È chiaro che Marina non fece i salti di gioia quando dichiarai che volevo candidarmi per quel posto a Ushuaia.
È vice direttrice in un hotel di Buenos Aires e stiamo insieme da un po’. Di anni ne abbiamo entrambi ventotto e stavamo iniziando a progettare il nostro futuro insieme: cercare un appartamento dove convivere, pensare al matrimonio, quelle cose lì, insomma.
Poi, c’è stato l’incidente.
Mi sono rotto il braccio sinistro – che tenevo appoggiato sul finestrino – mentre la mia macchina ha subito un testacoda, terminato addosso ad un camion.
Ricordo ancora lo stridore degli pneumatici sull’asfalto bagnato, dopodiché ho battuto la testa sul parabrezza e ho visto tutto nero.
Una volta in ambulanza, mi sono risvegliato giusto per chiedere all’infermiera dove mi stessero portando – all’Hospital Italiano mi rispose, il più vicino alla zona dell’incidente – e poi divenne di nuovo buio fino a mattina inoltrata.
Fu il sole primaverile di fine ottobre a svegliarmi facendo capolino dalla finestra priva di tende dell’ospedale. Mi sentivo stordito e pesante: avevo la testa fasciata e un braccio ingessato. Frattura scomposta dell’omero – sistemata con un paio di manovre di cui (grazie al cielo) ricordo ben poco – e commozione cerebrale di lieve entità: ecco spiegato perché continuavo a perdere conoscenza.
Mi diedero anche otto punti in fronte a causa di un vetro che mi si era conficcato nella carne, col risultato che ora sembro un fottutissimo Harry Potter latino. Mi mancano gli occhiali, però.
Il braccio si è ripreso alla grande, persino senza fisioterapia.
Al momento dell’incidente ero solo in macchina: ecco la nota positiva di questa storia. Non sono certo un tassista abusivo: pago regolarmente l’assicurazione e sono socio di una delle maggiori compagnie della città. Tenevo esposta la licenza in bella vista sulla mia vettura nera col tetto giallo ma, devo ammettere che, non denunciare eventuali danni ai passeggeri è stata una preoccupazione in meno.
Appurato che la mia vettura fosse ormai giunta al capolinea, decisi che non volevo arrangiarmi, come suggeriva Marina, a fare il cameriere da qualche parte.
Chiesi alla compagnia di affittarmi una macchina ma non c’erano vetture disponibili. Non mi diedi per vinto e iniziai a rispondere a tutte le inserzioni che trovai su internet: transfer, noleggio con conducente, chauffeur privato ma, i pochi da cui ricevetti un riscontro, mi offrivano una paga misera. Quello di Ushuaia era il primo annuncio decente – sebbene molto vago – che riguardasse quello che sapevo fare meglio: guidare.
La prima volta che mi misi al volante di un’auto avevo quattordici anni. So bene che è vietato prima dei diciotto, ma, a mia discolpa, guidavo solo in campagna o su strade secondarie, dove nessuno poteva multarmi. Di certo non le mucche, uniche testimoni del mio borioso sfrecciare, al quale assistevano coi loro occhi calmi mentre masticavano erba e fieno.
Guidare è sempre stata la mia passione, tanto che per un periodo ho pensato di darmi all’automobilismo a livello professionale.
In città, invece, iniziai a girare in motorino a dodici anni – sembravo più grande però – e in bici senza pedali andavo spedito già a tre anni e mezzo. Per farla breve, ho sempre adorato le ruote.
Ed eccomi qui dunque, dopo tre ore e quaranta di volo, all’Aeropuerto Internacional de Ushuaia – Malvinas Argentinas, pronto per il mio nuovo lavoro.
Il pilota è atterrato sterzando con una tale scioltezza che sembrava stesse guidando un’utilitaria.
Sugli aeromobili, a parte nella fase di decollo, non si ha il brivido della velocità e, ad essere sincero non mi sono mai piaciuti granché: preferisco rimanere a contatto con la terraferma.
Tuttavia, sono rimasto colpito dalla destrezza con cui il pilota ha “parcheggiato” questo velivolo. È un aereo piccolino, per carità, ma pur sempre un aereo! Non posso vantarmi di aver viaggiato spesso ad alta quota: è la terza volta che salgo su un aeroplano e non mi sono mai spinto così a sud prima d’ora.
Mentre avanzo per raggiungere la scaletta, vedo soprattutto turisti, Ushuaia è una meta molto gettonata: El Fin del Mundo, l’ultima città prima dell’Antartide.
Una volta fuori dal velivolo l’aria gelata mi sferza il viso.
A Buenos Aires c’erano ventisette gradi, sono partito con quello che avevo addosso: pantaloncini e maglietta, meno male che ho una felpa. Pensavo mi servisse in aereo ma non è stato così. Ora però me la infilo, l’aria pizzica.
Ok, lo ammetto: fa un freddo cane e mi si sta ghiacciando il culo.
Ho una giacca di jeans nel borsone ma è proprio in fondo e comunque un po’ di fresco non ha mai ucciso nessuno! Almeno credo.
Lei si chiama Perla, mi aspetterà agli arrivi per spiegarmi il lavoro. È una soluzione temporanea, l’ho messo subito in chiaro: resterò il tempo strettamente necessario per rimettermi in sesto, dopodiché tornerò a casa e riprenderò la mia vecchia vita da dove l’ho lasciata.
È lei, la ragazza mulatta con le treccine viola che sventola la mano nella mia direzione. Ha una giacca da neve rossa catarifrangente che nemmeno fossimo sul ghiacciaio del Perito Moreno.
Non ci sono mai stato ma so che è famoso.
Fare freddo, fa freddo, potrebbe persino esserci la neve, colpa mia che non mi sono documentato.
– Ciao, io sono Perla – si presenta allungandomi la mano destra coperta da un mezzo guanto. Noto che anche le sue unghie sono viola, che sia il suo colore preferito?
– Diego – dico stringendogliela.
Ha le dita fredde, così azzardo una battuta idiota, ben consapevole che me ne pentirò: – Fa freddo qui, eh? –
– Spero tu abbia qualcosa per coprirti, anzi ora è il momento più caldo della giornata: fa undici gradi. Di notte arriviamo a meno quattro e siamo in piena estate – mi spiega tutta sorridente.
– E tu questa la chiami estate? A Buenos Aires, sì che era estate stamattina – le dico con un ghigno, subito dopo mi parte uno starnuto.
– Salute – mi fa lei.
Non so se sia ironica, comunque rispondo – Grazie –
– Non hai ritirato il tuo bagaglio o sbaglio? – mi chiede.
– Tutto quello che mi serve è qui dentro – rispondo indicando il borsone nero che ho sulla spalla.
Mi scruta impensierita e per un attimo pare che voglia dirmi qualcosa, poi però scrolla le spalle: – Prego, da questa parte – e mi precede verso l’unica uscita dell’aeroporto.
Perla
Eccolo, è lui, il ragazzo moro con la felpa blu che si guarda intorno un po’ spaesato. L’ho riconosciuto dalla foto che ha su WhatsApp. Non ha l’aria del turista, è solo e sulla spalla ha una di quelle borse che si usano per andare a giocare a calcetto.
Spero abbia anche una bella valigia di vestiti invernali, ho letto che a Buenos Aires c’era una massima di ventinove gradi stamattina, qui invece si gela.
Io ci sono nata alla fine del mondo, dovrei essere abituata al suo clima, invece sono sempre infreddolita: le mie mani sembrano dei ghiaccioli anche quando indosso i guanti.
Alzo il braccio destro e sventolo la mano un paio di volte, lui mi nota e accenna un sorriso.
Carino, devo ammettere.
Non mi aspettavo mi rispondesse qualcuno così presto. Ho inserito l’annuncio nel momento stesso in cui a mio fratello hanno offerto una posizione a tempo pieno all’Hard Rock Café, cosicché non poteva più scarrozzare me e i miei turisti in giro.
Santo internet! Meno male che l’hanno inventato! Tempo un paio d’ore e questo ragazzo mi ha risposto.
Così l’ho chiamato e ho scoperto che fa il tassista di professione ed era alla ricerca di un’occupazione temporanea, che dire? Era il candidato perfetto per questo lavoro.
Certo, guidare in mezzo a fango, neve e pioggerellina costante è sicuramente meno affascinante rispetto a percorrere le strade della Parigi del Sudamerica.
Comunque sia, eccolo qui.
Dopo i saluti preliminari gli faccio cenno di seguirmi oltre la porta a vetri dell’aeroporto. Ho parcheggiato il pulmino da nove posti qui fuori.
Premo il pulsante del telecomando per aprirlo e poi glielo lancio. Lui lo afferra al volo e mi guarda perplesso.
– Così? – mi chiede semplicemente.
– Così – rispondo io, poi aggiungo – odio guidare questo coso enorme, accomodati, è tutto tuo -.
Dico sul serio, è un grande sollievo non doverlo guidare, detesto tutto ciò che sia più grande di un’utilitaria.
Arrivare in aeroporto è stata un’impresa! Ci sono troppi comandi, non mi arrischio a fare retromarcia, non sono in grado di calcolare le distanze, non riesco a parcheggiare, in pratica è un miracolo che sia giunta a destinazione.
Diego inserisce la chiave e, quando partono i tergicristalli a tutta velocità, non si scompone affatto.
Fa scattare appena una di quelle stecchette che fuoriescono dai lati del volante e la velocità diminuisce subito.
– Hai guidato tu fin qui – dice scrutandomi divertito: è un’affermazione, non una domanda.
Faccio cenno di sì con la testa. – La mia Fiesta mi pare enorme, ti lascio immaginare che incubo sia per me guidare questo transatlantico! –
Ride di gusto mentre si allaccia la cintura di sicurezza e non mi sfugge quanto siano bianchi e dritti i suoi denti, poi ingrana la retro e partiamo.
– Allora signorina Perla, dove la porto? – mi chiede un po’ sornione.
Forse vuole sembrare un maggiordomo, mah.
– Hai ragione, non conosci le strade – realizzo – Ora ti spiego – dico scivolando nel posto centrale. Afferro il microfono che uso coi turisti e Diego sobbalza per il fischio che produce sempre quando lo stacco. In effetti andrebbe sistemato.
– Scherzo, questo lo tengo per le visite guidate. Allora, di solito funziona così: si arriva in aeroporto con dei fogli stampati coi cognomi delle persone da prendere, si caricano i loro bagagli e si accompagnano nei vari hotel ottimizzando il percorso. Non ti preoccupare perché gli hotel sono sempre gli stessi e a breve li conoscerai a menadito. Tutto chiaro fin qui? –
Annuisce.
– Poi si ci sono i tour. Il pulmino si prende sempre, anche per i tragitti brevi. Molte persone non hanno voglia di camminare, soprattutto gli americani – sospiro – ora gira che siamo arrivati – gli dico indicando la salita alla nostra sinistra.
Eravamo rimasti d’accordo che l’avrei ospitato per i primi giorni, abito nei pressi di Teshne con mia madre e mio fratello in una casa di legno col tetto verde.
– Lascialo pure qui – dico riferendomi al pulmino, così lo parcheggia davanti casa.
– Mamma siamo arrivati – faccio ad alta voce una volta varcata la soglia.
Mia madre è come sempre in cucina, intenta a preparare i suoi manicaretti e la tv è accesa.
– Tu devi essere Diego, piacere sono Blanca- si presenta. Lui le stringe la mano e sorride cordiale.
– Mai stato nella Tierra del Fuego, presumo – dice senza mezzi termini alludendo alla felpa col cappuccio che indossa il mio nuovo autista e le mani che gli si sono arrossate per il freddo.
– Immagina bene, signora – risponde lui educatamente.
– Chiamami Blanca per favore-
In risposta si limita ad annuire.
Che sia timido? Non me lo aspettavo!
– Hai fame? – gli chiede mia madre.
– Ma’ sono le quattro del pomeriggio! – esclamo io.
– E allora? Ci sono le empanadas calde calde – annuncia lei tutta convinta.
– In realtà una la prendo volentieri – accetta Diego e se ne spazzola tre, forse aveva davvero fame.
Diego
Perla mi lancia le chiavi del pulmino grigio metallizzato come se scottassero.
Accendo il quadro e nascondo un sorriso nel vedere i tergicristalli azionati al massimo che sembrano voler schizzar via dal parabrezza. Perla prende in mano uno di quei microfoni neri che i cantanti chiamano gelato, mi ritrovo a saperlo per colpa di Marina o di una delle mie quattro sorelle.
Mentre lo stacca dal gancio, parte un fischio, così lo posa. Inizia a spiegarmi qualcosa sugli hotel e sui turisti pigri che non hanno alcuna intenzione di camminare.
La ascolto e guido e non si dica che gli uomini non siano capaci di fare più di una cosa insieme.
Per un istante, però, mi perdo a guardare le montagne.
Questo posto sembra così tranquillo: le strade sono larghe, le case basse, molte hanno il tetto a spiovente ed alcune persino un giardino. C’è fango ovunque ma è il bianco della neve all’orizzonte che tiene inchiodato il mio sguardo.
Siamo in una zona residenziale, ho memorizzato il tragitto e il mio senso dell’orientamento non mi ha mai deluso. Ci accoglie la mamma di Perla, una signora afroamericana coi capelli nascosti sotto un fazzoletto a tinte vivaci. Due grossi orecchini a cerchio dondolano dai suoi lobi.
La casa è pervasa da un profumo veramente invitante. Blanca mi chiede se sia affamato e realizzo di essere digiuno da stamattina: il mio stomaco conferma brontolando. Le empanadas che ha preparato sono una bomba, me ne spazzolo tre quasi senza rendermene conto.
A Ushuaia fa molto più freddo di quanto pensassi, sebbene non avessi previsto nulla poiché sono partito in meno di dieci giorni senza fare alcuna ricerca.
Devo comprarmi una giacca a vento seria il prima possibile, così esco da solo a fare un giro. Sebbene sia evidente, non voglio ammettere di essere partito così leggero, inoltre ho voglia di dare un’occhiata alla città e crearmi un’opinione.
Perla è genuinamente entusiasta, scommetto che sia bravissima nel suo lavoro ma, per come sono fatto, devo vedere la fine del mondo coi miei occhi ed è giunto il momento di videochiamare Marina. Pur lavorando entrambi full time abbiamo sempre trascorso il nostro tempo libero insieme e prevedo che questo periodo di lontananza non sarà facile.
Al mio rientro, Perla e Blanca sono sprofondate sul divano davanti ad una telenovela.
– State vedendo Vidas Robadas? – chiedo distrattamente.
– La conosci? – domanda Perla meravigliata.
– A casa mia è impossibile evitare Vidas Robadas – dico alzando le spalle.
– Ti unisci a noi? – mi invita.
– Preferirei fare una doccia, se non vi dispiace – declino educatamente.
Odio le telenovelas ma – ahimè – le conosco tutte.
Tutte.
Sul serio.
Perla alza il pollice, così entro nella stanza che mi è stata assegnata. È uno studio: c’è una libreria alta, una scrivania e un letto con un cassettone sotto.
La moquette del pavimento è arancione e il copripiumino floreale. Questa città odora di camino, fango e cannella. O forse sono io che sono passato davanti una pasticceria e mi è rimasto quell’odore nelle narici.
Alla fine, ho acquistato una giacca da neve bianca con delle righe nere. Spero sia davvero pesante, ho chiesto la più pesante che avessero.
La chiamata con Marina è andata meno peggio del previsto. Mi aspettavo una marea di lacrime, cosa che veramente non sopporto, invece mi è parsa tranquilla. Ha detto che sa che le mancherò ma si rende conto che è una soluzione provvisoria. Accetterà alcuni turni in più in hotel per tenersi impegnata e stasera andrà a cena con la sua amica Clara.
Mentre l’acqua bollente mi riscalda e il vapore annebbia lo specchio, sento i muscoli sciogliersi. Quando penso di essermi riscaldato a sufficienza, mi butto addosso due teli, uno sulla vita e un altro sulle spalle.
Lo sbalzo termico tra il bagno e la camera si fa sentire. Mi infilo velocemente i pantaloni della tuta e la felpa blu e, coi capelli che sgocciolano, vado alla ricerca del phon.
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