Come si fa a cancellare tutto quell’amore? Come si fa a vivere senza loro? Ad indossare sorrisi per altre persone? Come possono aver cancellato i giorni bui, di pianto e dolore, dove si guardava il vuoto nelle pareti piene di ricordi, dove si mangiava se nonna faceva la spesa e dove bagnare di lacrime il cuscino era l’unica attività della giornata? Se la vedeste oggi, dopo ventiquattro anni da quel maledetto giorno, vedreste una persona diversa. Vedreste una donna con gli occhi dolci e rassicuranti, le braccia pronte ad abbracciare chiunque e persino a sorridere. Trovereste una donna che emana una serenità avvolgente e palpabile e vi ricordereste di lei. Sì, nessuno si dimentica di lei. Io, però, la sento tutti i giorni per telefono e ormai ha capito che non voglio più ascoltare le sue ragioni, non voglio più sentire i suoi consigli, non voglio la sua mano sulle spalle quando sono triste oppure il suo sguardo compassionevole. Per un certo periodo mi mandava anche dei libri, tutta roba zen, filosofia orientale e mindfulness. Io posso leggere anche dodici libri al mese, ma no, quella roba io non la tocco. Dopo un po’ di sforzi siamo arrivati al compromesso di sentirci sempre, ma senza andare in profondità nelle nostre vite. Ci vediamo due volte all’anno e soltanto per due giorni, perché al terzo comincia con “tu devi vivere, lo devi fare per loro. Tuo padre non vorrebbe questo. Vivere una bella vita non è smettere di amare, ma rispettare il loro amore ed è proprio perché è tremendamente difficile che non devi arrenderti”. E poi il copione continua sempre con: “pensa a tuo figlio: che faresti se sapessi che è infelice? Anche se tu fossi nell’aldilà non lo accetteresti. E se non vuoi pensare a questo, allora, pensa che lui per diventare un uomo ha bisogno di serenità ed amore. Togli quella corazza dal tuo cuore. Fallo per te e fallo per lui. Odiami, ma pensa a tuo figlio, lui non c’entra nulla”.
A ciò le mie vacanze terminano subito in anticipo, con valigie fatte alla svelta, sporco e pulito mischiato insieme per tornare il prima possibile nella mia bolla. A volte temo che abbia ragione in alcuni aspetti. Leonardo si meriterebbe di meglio, ma questo lei non lo dovrà mai sapere. Loro due sono molto uniti, fin da quando lui era piccolo gli leggeva le favole al telefono. Stava sdraiato sul tappeto di camera a giocare con i Lego e a sentire la nonna che parlava di storie di pirati, re e regine. Io li vedo quando sono insieme, a passarsi libri, a parlare di questo o quell’autore. Si illuminano tutti e due. Poi lui esce dal negozio di mia madre e passa le ore sugli scalini della casa a fianco. Lei gli dice di mettersi nelle poltroncine ma lui risponde di lasciarle per i clienti. Loro sono felici. Io, invece, li lascio fare e scappo in spiaggia, tra creme solari e bimbi con palette e secchielli, perché tutto quel miele, tutta quella complicità mi stucca.
Mia madre crede che un giorno capirò, che un giorno le sue parole avranno un senso anche per me. È convinta che mi sveglierò dal mio incubo. Lei sa chi sono e secondo lei un giorno tornerò ad esistere nella mia forma. Mi scrollerò la rabbia del dolore e la solitudine che covo in ogni presenza. Dice che splenderò, ma che accadrà quando sarò pronta. Io non penso proprio, ma un angolino remoto di me spera nel contrario. Basta. È il momento di far dormire ancora questo istinto che non so gestire. Mi fa sentire ingrata. Mi fa perdere le certezze che ho creato e brancolo persa nelle mie paure.
Capitolo 1
Sofia
“Le persone silenziose sono quelle che hanno la le menti più rumorose” Stephen Hawking
Un lunedì mattina come gli altri, con l’idea di essere in ritardo per il lavoro, con la mente occupata da tutta la routine della giornata che si incastra come un puzzle. Salgo in macchina di corsa, la borsa gettata sul sedile del passeggero i minuti contati per essere in ufficio. Oddio quanto odio essere in ritardo! Me la immagino già: Greta, in piedi davanti alle scale, i pugni sui fianchi, quello sguardo che ti vuol dire “Ti ho beccata, come sempre!”, nascosto da un sorriso falso e cattivo. Lei non comunica a parole, ma il suo corpo sì. Fa gli occhi dolci a suo fratello e io passo sempre dalla moglie paranoica e schizzata. Ebbene sì, io lavoro per mia cognata e accidenti al giorno in cui ho acconsentito ad una cosa del genere. Lei aveva bisogno di una segretaria nel suo famosissimo studio notarile e io volevo trovarmi un lavoro che mi rendesse autonoma. Volevo superare il cliché della moglie del facoltoso e brillante principe del foro, con una coniuge nullafacente, dedita soltanto a spendere il lauto stipendio del consorte e a dare meravigliosi party nell’attico in centro. Certo che per ottenere la mia autonomia ho dovuto combattere, Marco, mio marito, non voleva assolutamente e tutte le volte che entravo nel discorso iniziava con una filippica che io avrei dovuto pensare alla casa e ai futuri pargoli, che quello è il ruolo della moglie, non fare carriera.
Conclusione: ho avuto mio figlio per caso prima di terminare gli studi, la mia laurea in marketing non serviva a nulla, “O la carriera o la famiglia,” diceva mio marito “non possiamo essere assenti tutti e due”. Alla fine, il mio status di dottoressa lo considerava soltanto un vezzo, una libertà che mi aveva concesso ed il problema lavoro lo ha liquidato con il compromesso di lasciarmelo fare ma solo presso la sorella. All’inizio anche lei era diversa, sembrava una tosta ed in gamba e quando mi chiesero di lavorare nel suo studio cedetti. Mi sono fatta fregare dai suoi modi melliflui e affabili. Non mi sono accorta del fatto che la principessa era soltanto il volto pubblico dell’arpia ricca, bella e sempre in cerca di confermare a tutti il suo potere. Avevo soltanto 17 anni quando ho conosciuto Marco. Lui era così tremendamente sicuro di sé, bello come una star del jet-set, neolaureato in giurisprudenza. Io ero timida ed insicura, una di quelle persone che vive gioie e dolori tutto dentro, senza mai far trasparire nulla al di fuori. La gente pensava che fossi altezzosa e musona, quando invece tra me ed il mondo sentivo che c’era un vetro e la mia voce non arrivava al di là. Lui però sapeva come oltrepassare i miei silenzi, come tirare fuori un sorriso. Lui credeva in me e mi aiutava ad uscire dal bozzolo per diventare una farfalla. Forse è questo che lo ha spinto verso di me: la sfida di modellare una persona a suo piacimento. La nostra storia aveva tutte le stelle a favore e io non mi sono mai resa conto di quanto rancore odio e cattiveria ci fosse in quella famiglia. Non avevo ancora compreso di essere soltanto una facciata della vita del dottor Della Rocca Marco. La brava moglie che chiude gli occhi alle umiliazioni del marito, ai continui tradimenti con la baby assistente di turno. Me ne sono accorta dopo, quando ormai era nato Leonardo, anzi, quando aveva 7 anni. Il fatto è che alla fine avevo abbandonato l’idea di seguire una carriera, ero una semplice segretaria senza arte né parte, con una vita perfetta che avrebbe potuto anche buttare tutto a monte, ma per che cosa? Per lanciarsi in un mare in tempesta senza salvagente.
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