Tre anni fa, in una giornata che fino a poco prima era scura e ombrosa, sentii parlare per la prima volta di El Salvador. Cominciare questo viaggio era per me qualcosa di impensabile. Il nome stesso, “El Salvador”, non l’avevo mai letto da nessuna parte, mai ascoltato in nessuna conversazione, non era mai apparso tra le notizie del giornale. Mi era dunque assolutamente sconosciuto; alla stregua delle leggi che regolano le variazioni orbitali del pianeta, o, che so, i mutamenti delle attività vulcaniche. Non sapevo nemmeno come pronunciarlo: l’accento dove andava posto? sulla prima vocale o sull’ultima? El Sàlvador o El Salvadòr? Figurarsi trovare il paese sulla cartina geografica: è a nord o a sud? est o ovest? Insomma, prima di partire ero pieno di dubbi. E poi conducevo una vita monotona, tutta casa e università.
Avevo un obiettivo: conseguire un dottorato in Storia moderna, e la cosa l’avevo presa abbastanza sul serio, tanto che, quando non seguivo all’università, ero da qualche altra parte sui libri a prepararmi per il concorso. Non so da dove fosse saltato fuori questo desiderio di diventare professore universitario, ma so per certo che passavo le giornate in funzione della prova che avrei sostenuto subito dopo la laurea. L’unica, rara, eccezione allo studio erano le passeggiate della domenica. Partivo da solo di mattina presto, alle prime luci dell’alba, quando tutta la città era ancora a letto. Dal palazzo Coppola arrivavo all’altro lato della città. Le camminate duravano parecchio, vedevo il mare, osservavo le persone che incrociavo, e quando c’era il sole e fuori non si gelava troppo facevo perfino il bagno; poi mi asciugavo e ritornavo a casa. Quelle passeggiate mi piacevano un mondo. Però, come dicevo, erano l’unica parentesi a una routine monotona. Insomma, partire fu per me una scelta molto faticosa. Al di là di questo, mi sembra di aver capito che l’altrove porta con sé una certa dose di spavento. Sempre. Il fatto è che, personalmente, a principio di quell’anno successe una serie di cose che mi fecero rompere ogni indugio. Ma cercherò di procedere per gradi, e prima di cominciare vorrei dire giusto due o tre cose.
Esistono tanti tipi di viaggi: viaggi reali e immaginati; viaggi per mare, per treno, a piedi o in aereo; viaggi forzati o liberatori; viaggi che si fanno con tanti bagagli, oppure con una singola valigia, quella del ricordo. Quella che sto per raccontare è la storia di un viaggio, il quale contiene al suo interno altri viaggi, che sono tutti a loro volta dei viaggi nella memoria; sono storie di partenze e di brusche frenate, storie di marce indietro, di conquiste e di disfatte; storie comuni, storie famose, straordinarie, insolite, storie sussurrate o gridate con rabbia, storie vive o dimenticate. Storie da cui ho avuto molto da imparare, mi è bastato solamente sedermi, fare silenzio e ascoltare. Una volta, mentre studiavo, ci ho pensato, è come se fossimo tutti irretiti da una ragnatela invisibile, tutte traiettorie imprevedibili che si avvolgono, si mescolano, si influenzano, e si modificano a vicenda, centinaia di milioni, di miliardi, di piccoli puntini disordinati, confusi, instabili, caotici, che si adunano, contro le regole basilari della probabilità, della fisica e della ragionevolezza, si adunano per dare forma in un singolo attimo determinato… a cosa? dare forma a cosa? un incontro? un riconoscimento? una conoscenza? e se fosse una conoscenza, di che tipo sarebbe? quanto si può conosce l’altro? in che modo? fino a che punto? e se in realtà tutto ciò – questa aggregazione altamente improbabile di circostanze – non sarebbe che un modo diverso, a noi più familiare, di parlare sempre e solo di un unico argomento, cioè della vita?
Non so, non sono in grado rispondere a queste domande, però di sicuro se esistesse una carta costituzionale del viaggiatore, vi sarebbe affermato il diritto di ciascuno ad avere le proprie sensazioni, a dar conto solo alla disposizione d’animo di quel preciso istante, di quel singolo incontro, senza badare molto ad altre complicazioni. Altrimenti saremmo tutti chiusi nelle nostre abitudini, e non servirebbe a nulla viaggiare. Questo è assodato, è costituzionalmente garantito. Come nella vita, viaggiando si corre il rischio di vedere le cose giuste al momento sbagliato e le cose sbagliate al momento giusto. Per questo motivo in questo viaggio, e nei tanti altri che vi girano intorno, se sono presenti dei pareri, essi rispondono solo ed esclusivamente al tempo che poi è passato; e non solo a quello, sia chiaro, perché durante tre anni di lavoro a tempo pieno la mia unica occupazione è stata quella di cercare di capirci qualcosa, cioè cercare di capire qualcosa di questo paese, El Salvador, così lontano, così sconosciuto, mai sentito prima, e cercare di capire qualcosa della gente che ho incrociato, delle loro vite, e della mia, e di quello che è successo a entrambe.
Il primo passo è stato annotare tutto con la massima attenzione su una agendina virtuale che tenevo sul mio iPhone; quando il telefono mancava, scrivevo a mano sul primo pezzo di carta che trovavo, davvero su qualsiasi cosa: un tovagliolo, uno scontrino, un foglio bianco, perfino sui biglietti dell’aereo o sulle ricevute bancarie. Poi ho accumulato una buona quantità di libri, ne ho fotocopiati altri che qui da me non sono stati tradotti; principalmente libri di letteratura, psicologia, antropologia e storia, soprattutto libri di storia, ma anche testimonianze di guerra, programmi politici, cronoprogrammi, saggi, analisi, approfondimenti, insomma un po’ di tutto. Ho fatto incetta di articoli di giornale, frammenti di riviste, reportage, cronache, editoriali, copie di sentenze, fascicoli, brochure, opuscoletti, raccolte di statistiche, volantini pubblicitari, analisi accademiche; ho consultato archivi museali, personali, biblioteche – piccole e grandi – ho intervistato persone, ho parlato con esperti, pseudoesperti, ho ascoltato podcast, ho visto documentari, film, notiziari. E ho fatto tutto questo lavoro con assiduità, tanto da convertire questo racconto ed El Salvador in una vera e propria ossessione della durata di tre anni. Ma adesso che di questa ossessione me ne sono liberato, o almeno in parte me ne sono liberato, sono convinto che, nonostante tutto questo lavoro, le opinioni e le idee che ho maturato non saranno particolarmente acute o originali, e nemmeno particolarmente assennate, perché questa battaglia, sì, questa del capirci qualcosa, si sa, è una battaglia persa in partenza.
Ad ogni modo, per volgere lo sguardo al di fuori di me stesso e decifrare quel bellissimo e tremendo incanto che è scoprire le cose per la prima volta, questo viaggio non potevo che farlo nella memoria: guardare indietro era l’unico modo possibile che avevo per guardare avanti. Mi sono reso conto che la memoria, questo articolo così abusato oggi, se ha la possibilità di non funzionare da sola e di servirsi di altri strumenti, serve ancora a qualcosa. Per quel che è possibile, la comprensione è un processo che avviene con ordine, e soprattutto per sottrazione. Adesso che ho cominciato a parlare mi vengono alla mente il verde irregolare dei versanti che mi hanno accolto, l’azzurro iridescente del cielo di novembre, il rosso acceso che bordeggiava le cime dei vulcani; ricordo il sudore appiccicaticcio, i goccioloni di pioggia e i tremori allo stomaco. Ricordo tutto ciò riflesso nel vuoto d’aria della mia mente; e se sto a raccontarlo non è per presunzione, è perché credo che nella storia di questo viaggio ci sia qualcosa che riguardi tutti noi, gente del nord o del sud, dell’est e dell’ovest, e che in fondo vale la pena raccontare. Ecco, adesso sì che questo viaggio può cominciare. Come stavo dicendo, tre anni fa si verificarono degli avvenimenti che misero in moto dei meccanismi irreversibili.
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