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Quiescenza

Quiescenza
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Consegna prevista Luglio 2024
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«Il guaio della morte è che bisogna arrivarci vivi: si impegni, mi raccomando!», gli aveva detto ammiccando Robert Hooke, il Matto, subito prima di balzare nella pioggia con un ombrello giallo ermeticamente chiuso.
Sul momento, John Marsden era rimasto contrariato, ma, più di una decina di anni dopo, da ex comandante della polizia di Londra, seduto sull’arenile della costa est dell’Inghilterra, quell’episodio l’aveva fatto improvvisamente ridere, allontanando la sensazione di monotona ripetizione che rendeva i giorni recenti il preludio del momento in cui sarebbe diventato “cibo per i vermi”. Se solo fosse stata ancora viva sua moglie Marion….
Quando, a mesi di distanza, lo conobbi e mi raccontò del suo ultimo caso, dell’ambiguo biglietto dell’avvenente ispettrice Patmore e della decisione che aveva preso, al ricordo di quella buffa perla di saggezza rideva ancora e – pare il caso di dirlo – nonostante tutto.

Perché ho scritto questo libro?

Potrei rispondere che scrivere è una necessità, una liberazione, un piacere, una gioia, a volte anche un dolore (tutto vero); è un viaggio con il lettore.
Ogni risposta, però, è incompleta: la verità è che, appena ho visto chiaramente John Marsden, il suo mondo così vivido e vicino, ho capito di non poter fare a meno di raccontarne la storia, che, in fondo, è un po’ la storia di tutti.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Primo Intermezzo

Quiescenza

John Marsden sedeva su un rugoso tronco, buttato là in mezzo alla rena, sulla spiaggia di Mablethorpe, una cittadina all’apparenza ugualmente rovesciata, essa nolente, sulla costa est dell’Inghilterra.

Alla fine era partito dopo una lunga serie di conversazioni con la figlia Adaline, durante le quali lei l’aveva pregato di “forzare” sé stesso, di buttarsi, sicura che non fosse solo una questione di “aver bisogno di tempo”. Aveva quasi litigato con sua figlia, nonostante il bene che le voleva e la paura di perderla nuovamente.

Improvvisamente, sentiva di nuovo paura: “ma io ho bisogno di tempo”, cercava di schermarsi. Cosa credeva Adaline? Che di punto in bianco si buttasse, solo, in una nuova avventura? Era vecchio, ormai persino pensionato: che lo lasciasse respirare, affrontare un problema alla volta, vivere una vita tranquilla, senza ansie.

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Quando “per l’ennesima volta” lei l’aveva supplicato di considerare “uno svago, un viaggio o un interesse” perché era preoccupata per lui, John Marsden aveva iniziato a ticchettare con il dito sul bordo della sedia, innervosito. Si sentiva in trappola e stava per urlarle il suo disappunto, per intimarle di mollare un po’ la presa, quando ricordò quell’impastato “pregna come una giumenta” di parecchi anni prima. Sbarrò gli occhi e respirò profondamente, mentre rivedeva mentalmente l’immagine della figlia che, al secondo anno di psicologia, entrava in casa trascinando per il polso un giovane ragazzo castano, fasciato in una maglietta con una camicia bordeaux portata a modi giacca, e senza tanti saluti lo presentava come il suo ragazzo Conrad, aggiungendo, più o meno con la stessa nettezza, che era incinta di lui. Quella notte, era scomparsa la terza vittima del serial killer di Wolverhampton square e John Marsden era un po’ agitato (“e parecchio ubriaco”): aveva superato il limite, e non di poco (ricordava ancora gli occhi sbarrati di Marion).

«Lo dico per te, papà. Mi dispiace profondamente che tu passi le giornate nella noia quando potresti…».

La voce di Adaline si era fatta lontana e soffusa. “Noia? Da quando sono diventato noioso?”, si era chiesto John Marsden. Forse andando in pensione, d’altronde prima aveva un gran daffare. “Uhm, però, anche prima, tolto il lavoro…”; pace. Il colmo, però, era che lui aveva sempre sostenuto “mi riposerò quando sarò morto” e, invece, in un mese dalla pensione quale delle “mirabolanti fantasticherie” a lungo accumulate in quarant’anni di lavoro aveva realizzato? “Nessuna”, aveva concluso. “Eh, buondì!”, avrebbe chiosato Marion a sottolineare l’ovvio, prima di aggiungere “datti una svegliata!”.

Lontano in mezzo al mare si distingueva dalle numerose luci la mole di una grande nave, un mercantile o una nave da crociera; nella foschia non si riusciva a vederla bene.

Durante un’altra chiacchierata, Adaline gli aveva scherzosamente consigliato una “crociera da vecchietti”, e John Marsden rideva di gusto, quando in fondo gli venne da domandarsi se seguire il consiglio della figlia; tanto “molto di meglio non ho da fare”. Sì, decise che avrebbe fatto quel viaggio, improvvisamente gli parve di poterlo fare: non avrebbe rischiato nulla da solo, e almeno si sarebbe svagato e avrebbe avuto qualcosa da raccontare. E così era partito.

La ripetizione e la monotonia avevano dilatato i tempi e pasticciato le linee che distinguevano i giorni. Con il congedo i ritmi si erano rallentati e i ricordi erano sfumati: le ultime cose che collocava chiaramente nel tempo erano le risate dei suoi colleghi e sottoposti alla festa di addio; il resto vagolava qua e là, instabile, nella vasta prateria di giorni “seguenti”.

“L’ho fatto – per carità! – ma quando?” era una domanda frequente se gli capitava la necessità di collocare temporalmente qualche sua azione. ‘Oggi’, ‘ieri’, ‘l’altro ieri’ erano concetti affatto sfumati in un flusso temporale più continuo che mai, ora che il pensionamento aveva levato gli indicatori, i “delineatori di margine” come li si chiamava nei verbali di polizia, che scandivano il passare delle settimane. Via la serenità del sabato mattina, primo giorno del weekend, via il concitato lunedì, il ritorno al lavoro – tutto ormai succedeva “per carità! Ma quando?”.

John Marsden si scosse e si soffermò a fissare le onde, il loro lento e ritmico sciabordio: gola, cresta, riccio e risacca; gola, cresta, riccio e risacca. L’acqua giungeva sulla spiaggia ritmicamente, sempre la stessa acqua – “più o meno” – disegnava sempre le stesse forme; avanti e indietro, e così via. “Tutte le onde sembrano uguali: hanno tutte un riccio con la cresta chiara e poi tornano nel mare”, pensò – il tempo e l’ozio dovevano averlo reso filosofo. Rise di una risata appena accennata, appena un sibilo ad esprimere l’ironia: “se mi vedesse Marion, non ci crederebbe”.

Ma Marion è “cibo per i vermi”, e d’improvviso la moglie gli mancava follemente: per qualche momento, gli parve di sentirne l’odore, la voce e la risata. Gli pareva quasi di rivederla lì accanto a lui su quel tronco e di poterci conversare.

“Ma cosa dico?! Sto impazzendo”.

John Marsden si passò la mano sul viso e poi su tra i capelli a spazzola. Tra le dita rimasero impigliati alcuni filamenti argentei. Persino l’ex comandante, a quella vista, dovette convenire che, nella sua pigra circolarità, il ripetersi della routine da pensionato aveva rallentato il ritmo della vita: i giorni, alle soglie della vecchiaia, erano ormai uguali, indistinguibili come se fossero un unico grande giorno che preludeva alla fine, “a quando si diventa t-t-terriccio p-p-per le piante”.

Il vento prese a soffiare più forte, fendendo la spessa coltre di nubi che schermavano dal sole la cittadina di Mablethorpe. Era pomeriggio inoltrato, e qualche raggio rifrangeva sull’acqua mossa e sulle creste delle onde, ora più piccole, ora più grandi, a seconda dell’intensità del vento che le generava.

Più o meno in quel momento accadde qualcosa di assolutamente imprevisto e imprevedibile: una bombetta nera come navigando a vela, in un senso del tutto balzellante e inusuale, attraversò rotolando l’arenile – con licenza della fisica e delle grandi leggi umane –, catturando, anzi calamitando l’interesse dello stanco John Marsden.

“Toh, ve’! C’è una bombetta che salta!”.

La bizzarria di quell’avvenimento del tutto inaspettato condusse John Marsden ad alzarsi – dal formicolio delle gambe era seduto in una scomoda posizione da lungo tempo – e a rincorrere per cercare di prenderlo quello strano ufo di origine fin troppo terrena che schizzava qua e là parallelamente alla battigia.

Ci impiegò un po’, ora correndo da un lato, ora invertendo bruscamente la direzione, ma alla fine acchiappò il disco di feltro: era appena inumidito e un sottile strato di sabbia si era appiccicato sul bordo e sotto la tesa, dove il cappello aveva toccato la sabbia.

“Ma da dove sarà volata?”. Dopotutto, pareva in ottime condizioni. John Marsden ruotò attorno lo sguardo, ma non vide alcun luogo da cui potesse essere arrivato un simile oggetto.

“Forse dal lunapark”. Eppure il parco dei divertimenti per bambini pareva lontano (in direzione opposta a quella seguita dalla bombetta), e in tutta sincerità quel cappello era di ottima fattura, troppo costoso per essere un attrezzo di scena.

“Ma via, via… chi porta più una bombetta ai giorni nostri? Nessuno”.

Ma, a pensarci bene, nemmeno questo era vero: qualcuno l’aveva conosciuto, poco dopo la morte di Marion, nemmeno troppi anni prima. Era stato quell’avvocato di Cambridge, quello strano – “Robert… Uhm, come il fisico… Ah, già: Hooke!” – che chiamavano “il Matto”; l’aveva conosciuto… “ah, già! Durante l’indagine per i gelati avariati che l’altro seguiva per conto della parte civile”.

«Che soggetto curioso!», si scoprì a dire ad alta voce con un sorriso.

“Quel tizio era un inguaribile ottimista”, o così lo ricordava. Una volta conclusa l’indagine (non avevano trovato niente, a quanto pareva la querela era infondata), quel Hooke era andato da Marsden che passeggiava nel corridoio nervosamente – aveva pur sempre “perso” la “caccia al cattivo” – e, datagli una pacca sulla spalla, aveva detto: «E via! Sorrida! Alla fine non trova che sia meglio così? Vorrà dire che nessuno ha mangiato gelato malsano». John Marsden c’era rimasto di stucco, contando che probabilmente l’avvocato di parte civile era quello che ci perdeva più di tutti dal “fallimento” delle indagini.

“Ah, poi c’era quell’altra volta della pioggia: tutti attenti a non bagnarsi neanche la punta di una scarpa, e quel Robert Hooke era andato a casa a piedi con un ombrello giallo fosforescente, chiuso e attaccato al polso”. Il giorno dopo Marsden gli aveva chiesto come mai l’avesse fatto e quello, del tutto stupito, gli aveva risposto: «Perché non avrei dovuto farlo? In fondo, a me piacciono la pioggia e quell’odorino magnifico di erba bagnata». “Tutto perfettamente coerente”, sembrava chiosare l’avvocato sollevando un sopracciglio e aprendo la bocca in un sorriso sornione.

A John Marsden, che stringeva la bombetta sulla spiaggia di Mablethorpe, venivano le lacrime agli occhi dal ridere: era da un po’ che non faticava così tanto a trattenersi.

“Per poi non parlare di quando si è presentato il primo giorno”: tutti truci, chiusi in uno stanzino buio e lui era entrato indossando un completo Principe di Galles a trama rossa e verde, una bombetta e un paio di scarpe da ginnastica bianche (Marsden aveva scoperto in seguito che era la sua “tenuta da lavoro” per “curare la brutta malattia”). Li aveva guardati tutti a lungo negli occhi, sollevando il sopracciglio destro, ma senza una parola, sino a che, ad un tratto, aveva detto: «Proprio come pensavo. Quest’aria chiusa vi ha fatto male: siete tutti troppo seri, tutti effetti della brutta malattia. Infatti, credo vi serva ridere; e poi oggi è domenica. Per fortuna che ho portato i dolcetti!».

Quella bombetta l’avrebbe tenuta, dopotutto era una sorta di souvenir di viaggio che gli ricordava il Matto, Sir Robert Hooke, un avvocato brillante, ma anche “un tizio veramente strano e simpatico”, uno di quelli che, con lo stesso tono sorridente, fanno battute e regalano perle di saggezza. E a John Marsden, immerso nel vento e nella sabbia, sull’arenile di Mablethorpe venne voglia di rincontrarlo. In fondo, era nato… “il primo settembre 1939: non è nemmeno così vecchio!”.

Si stupì di quanto prontamente avesse ricordato quella data, non meno che nel rammentare come l’aveva appresa.

«Non fu una data così brutta per tutti – sempre che esistano giorni assolutamente belli o brutti, cosa di cui non sono per niente convinto. Certo, in Polonia iniziava la Seconda Guerra mondiale, ma a casa mia si festeggiava la mia nascita, la promozione di mio padre e mia nonna aveva fatto le ciambelle: come si fa a definirla in assoluto una brutta giornata?», gli aveva spiegato Robert Hooke, sorridendo convincentemente, mentre addentava un panino che schizzò poi salsa su tutto il suo elegante completo scuro («Sempre meglio che far cadere in terra tutto il panino, o no?»).

L’avrebbe cercato! Ma un momento! Come si sarebbe dovuto presentare? “Salve, sono John Marsden, si ricorda? Sì, il poliziotto… bla… bla… bla…”. E poi? “Perché lo chiamo? Cosa voglio da lui?”. Concluse, dopo una serie di tentativi, che spiegare di aver trovato una bombetta e di essersi chiesto se fosse vivo era tra l’ineducato e il malaugurante, mentre affidarsi ad altri pretesti era, oltre che impossibile, del tutto ridicolo.

Rimuginò ancora un po’ una possibile scusa, senza, però, trovarne di convincenti: avrebbe tenuto il cappello e, guardandolo, si sarebbe accontentato di ricordare l’ultima persona che aveva visto indossarne uno. Cosa non comune, in verità, tant’è che anche lui ne era rimasto stupito e aveva fissato a lungo Robert Hooke, la sua bombetta, il suo completo e le scarpe da ginnastica bianche.

«Comandante, ha bisogno di qualcosa?», aveva domandato allora Robert Hooke.

«No, certo che no. Solo…», s’era interrotto educatamente, pur se un po’ in ritardo, l’allora comandante Marsden.

«Solo che stava fissando la bombetta e le scarpe, chiedendosi come io possa portarle insieme? È intimamente sicuro che l’abito faccia il monaco? In senso metaforico, chiaramente, non letterale. Ad ogni modo, ha mai pensato che il peggior male di questo mondo, proprio una gran brutta malattia, sia prendersi troppo sul serio o badare troppo o troppo poco alle apparenze?», aveva risposto Robert Hooke.

«No, in effetti non ci ho mai pensato».

«Ci pensi su, si faccia una risata e mangi un dolcetto: de-mis-ti-fi-ca-re, è quello il segreto. Demistificare… è quello che fanno tutte le iene e i babbuini – animali simpatici i primati», concluse Robert Hooke andandosene a grandi passi, mentre salutava platealmente con la mano.

Quella sera, dopo cena, John Marsden si trovò nuovamente a passeggiare sull’arenile di Mablethorpe, dopo aver costeggiato una stradina carrabile stretta tra due file di casette basse.

Sulla superficie del mare, rotta dalle onde, emergeva barrato un pallido disco di luce lunare. Al di sopra, un risucchio, uno scroscio, uno scroscio e un risucchio: l’acqua continuava a schiantarsi sulla battigia e a ritornare, lentamente e con monotonia, e ogni cresta pareva uguale alla precedente, ma, da un punto di vista più ampio, onda dopo onda, il mare era completamente immobile nell’assurda e indistinta continuità del moto.

L’ex comandante Marsden ci si soffermò: pur non essendo un filosofo, si ritrovava in quel che vedeva; percepiva una similitudine con la sua esistenza, pur non riuscendo a spiegarla a parole.

*

John Marsden, in una notte di agosto, fu con me assolutamente sincero, ma non lo fui altrettanto: non gli ho mai detto almeno due cose, che non posso, però, non confessare.

Una è che, quando aveva pronunciato il nome di Robert Hooke, le pupille del gatto tigrato europeo sembravano essersi strette, concentrate ad ascoltare quel che aveva da dire, dopo essersi improvvisamente allargate per il grande stupore quasi che si fosse verificato un inaspettato sovvertimento dell’ordine cosmico.

L’altra è che io avevo già incontrato Sir Robert Hooke, il Matto, ma non gliene avevo parlato, né gli avevo detto di come aveva cambiato la vita a me e al professor Giovanni Maria Arouet. Ma, in fondo, lui non l’ha mai domandato e questa è tutt’altra storia.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Lorenzo Baldacci
Classe 1993, laureato in giurisprudenza, avvocato.
Una volta, dopo dieci anni di bozze chiuse in un cassetto, ho fissato su carta (in una mail, a dire il vero) una domanda che mi fa paura: come si discute di letteratura?
Non ho ancora trovato la risposta, ma rimane la fortissima necessità di scrivere e rimedito da anni sul come e cosa fare (e qualcosa ho fatto, ancora inedito). Sono, però, ben avvertito di tre moniti: (i) che gli enti non debbano essere moltiplicati nella loro non necessità (e gli scritti son enti), (ii) che la banalità è il maggiore dei crimini (e che il togliere, talvolta, è più saggio dell’aggiungere), (iii) che il romanzo non vada incoraggiato.
Da quella mail, la mattina mi alzo con il pensiero balzano della necessità di scrivere, di continuare un dibattito immaginario con le pagine dietro di me. E, da quel momento, leggo e scrivo più alacremente di prima.
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