuro! Ecco alcune foto degli ultimi eventi.
07 Febbraio 2018
La storia di Portland non finisce mai! Ecco il nuovo booktrailer realizzato da Simone Giusti, buona visione! https://bit.ly/2EpxrZ6

Commenti

  1. Aurora Redville

    (proprietario verificato)

    Dopo averne sentito parlare così tanto non potevo non acquistare una storia ambientata nella città da me visitata, inoltre l’anteprima mi ha davvero colpita!

  2. Chi legge Simone Giusti da tempo concorderà con il fatto che questa sia la sua opera migliore. Si entra dentro la storia dalla prima pagina, il ritmo è incalzante e i personaggi sono fortemente caratterizzati. Lo stile resta fedele alle sue precedenti stesure: diretto e spietato.
    Una scelta necessaria direi, perché raccontare “all’acqua di rose” fatti drammatici e di miseria, come quelli contenuti in Portland, sarebbe stato decisamente anacronistico e avrebbe parimenti mortificato una storia potente e incisiva, che trova a parer mio molte analogie con il nostro mondo attuale. Infatti trovo geniale “sotterrare” letteralmente la trama al di sotto del piano di calpestio, lontano dagli occhi, dove non si può vedere, dove ogni umanità viene meno. Una metafora potente della nostra realtà ipocrita, dove avvengono di sicuro cose ancora più disumane, purché accadano sempre lontano dai riflettori e in maniera discreta.
    Bravo Simo!

  3. Mattia Pirola

    Comprato domenica, iniziato lunedì sera, finito mercoledì pomeriggio. Bello, avvincente. Per un attimo ho respirato le atmosfere che ho respirato leggendo Louis L’Amour. A dire la verità, quando l’ho comprato, cercavo, oltre al consueto piacere dato dalla lettura di una bella storia, anche un confronto con la mia opera western, che sta affrontando adesso la campagna di crowdfunding Bookabook. Tengo per me le mie conclusioni, che comunque sono soggettive, devo dire però che quest’opera è stata scritta da una persona molto preparata – sicuramente molto più di me – sul difficile e misconosciuto genere che ha scritto.

  4. Caro amico e collega, non vedo l’ora di stringere fra le dita la mia copia, comincia a pensare a una bella dedica, mi raccomando!!!

  5. (proprietario verificato)

    Bisogna contribuire alla crescita di questi giovani autori,bisogna scrivere ancora storia,e si deve far avanzare chi come Simone ci mette prima di tutto la passione…
    E poi,scusate…
    è pur vero che i migliori scrittori son toscani ??

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Simone Giusti
Simone Giusti pisani, classe 1977, laureato in archeologia, ha studiato narrazione, sceneggiatura e regia. Insegna cinema, storytelling e come sceneggiatore e regista ha vinto i prestigiosi concorsi Shortbuster di iLIKE.tv e Narratopoli di Cento Autori. Ha già pubblicato diversi titoli, tra cui Incubo, Guerre Corporative, Il giardino di Boscofitto, Pisa connection, Ragnarock e Jimbo, L'Isis e la strategia del terrore, primo volume di una trilogia pulp.
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