Si ricomincia a vivere ogni volta che si muore un po’. I brividi, le emozioni, il fascino delle cose sbagliate, gli amori duraturi e gli amori di una notte, spesso non saziano lo spirito ma riempiono l’ego. E allora emozionatevi, ma abbiate sempre cura dei cuori che prendete in prestito.
È vero, è stata una mia idea e il mio caro amico Salvatore poi, il quale ho scoperto essere un animo facilmente corruttibile, ha fatto tutto da solo e si è lasciato prendere la mano…
Ricordi in un cassetto
Yes I know my way
‘e guaie mie ‘e ssaccio je
ma chi me crede…
Yes I know my way
ma tu nun puo’ venì
ma tu nun puo’ venì…
I’ m’arreseco sulo si vale ‘a pena ‘e tentà
ma po’ chi mm’’o ffa fa’…
La musica si arrestò dopo che Klaus ebbe premuto il tasto STOP.
È colpa tua, sei stato tu… Una voce che ben conosceva imprecava nella sua testa. Non accadeva di continuo, no. Udiva quella voce per giorni. Poi svaniva così com’era comparsa, quando era tranquillo. E poi tornava a farsi sentire. A volte passava solo poco tempo ma, se era fortunato, anche qualche anno. Era come un alternarsi fra il ricordare e il dimenticare, come se qualcuno lo colpisse da dentro ogni volta.
Stringeva fra le mani un ciondolo con il bordo in oro, con l’immagine di una trentenne. Solitamente lo portava al collo. A giudicare dalla foto si trattava di una bella donna, dalla carnagione scura e dai lunghi riccioli neri. Un sorriso che pareva essere sincero e gli occhi neri come la notte. Quella sera decise di voler dimenticare quegli occhi e di riporre il ciondolo in un cassetto. Giurò a se stesso che non lo avrebbe guardato mai più.
Non fu una decisione facile, ma si impose di troncare ogni legame con chi non occupava un ruolo importante nella sua vita.
Strappò la pagina di una rivista e si accorse che la copertina raffigurava un politico sui sessant’anni in compagnia di una ragazzina prosperosa e dalle curve perfette. Li osservò per qualche secondo, trovandoli disgustosi. Avrei dovuto fare il politico… Accennò un sorriso e tornò a fissare il ciondolo. Lo pose con cura al centro del foglio che aveva strappato. Incrociò per l’ultima volta quegli occhi, che per un lungo istante parvero cambiare. Un’esitazione che durò un battito di ciglia. Basta… Lo avvolse nella copertina della rivista e lo strinse forte nella sua possente mano. Lo ripose prima in una scatola, poi nel cassetto e fu l’addio per sempre.
Ricordò che in quello stesso cassetto conservava con gelosia una foto.
La cercò, e la trovò.
Era una foto che, solo a guardarla, gli trasmise una certa tristezza. Eppure gli piaceva. Bei tempi quelli. La fissava con gli occhi velati di lacrime, solo, fra le vecchie mura della sua casa, senza alcun bisogno di nascondersi da occhi indiscreti, a eccezione di quelli del suo gatto Ryu che non perdeva mai occasione per affilarsi le unghie sulle sue scarpe.
Non gli dava pace il suo eterno senso di colpa.
L’ultima foto. L’ultimo ricordo che lo ritraeva assieme al suo migliore amico. Due giovani squilibrati. Due giovani senza un vero lavoro e senza ambizioni. Salvatore con la sua vecchia cascata di capelli e il suo spirito da libero guerriero. E lui, che pesava almeno dieci chili in più. Aveva la barba folta e i capelli lunghi. È colpa tua! Quella maledetta voce comparve di nuovo fra i suoi pensieri e, mentre riponeva la foto nel cassetto, gli riportò il ricordo di quella notte. La notte della ribellione, la notte in cui era certo di non aver nulla da perdere. Era un bravo ragazzo, ma così orgoglioso da non accettare consigli né ordini da nessuno. Non era poi così bravo a badare se stesso come voleva dare a vedere, e credeva molto nell’amicizia.
Era stanco di guadagnare poco lavorando male e arrangiandosi. Non aveva mai digerito il fatto di dover fare il garzone in un bar. La cosa che più lo infastidiva era ritrovarsi con qualche spicciolo di mancia sul banco. Un altro stronzo che mi fa l’elemosina… Quella che era una cosa gradita per un qualsiasi barista, per lui era un’offesa. Valgo molto più di dieci centesimi! Si ripeteva con rabbia. Non ne poteva più di aspettare che la fortuna si ricordasse di lui. Dopotutto la fortuna non si aspetta, al massimo gli si va incontro. Non fu difficile convincere Salvatore, nemmeno lui era messo bene.
Abitavano a Napoli, una città dove la parola “lavoro” stona, e parlare di un’occupazione permanente sembra quasi una barzelletta. L’Italia in generale ha sempre funzionato così, fin dalla fine della seconda guerra mondiale.
«Siamo dei poveracci e non abbiamo nulla da perdere. Non dovesse andar bene, tutto quello che può succederci è tornare alla vita di sempre».
«Hai ragione Klaus. Ma spero non diventi un vizio».
«Non è mica colpa nostra se la vita è dura. Noi siamo bravi ragazzi, e poco fortunati. Io non voglio più lavorare per quattrocento euro al mese, e non mi pare che a te vada meglio lavorando con tuo padre al mercato». Fece notare Klaus al suo amico e continuò: «Il Dottor Esposito solitamente parte per il weekend e non è tipo da avere le telecamere in casa. Lui si fida del mondo e non mi sembra uno pauroso».
Si erano organizzati bene, ma non avevano calcolato alcun tipo d’imprevisto. Uno che abitava in una delle più importanti vie di Napoli non poteva essere un pezzente, e Via Petrarca ne era la prova: non si sarebbe di certo impoverito se gli fosse stato portato via qualche oggetto di valore, ma di sicuro non ne sarebbe stato nemmeno entusiasta. Spesso alcuni oggetti hanno un valore più affettivo che economico.
«Speriamo abbia dei soldi in casa, ci faciliterebbe il lavoro». Pensò ad alta voce Klaus.
La fortuna sembrava essere dalla loro parte. La strada era poco illuminata e non c’era nemmeno traffico. Potevano passeggiare indisturbati e godersi l’odore del mare. Quel panorama è fantastico di notte, tutte quelle luci nel mare, uno spettacolo. Napoli è un mucchio di cose belle sia di giorno che di notte. Di notte però il Vesuvio si nasconde. Lui è come uno di quei personaggi ai quali non può chiedere l’autografo, puoi semplicemente stare lì a guardarlo. Non è arroganza, è fatto così. Lui si esibisce solo di giorno… e che esibizione!
Nessuno dei due sembrava essere più così sicuro di volersi introdurre in quella casa. Ma avevano deciso ed entrambi avevano paura di mostrarsi troppo codardi se avessero proposto di tirarsi indietro. Il dottore aveva visto Klaus in tutte le fasi della crescita. Era stato lui a visitarlo, a curarlo, sin da quando era ancora in fasce e fu adottato dal suo migliore amico: l’avvocato Francesco Spina. Era nato a Cuba. Non aveva mai conosciuto i suoi veri genitori, né ci teneva così tanto a conoscerli. Gli era molto affezionato, tanto che lo chiamava zio Frank.
Oramai era troppo tardi per tirarsi indietro. I due amici erano già fuori all’enorme cancello grigio che recintava l’abitazione. Saltare dell’altra parte non fu difficile, il cancello era basso e persino quelli che non possiedono straordinarie capacità atletiche potevano oltrepassarlo, quindi non era il caso almeno per quella volta di scomodare Spider Man. Il vero problema era introdursi in casa. Tentare di aprire la porta d’ingresso era tutt’altro che facile. La porta non solo era blindata, ma anche molto pesante. Avrebbero fatto molto rumore se avessero tentato di aprirla, e non erano nemmeno poi così sicuri di farcela. La cosa migliore da fare rimaneva rinunciare ma guardando la finestra decisero che in qualche modo l’avrebbero aperta. Rompere il vetro o forzarla non sarebbe stato impossibile. Salvatore osservò tutto questo come fosse un gioco da ragazzi, nonostante la finestra fosse enorme e di legno massello. In passato, quando era stato un aiutante falegname, aveva montato diversi vetri, quindi aveva una certa dimestichezza nel toglierli silenziosamente. Aveva portato con sé uno scalpello dalla lama piccola e sottile, e, forzando un lato per volta la cornice in legno che teneva fermo il vetro sulla finestra, riuscì a toglierlo senza il minimo rumore, facendo attenzione ad appoggiarlo sull’erba con molta cautela. Era un vetro spesso, tagliente e pesante ma la cosa non creò molti problemi se non un taglietto invisibile sulla mano sinistra. L’importante era togliere quel vetro, introdurre la mano e girare la maniglia in senso orario. La finestra era aperta. Salvatore sorrideva soddisfatto del suo “lavoro” ˗ in meno di dieci minuti i due erano dentro. Sembrava la casa di Lara Croft tanto era grande. Klaus la conosceva bene: c’era stato tante volte con il suo padre adottivo. Al buio però non l’aveva mai vista e guardarla così gli sembrava inquietante. Erano certi che il loro sarebbe stato un colpo che sarebbe passato inosservato, dunque accesero la luce discorrendo tranquillamente a voce alta. Non erano per niente esperti come ladri, e si vedeva. La luce accesa mostrò lo stupore negli occhi di Salvatore. Il salone d’ingresso era molto grande. Le pareti dipinte d’azzurro chiaro, tappezzate da quadri di ogni genere: alcuni di grande valore, altri meno. Al centro era posto un divano in pelle di colore nero e di fronte un enorme schermo.
«Io prenderei quello!» esclamò Salvatore, indicando lo schermo. E sghignazzarono.
A destra del divano, appena qualche metro più avanti, c’erano quattro piccole colonnine che sorreggevano una piattaforma sulla quale era poggiato un grosso acquario.
«Fortuna che i pesci non parlano!» fece notare Klaus.
Agli angoli della sala, poi, erano disposte delle statue di gesso, alte più o meno un metro e mezzo. Erano imitazioni di opere famose, l’unica che loro conoscevano era quella che raffigurava il David di Michelangelo. Mi domando che bisogno ci sia di star nudo mangiando una mela… Pensò Salvatore osservandolo.
Al lato opposto una statua dall’aspetto grande e imponente, con un’enorme spada nella mano destra. Col braccio rivolto verso l’alto, la punta della spada verso il basso, uno scudo sul braccio sinistro, raffigurava Odino. Nell’angolo di fronte un’altra statua elegante e imponente, con una corona in testa, uno scettro nella mano destra e nella sinistra l’Emblema di Nike: la Dea Athena.
Ultima ma non meno importante: la statua di Maradona, divinità fra le divinità di grandezza naturale, situata a sinistra del David. Leggermente piegata sul ginocchio destro, con un pallone sulla punta del piede sinistro. Il Dottore se l’era fatta costruire da un amico che lavorava come operaio in una fabbrica di lavorazione di gesso. Amava Maradona. Dopotutto a Napoli chi non lo ama? Lo stesso Klaus, nonostante le sue origini cubane, e il suo nome tedesco lo venerava. Il suo padrino era tifoso del Napoli, e fin da piccolo lo aveva istruito con DVD e videocassette. Gli aveva narrato le grandi gesta di Maradona, e questo lo aveva fatto innamorare più di un qualsiasi scugnizzo del posto.
Dopotutto si sentiva napoletano, dentro e fuori, e non era così fiero delle sue origini.
Al lato opposto dell’acquario c’era una vetrina in arte povera, come del resto tutti i mobili della sala.
Lì dentro erano conservati calici antichi e una collezione di oggettini in Swarovski. Sull’ultimo vetro in basso c’era una collezione di accendini e portasigari in oro. Non erano poi così belli da vedere, ma abbastanza da far venire l’acquolina in bocca a due persone che tentano di svaligiare una casa.
L’oro non è importante che sia bello o brutto: il suo valore rimane tale, e quando entri in un appartamento per metterti a rubare se lo trovi realizzi che sei nel posto giusto. Era giunto il momento di mettersi a lavoro, in una sala d’ingresso così grande era difficile scegliere da dove iniziare. Considerando poi che la casa era bella grande da visitare, bisognava fare in fretta.
La fretta non è stata mai amica di nessuno, figuriamoci se improvvisamente si fosse potuta schierata dalla parte di due giovani coglioni travestiti da ladri. Klaus tirò fuori dallo zainetto, che aveva sulle spalle, un sacco nero e si diresse verso la vetrina. Iniziare da lì sembrava la soluzione migliore, anche perché se fossero riusciti a svuotarla ci avrebbero ricavato un bel po’ di soldi, e poi erano tutti piccoli oggetti quindi non era difficile metterli velocemente nel sacco. Salvatore invece preferì fare un giro per la casa. A lui interessava trovare soldi e si mise a cercarli. Il problema era sempre lo stesso: da dove iniziare? Le stanze erano tante e bisognava indovinare in quale fossero nascosti i soldi o altri oggetti di valore. Pensava di entrare nella camera da letto ma prima bisognava capire quale fosse la porta giusta. Alle stanze si accedeva da una scala che partiva dalla sala d’ingresso in cui aveva lasciato l’amico e, una volta salita la rampa di scale, sul ballatoio c’erano tre porte. Le scale erano rivestite da un tappeto rosso con i bordi dalle cuciture dorate, la ringhiera era di vernice dorata, in ferro battuto e faceva anche da balcone sulla sala. Notò che c’erano altre porte che dal basso non aveva visto e che in fondo al ballatoio c’era un’altra porta, non era illuminata e da com’era nascosta doveva essere il ripostiglio.
Non avevano calcolato gli imprevisti, non dovevano essercene, non potevano pensare ce ne fossero. Se solo non avessero avuto fretta, se non avessero contato su una fortuna che mai era stata loro amica…
Esposito era rientrato prima del previsto, o meglio non era riuscito a partire. Era tornato indietro per prendere il biglietto del traghetto che aveva lasciato sul comodino in camera da letto. Sarebbe rimasto a Procida per il weekend. Lì aveva una compagna: una sua vecchia amica dell’università con la quale aveva una relazione. Era divorziato e aveva iniziato quella relazione solo qualche anno dopo.
Attento e vigile rimase stupito quando varcò l’ingresso del suo cancello e vide le luci accese. Che strano… pensò. Ma dove ho la testa stasera? Si chiese aggrottando la fronte. Non si accorse del vetro a terra finché non superò il cancello. Fu allora che lo vide sull’erba e capì. Dev’esserci qualcuno in casa… Senza pensarci due volte e in preda alla paura chiamò la polizia usando un tono di voce moto basso. Decise di salire in macchina, e che sarebbe uscito fuori di lì solo all’arrivo degli agenti. Per fortuna o per caso l’aveva parcheggiata fuori. Era tentato di entrare per coglierli sul fatto ma aveva paura che fossero armati. Non sapeva nemmeno quanti fossero ma lui era quello che poteva definirsi un colosso. Era alto sì e no un metro e novanta, robusto e non era così bravo a fare a pugni. Dal suo bel viso da bravo ragazzo si capiva subito che era un Dottore. Alcune persone nascono per fare certi lavori e lui con quel pizzetto rasato e i capelli ben pettinati sembrava proprio fatto apposta. Aveva quarant’anni e l’unica cosa che gli era riuscita male nella vita era stato il matrimonio. Aveva sposato una donna avida e assetata di denaro, che più che il marito amava il suo conto in banca. Trascorsero al massimo cinque minuti ed era già stanco di aspettare, così prese coraggio e decise di entrare camminando a passo felpato cercando di aprire la porta senza fare rumore. Voleva vedere in faccia chi era entrato nella sua casa, chi aveva osato violare il territorio di una persona così buona e amata da tutti. Si sentiva protetto dal fatto che da lì a poco sarebbe arrivata la polizia e si convinse di non avere nulla da temere. Era dentro. Non ho mai visto dei ladri così stupidi da entrare in un appartamento e accendere la luce… Fu la prima cosa che gli venne da pensare. Si girò in direzione della vetrina con le sue collezioni e fu allora che vide un ragazzo di spalle accovacciato a terra, mentre metteva gli oggetti uno per volta in un sacco. Dalle spalle larghe e i capelli lunghi non ci mise molto a riconoscerlo: «Klaus!» gridò istintivamente. Il cuore prese a battere più forte, quasi volesse scoppiargli in petto. Quella che l’aveva chiamato non era la voce di Salvatore, ma l’ultima che avrebbe voluto sentire fra tutti gli abitanti del mondo.
«Zio Frank… Posso spiegarti tutto…»
Tentò di balbettare con voce tremante nel tentativo di convincerlo che si stava sbagliando, ma era tutto molto chiaro. Il terrore si leggeva nei suoi occhi mentre fu invaso dai ricordi.
Ricordi di suo padre e Zio Frank che lo portavano allo stadio a vedere le partite del Napoli e poi i compleanni, le gite, le grigliate e le giornate al mare.
«Non chiamarmi zio, non sono tuo zio…» L’uomo aveva quasi le lacrime agli occhi, tanta era la collera.
«Questo a me non dovevi farlo». Aggiunse con la voce tremante.
La sua espressione era triste non perché gli stavano svaligiando casa ma per l’enorme dispiacere di scoprire chi fosse quel ragazzo, dopo che l’aveva cresciuto quasi come un figlio.
«Cosa dirà tuo padre, quando saprà che sei venuto a rubare in casa mia?» disse stringendo i pugni, poco prima di cadere a terra tramortito. Non ebbe il tempo di aggiungere altro. Salvatore era sbucato silenziosamente alle sue spalle, aveva sentito tutto e lo aveva colpito violentemente alla testa più volte con una mazza da baseball. L’aveva trovata in quello che aveva immaginato fosse un ripostiglio.
«Fermati Sal, così lo uccidi!» aveva gridato Klaus incredulo e spaventato da ciò che aveva visto mentre il suo corpo tremava vistosamente.
Salvatore aveva paura di finire in prigione, e se la polizia li avesse scoperti, la loro reputazione di “bravi ragazzi” sarebbe finita.
Era ormai troppo tardi. Il pavimento era già un lago di sangue che era schizzato anche sui vestiti di Salvatore. Il povero Dottore era già morto prima che Klaus ordinasse a Salvatore di fermarsi
«Sei un pazzo! Perché l’hai ammazzato?» gridò ancora Klaus spaventato.
«Non lo so, cazzo! Non lo so! Ma almeno così non potrà chiamare la polizia, prendi la roba e andiamo via!» Salvatore non sembrò essere in preda al panico ma solo piuttosto sorpreso di quello che era stato capace di fare. Mai avrebbe pensato di uccidere una persona.
Klaus scattò in piedi e si diresse correndo a tutta velocità all’uscita del cancello. Girò subito l’angolo e si appoggiò con la schiena al muro. Aveva il fiatone e tremava di paura. Come era potuto succedere? Come gli era saltato in mente di entrare in casa dello zio Frank? Strinse forte i pugni, tentò di trattenere le lacrime e tirava continuamente su col naso. Corse per qualche altro metro poi si fermò ad aspettare che Salvatore lo raggiungesse, sperando che con un po’di fortuna sarebbero tornati alle loro abitazioni.
Non fu così. Salvatore scacciò via le paure e, sentendosi un killer professionista, diede stupidamente un’altra occhiata in giro prima di uscire.
Perse troppo tempo: non fece in tempo a oltrepassare il cancello che si trovò di fronte a due agenti di polizia che lo bloccarono subito. Inizialmente tentò di opporsi ma realizzò che con le macchie di sangue che aveva addosso nessuno gli avrebbe creduto, poi era rimasto solo e chi altro poteva incolpare se non l’amico che era fuggito?
Ci misero poco a notare il sangue sui suoi vestiti, così altri due agenti si diressero in casa per accertarsi delle condizioni del Dottore. Fecero subito la macabra scoperta. Il fuggitivo, nel frattempo, aveva notato le luci blu lampeggiare nei pressi dell’abitazione e pregò che Salvatore fosse riuscito a fuggire. Si sentì un egoista ma non voleva finire in prigione. Per zittire il senso di colpa si convinse che l’amico era una persona intelligente e responsabile, e che fosse troppo furbo per essere rimasto ancora dentro casa.
Solo il giorno dopo scoprì che era stato arrestato per furto aggravato e omicidio colposo.
Al poveretto furono inflitti vent’anni e né con il suo avvocato, né con gli agenti, né al processo fece mai il nome di Klaus. Si era addossato tutte le colpe: un vero amico. Vent’anni da scontare in totale solitudine. Klaus, invece, avrebbe potuto vivere da uomo libero, e tornò da subito alla sua vita di sempre. La sua fu un’interpretazione da oscar quando varcò la soglia del bar in cui lavorava e lesse il titolo sulla prima pagina del giornale: “NOTTE DI SANGUE”.
Si finse stupito alla notizia dell’amico e non riuscì a trattenere le lacrime. Solo lui sapeva che esprimevano la sua tristezza, il suo senso di colpa. Due persone alle quali era molto legato avevano fatto una brutta fine e tutto a causa di una sua idea. La paura tornò di nuovo ad invadergli il cuore, non voleva essere scoperto e temeva che da lì a poco sarebbero venuti a prenderlo perché Salvatore aveva, o avrebbe, fatto il suo nome. Così non fu.
Ne erano passati di anni da quella maledetta notte, Klaus lavorava ancora in quel bar, che aveva cambiato gestione, e quella fu la sua fortuna. La sua paga era aumentata ed era perfino stato inquadrato. Viveva una vita tranquilla o quasi, ormai sicuro che nessuno potesse più scoprire la verità.
Salvatore prima o poi sarebbe uscito e avrebbe potuto vendicarsi. Avvertiva tuttavia un forte desiderio di rivederlo, di riabbracciarlo e sapere come se la passasse in carcere anche se in tanti anni non era mai andato a trovarlo. Temeva che se fosse andato avrebbe potuto farlo arrabbiare e quello avrebbe detto tutta la verità condannando anche lui.
Allora si limitò ad accantonarlo fra i suoi ricordi. Osservò ancora a lungo quella foto, poi con un’espressione triste quasi da funerale la ripose nel cassetto, lo chiuse e premette nuovamente il tasto PLAY dello stereo.
Siente fa’ accussì
nun dà retta a nisciuno
fatte ‘e fatte tuoje
ma si hê ‘a suffrì’
caccia ‘a currea.
Siente fa’ accussì
miette ‘e ccriature ô sole
pecchè hann’’a sapè
addó fà friddo
e addó fà cchiù calore.
La paura non è altro che un potenziamento dei sensi
«Ahaaa! Si mangia male qui! Sebastian, domani cambiamo ristorante», sghignazzò.
Era una sala molto ampia, grande quasi quanto un appartamento, ma senza nessuna parete divisoria né una finestra. Il clima era sempre lo stesso e la puzza di chiuso, seppur forte, non si avvertiva più così tanto. L’igiene lasciava a desiderare, le pareti erano ingiallite e piene di crepe: per essere un ristorante quel posto non era un granché. Alcuni non ricordavano nemmeno da quanto fossero chiusi lì dentro, altri si fermavano per poco. L’unica certezza era che nessuno poteva andarsene prima di quanto stabilito dalla legge, che per molti equivaleva quasi a tutta la vita vissuta fino ad allora.
«Cameriere, si può almeno avere una bottiglia di buon vino?» rise portandosi un fazzoletto alla bocca.
I presenti erano disposti attorno ad un lunghissimo tavolo, ogni giorno si aveva la sensazione di assistere a una di quelle cerimonie in cui il festeggiato vuole essere al centro dell’attenzione. Una cerimonia di soli uomini, che non sarebbe finita tanto presto. Né sarebbe stata allietata dalle soavi note di qualche musicista, popolata di gente vestita bene o quasi.
«Magari potessimo cambiare ristorante…» rispose con un ghigno Sebastian. «E dove avresti intenzione di portarmi?» chiese ancora.
«In un Irish pub, ci abbuffiamo e se ci va bene ci godiamo un po’di musica dal vivo… e una bella bionda… ehm… una birra intendo! E perché no… una bionda vera!»
«Beato te che riesci a essere così allegro, Salvatore» rispose Sebastian guardandosi intorno.
Abbassò rassegnato lo sguardo osservando con disgusto il piatto vuoto che aveva davanti a sé. Balzò su con la testa un attimo dopo, sentendosi arrivare una pacca sulla spalla sinistra.
«Ehi… lascia che la vita faccia il suo corso! Non prenderla così, non siamo messi poi così male. Siamo qui, vero. Ma che ne sai se al di là di queste mura saremmo stati meglio? Guardala da un’altra prospettiva: hai un amico adesso, un compagno di cella. E poi il tempo è un figlio di puttana, scorre veloce, inesorabile. La cosa bella è che non lo si può fermare e su questo nessuno potrà fregarci. Siamo qui mio caro Sebastian, il tempo passa, ma noi dobbiamo continuare a vivere!» gli rispose il ragazzo.
Lo guardò stupito, dritto negli occhi, e quello accennò perfino un sorriso, come se stare chiusi lì dentro fosse addirittura piacevole.
«Stento a credere che uno come te sia finito qui dentro…» disse Sebastian
«Avevo ancora i capelli allora, ah ah ah…» Salvatore sghignazzò, e lo sguardo era quello di uno che nascondeva qualcosa.
I loro occhi si incrociarono e uno li abbassò, intimorito. Quei pozzi scuri e profondi avevano tanto da dire. Guardandoli si percepiva uno stato d’animo che non era quello allegro che si ostinava a mostrare. Ma era fatto così: non gli piaceva rivelare i suoi punti deboli, cercava di guardare il lato positivo di ogni situazione, anche quando pareva disperata. Questo dava coraggio a sé e spesso anche a chi lo circondava. C’era poco da essere ottimisti lì dentro e tanto valeva farsi degli amici. La sua espressione tornò seria e poggiò nuovamente la mano sulla spalla sinistra del suo compagno di cella che quasi s’imbarazzò.
«Passerà, è inutile avere fretta. Vivi, Sebastian, vivi ché la vita va vissuta con calma, se la vivi in fretta scorre veloce e se scorre veloce si invecchia presto» aggiunse con un sincero sorriso.
Gli strinse la spalla con forza e lui, ricambiando il sorriso, quasi si sentì rincuorato.
Era diventato il suo migliore amico, era stato il primo compagno di cella e lo era ormai da quindici anni. Avevano più o meno lo stesso fisico ma Salvatore era più sicuro di sé e sembrava non temere nessuno.
Spalle larghe, alto e robusto ma a differenza del suo compagno di cella era ormai pelato come una palla da bowling. La sua testa era così lucida che se la si guardava per ore ci si poteva perfino trasformare in un lupo mannaro, tanto somigliava alla luna. Era sempre pulito e in ordine. Amava farsi la barba tutti i giorni, e portava il pizzetto lungo in stile Shavo Odajian dei Sistem of a down. Non sopportava che la peluria di un giorno potesse rovinare l’estetica del suo viso; e poi là dentro qualcosa bisognava pur fare!
Sebastian, invece, conservava i suoi capelli corti e neri, rasati sulla nuca e leggermente ondulati. Portava la barba di una decina di giorni ma sempre ben curata e un paio di occhiali. Un trentenne che, come Salvatore, aveva deciso di buttare via la sua vita in una cella.
Era un esperto d’informatica. Fino a che non era stato portato lì aveva vissuto facendo truffe in rete a danno di poveri malcapitati che inviavano denaro nella speranza di incontrare l’amore della propria vita.
La bella bulgara, fredda di giorno e bollente di notte… e ce n’erano di stupidi che abboccavano.
Bastava una mail che riportasse a tutti lo stesso testo, un copione scritto:
Ciao io ragazza di Bulgaria di famiglia povera. Visto tue foto su internet e vuole conoscere te. Io vuole venire in tuo paese…
Allegate a queste mail c’erano foto di belle ragazze in intimo o in costume da bagno e il più delle volte qualcuno ci cascava, rispondendo alla mail. Innescando un meccanismo di botta e risposta fino a far sì che la bella straniera lasciasse i dati per un versamento, il malcapitato li versava felice di aver trovato l’amore e puntualmente ne rimaneva deluso poiché dopo il versamento le mail non arrivavano più.
Era difficile da credere ma esistevano ancora persone che cadevano in tranelli così stupidi.
Il silenzio calò all’improvviso, interrompendo il brusio e le risate che si udivano. I detenuti si voltarono tutti verso la porta d’ingresso della mensa, qualcuno sorrideva fiero e qualcun altro abbassò la testa intimorito. Sembrava la scena di un film, dove, nel bel mezzo di una giornata tranquilla, c’è il colpo di scena seguito da una musica inquietante.
In una scenografia del genere un normale spettatore si aspetterebbe un terrorista che in pochi minuti facesse fuori i presenti con un mitra. L’espressione di tutti divenne seria. Il grande uomo era fermo sulla porta. “Il mammasantissima”, il boss, l’uomo che tutti dovevano temere, colui che con una parola, un comando, poteva effettivamente seminare il terrore. Un uomo che, nonostante il suo aspetto goffo, veniva rispettato da tutti. Era più o meno alto un metro e sessanta, con una pancia così prominente che se l’avesse visto un bambino l’avrebbe scambiato per Il Mago Pancione. Le sue gambe, così poco proporzionate al corpo, lasciavano presagire che potesse cadere da un momento all’altro e, come se non bastasse a renderlo più ridicolo ancora, testa e corpo erano un tutt’uno. Probabilmente i genitori si erano dimenticati di fargli il collo. Eppure costui era considerato il più forte. Erano soliti alzarsi tutti quanti in piedi quando quell’uomo faceva il suo ingresso in sala, un po’ come quando a scuola entrava il Preside in classe. Quel giorno non fu così. Tutti si limitarono ad osservarlo pietrificati, come se nessuno sapesse cosa fare. L’uomo non badò a questo inconveniente e preceduto dalla pancia si avvicinò al tavolo e volle sedersi di fronte a Salvatore. Sebastian lo guardò per un attimo sperando che l’amico potesse incrociare il suo sguardo ma Salvatore stava fissando il boss senza accennare minimamente a smettere.
«Vedo che non ti faccio nessuna paura, pidocchio!» sussurrò don Luigi guardandolo.
Lo fece con meno intensità e convinzione di come era solito fare, quasi come fosse lui ad avere paura.
Portò una mano sulla guancia sinistra, e simulò di accarezzarsela. In realtà il suo era solo un modo per intimorirlo e fargli capire che la cosa non sarebbe stata archiviata. Un uomo di così grande potere non poteva accettare di farsi umiliare da un comune mortale, men che meno da una brava persona come quel “pidocchio”, che pure mai si era fatto comandare da altri che non fosse suo padre. Non chinava la testa dinanzi a nessuno, anche se questo avesse dovuto significare morire fra atroci torture. Era orgoglioso, oltre che testardo, e nessuno poteva dirgli cosa fare se non chiedendoglielo con gentilezza.
Il boss aveva subìto da Salvatore un grave affronto. Solo il sangue avrebbe potuto lavare un’offesa del genere. Un gesto sconsiderato che nessuno si sarebbe mai sognato di fare.
don Luigi era stato trasferito in quel carcere da poco, dopo dieci anni di lontananza. Non conosceva tutti i detenuti ma questo non era affatto un problema per lui; l’importante era che tutti conoscessero lui e che conoscessero le sue regole: baciare il grosso anello che portava al mignolo, quando porgeva la sua mano sinistra. Quel ragazzo era un viso nuovo per lui e il giorno prima, durante l’ora d’aria, aveva cercato di umiliarlo davanti agli altri, porgendogli la mano per la solita procedura. Salvatore lo aveva sfidato guardandolo dritto negli occhi e sghignazzando. Quel rifiuto gli era costato qualche minaccia e qualche insulto che erano stati subito zittiti con uno schiaffone così forte da fargli girare la testa da un lato, proprio sulla guancia sinistra che in quel momento si carezzava. Salvatore aveva mani grosse, pesanti e callose. Tutto era stato velocissimo sotto lo stupore di tutti e si era placato per l’intervento delle guardie carcerarie.
«Non vedo perché dovresti farmi paura…» Lo affrontò esattamente come il giorno prima, mentre l’amico lo guardava con ammirazione, ma anche con timore: «L’unica cosa che potrebbe spaventarmi è il tuo aspetto, manco Dario Argento li fa così…»
Quest’ultima esclamazione fece scoppiare la platea, che stava assistendo al confronto, in una grossa e inaspettata risata, smorzata subito dal pugno che don Luigi batté sul tavolo. Era pur sempre il boss ed esigeva rispetto, invece per la seconda volta in due giorni era stato ridicolizzato. L’uomo aggrottò la fronte e rimase in silenzio, non poteva dare a vedere che l’insulto l’aveva toccato.
Era necessario correre ai ripari prima di perdere la faccia: una cosa del genere in un carcere poteva significare solo peggiorare la situazione e scontare il resto della pena sottomesso a tutti. Don Luigi era il capo di una delle famiglie più potenti della città, tutti dovevano temerlo, non poteva permettersi certe umiliazioni: l’avrebbero fatto fuori dopo anni di dominio, schiacciato come uno scarafaggio. In certe famiglie funziona così: finché sei il boss tutti ti rispettano fino a leccarti il culo ma alla minima umiliazione devi levarti di mezzo, diventi un’umiliazione per la famiglia.
Lo sguardo di Salvatore era così fermo che lui stesso fu sorpreso dal lasso di tempo durante il quale riusciva a stare senza battere nemmeno le palpebre. Il suo avversario aspettava di vederlo abbassare lo sguardo, per poter vantare una vittoria su di lui, era evidente che non conosceva Salvatore, non aveva idea di quanto fosse orgoglioso e testardo e soprattutto non aveva idea di quanto detestasse i soprusi. Persa la sfida, don Luigi si alzò facendo stridere forte la sedia, andò via borbottando qualche minaccia ma nulla che potesse intimorire il coraggioso Salvatore. «Te ne pentirai!» Fu l’unica frase che si udì chiara e che non fu pronunciata nemmeno ad alta voce, quasi come fosse lo stesso boss ad avere paura di esprimersi.
La frase restò sospesa per un po’ nel silenzio della sala: romperla con una risata avrebbe significato ridicolizzarlo davvero troppo, ma la tentazione era tanta e forte.
«Tu sei pazzo!» gli disse Sebastian sorridendo. «Ma lo sai quello chi è?» continuò nel tentativo di allertare l’amico.
«Certo che lo so e non me ne può fregar di meno! ˗ disse sicuro e senza curarsi di trattenere il sorriso ˗ Non riesco proprio ad accettare il fatto che un uomo dall’aspetto così ridicolo debba farmi paura. Ammesso che si possa definire un uomo. Sai come sono fatto, non sopporto la prepotenza, non tollero proprio che possa esistere gente che si sveglia una mattina e decide di comandare: mi piace pensare che ognuno debba e possa vivere la propria vita senza rotture di palle». Diede uno sguardo intorno dopo l’ultima affermazione, sentì su di sé gli sguardi adirati di alcuni detenuti ma nemmeno in quell’occasione se ne curò.
«Questa è gente che non scherza e qui comandano loro, non puoi dimenticarlo». Sebastian volle ribadire il concetto, come se ci fosse un regolamento da rispettare.
«È qui che ti sbagli. Napoli non è camorra, ma tante altre belle cose che per elencarle non basterebbe un libro!»
«Se tutti facessero come te saremmo un popolo di ribelli contro i camorristi».
«Beh, non avrebbero la stessa forza, al massimo si ammazzerebbero fra di loro» si portò una mano al mento come a voler pensare: «Perché appropriarsi di un territorio, farne il proprio feudo, seminare terrore e poi vivere come topi nelle fogne? Impossessarsi di denaro macchiato di sangue, per poi stare nascosti e non poterlo spendere?» Fece una pausa «Che stronzi sti camorristi!» aggiunse sul finale e quest’ultima esclamazione fece sorridere l’amico di cella ma irritare ancora i presenti in sala che ascoltavano con attenzione come se a parlare fosse un profeta. Si guardavano e parlavano sottovoce indicandolo con sguardi minacciosi.
In un carcere bisogna stare attenti a quello che si dice, non si sa mai chi si ha di fronte. Non tutti i malviventi sono ridicoli ma di sicuro nessuno è normale. Salvatore era fatto così: ribelle e provocatore.
«Bambini è ora di tornare in classe!» Una voce autoritaria ma simpatica proveniente dall’ingresso della sala: un detenuto sui generis, uno che in carcere ci era andato di sua spontanea volontà e che poteva entrare e uscire a suo piacimento, secondo i turni. Sempre meglio che farsi rinchiudere in una cella fredda e buia.
Spalle larghe, corporatura robusta, testa pelata e pizzetto alla Zorro, era Roberto, la guardia carceraria: «Su, fate i bravi se non volete che vi prenda a calci in culo!»
«Stai calmo! Maledetto raccomandato… un giorno di questi me ne torno a casa!»
«Ah ah ah… spero lo farai al più presto, sarei felice per te! ˗ gli rispose ridendo e stringendo la mano ˗ Lo sai che non mi piace vederti qui!»
Uno degli appuntati meno arroganti era sicuramente lui. Ai detenuti risultava persino simpatico. Scambiava spesso battute con loro e in particolar modo con Salvatore, suo vecchio compagno di scuola ai tempi delle superiori. Sapeva anche essere severo ma con lui non ci riusciva, considerava assurdo dover fare una ramanzina a un vecchio compagno di banco, con il quale condivideva il ricordo della splendida Jasmine. Lavorava in quel carcere da dieci anni: poteva considerarsi un detenuto. Aveva sempre desiderato essere un uomo in divisa e le aveva provate tutte. Di concorsi ne aveva fatti e tanti, alla fine aveva deciso di optare per la soluzione più veloce che risultò anche la più efficace: un paio di cospicue bustarelle alle persone giuste ed ecco che aveva vinto il concorso. Procedura illegale, certo, ma non era facile trovare lavoro in Italia dove i giovani valorosi venivano scavalcati dai raccomandati, dei quali decise anche lui di far parte. Accettò il sacrificio di stare qualche anno lontano dalla sua città e dalla sua famiglia. Di nuovo qualche bustarella e, in men che non si dica, fu trasferito a Napoli. Salvatore lo chiamava il Detenuto libero, un soprannome che gli strappava quasi sempre un sorriso, a volte amaro perché era la verità.
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