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Ride into the sun

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Consegna prevista Aprile 2024
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Bari: un’auto forata dai proiettili sfreccia lungo le strade provinciali, diretta verso l’ignoto.

Ismaele Spadafora, anziano maestro del cinema italiano, si è ritirato dalle scene. Ha fatto ritorno alla sua misteriosa città natale: Zairia, un vero e proprio Stato nello Stato, un luogo dove le regole del nostro mondo, anche quelle più scontate, cessano di avere senso.
Alla sua ricerca partono Vito Lopez, cinefilo all’apice di una crisi post-adolescenziale, e Andrea Messina, il suo migliore amico, melomane, taciturno e con una certa propensione al perverso.
Il viaggio che li porta da Bari a Zairia è costellato da incontri e storie al limite dell’assurdo. Scopriranno che Zairia e Spadafora hanno già suscitato l’interesse – in molti casi, mortale – di critici disgustosi, investigatori tormentati, blog complottistici e tanti altri uomini e donne di epoche e paesi diversi.
A Zairia, Vito e Andrea conosceranno il vero significato e le atroci conseguenze dell’ossessione.

Perché ho scritto questo libro?

Come spesso mi capita, il motivo per cui ho raccontato questa storia si è manifestato solo alla fine. Con “Ride into the sun” ho voluto dar vita a dei personaggi, raccontandone le ossessioni e i fallimenti, rendendoli tangibili. E ho anche voluto raccontare il Sud, il mio Sud, reale e surreale, facendo ricorso alla ricerca concreta e all’immaginazione, evitando sia stereotipi denigratori che banalità idilliache.

Ride into the sun (Anteprima) 

 

 

 

Anni fa sono stato in una città e da quando sono tornato a Bari non faccio che ripensarci. Non avevo mai smesso di farlo, in realtà, ma avevo imparato a regolarli, i miei pensieri, a modularli. Nulla di più. Ma adesso non ci riesco.  

Mi trovavo in quel posto per motivi che non vi posso spiegare senza sembrare un cretino o un pazzo. Mi limiterò a dirvi che ero lì e che l’ho vista bruciare. Nello specifico, ho visto il mondo intorno alla città bruciare. Non avevo mai assistito a nulla del genere. Dal centro, il fuoco si estendeva al di fuori dei suoi confini, ma ignorava la maggior parte dei suoi quartieri. Allontanandomi in macchina, vedevo il fuoco mangiare gli alberi, i paesi circostanti, le persone, gli animali, ma al suo centro c’era un cuore intatto di strade e case.  
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È stato definito l’incendio più feroce degli ultimi trent’anni. E io l’ho visto. Ma ho anche visto che la città da dove è partito è rimasta intatta.  

Io ci sono tornato, in quella città. Ho attraversato un infinito cimitero di cenere per raggiungerla e l’ho vista in tutto il suo orrore. Nessuno mi crede. Non vi dirò nient’altro perché sarebbe stupido. Perché sembrerei stupido. Io penso che abbia rilasciato qualcosa, oltre al fuoco. E penso che questo qualcosa, a differenza del fuoco, non sia mai stato spento. E sono sicuro che sia arrivato fino a qui e che adesso lo stiamo respirando. 

*** 

Era il 2018 e avevo vent’anni, ma dire di averli, quegli anni, mi sembrava un’esagerazione. Una persona, per avere vent’anni, deve viverli. Cosa avevo vissuto, io, in quel lasso di tempo? Quasi niente, appunto. E l’ennesima bocciatura in Storia Romana – esame fondamentale per il primo anno di Lettere Moderne – ne era la conferma. Non scelsi di iscrivermi a Lettere, non senza riserve, perché io volevo fare il regista (e in un certo senso lo ero già stato). Ma dovevo fare l’università. Dovevo farla a Bari. E non dovevo assolutamente deludere Mr. Codice Civile, mio padre. Quando in un laido pomeriggio di aprile gli dissi che non mi sarei mai iscritto a Giurisprudenza, lo portai alle soglie dell’infarto, così arrivammo a un compromesso. Mi immatricolai a Lettere. Mi presentai alla prima lezione. Dopo nemmeno quindici minuti ero già in Piazza Umberto, diretto verso il cinema Royal. Proiettavano Kurosawa e non volevo perdermelo.  

Ho sempre amato il cinema. Scorsese, Anderson, Godard, Mizoguchi, Spadafora, Tarr, Bergman e tanti, tanti altri erano nella mia testa ventiquattro ore su ventiquattro, contribuendo alla metamorfosi della mia persona da mero homo sapiens a cinefilo, creatura deforme ma bellissima. Tutto iniziò con il dvd di Shining di Stanley Kubrick, prestatomi da un caro amico ai tempi delle medie. Fu la prima volta che guardai un film senza parlare con nessuno, senza metterlo in pausa, senza alzarmi. L’immaginario di quell’opera mi era rimasto talmente impresso che ho continuato a riutilizzarlo implicitamente per tutto il corso della mia vita. Era, in sostanza, la più puttana delle mie citazioni mentali. Piccolo esempio: un giorno mi trovavo in facoltà e un inserviente stava lavando il pavimento vicino l’ascensore. L’acqua, ricordo, era davvero troppa. Quando le porte dell’ascensore si aprirono, immaginai immediatamente una copiosa cascata di sangue come in Shining. Ci aggiunsi del mio, però: il flusso travolgeva quello stronzo di Rinaldi, il mio professore di Storia Italiana I.  

Questo era ciò a cui pensavo seduto nel pullman, un pullman pieno di gente ignara di essere in presenza del più triste dei mediocri. Immaginai di alzarmi e di parlare con l’autista, supplicandolo di portarmi in un paese nuovo, lontanissimo e sconosciuto. Purtroppo, la linea era la C e la destinazione era il Park & Ride di Parco Due Giugno, quartiere Carrassi di Bari, e ciò non poteva essere cambiato. In quella città, le cose sembravano immutabili. Il traffico bloccò il veicolo a due o tre isolati dal ponte di corso Cavour, stimolando pericolosamente la mia bile. Presi il telefono per distrarmi – o per istinto riflesso, più probabilmente – e iniziai a scorrere le notizie del giorno. Movies Daily aveva pubblicato un articolo su Ismaele Spadafora, il grande regista barese, ma per come era strutturato sembrava più un requiem. Non era morto, imbecilli, si era solo ritirato. E a Triggiano, poi, neanche lontano da Bari. Ecco dove sarebbe dovuto andare quel maledetto pullman: a Triggiano. In quel momento ero l’unico barese, e forse l’unico uomo, il cui sogno era scappare a (e non da) Triggiano (come se un milanese non vedesse l’ora di trasferirsi a Cinisello o un londinese sognasse gli idilli di Blackpool). Ma era lì che Ismaele Spadafora si era ritirato, due anni prima, in preda a chissà quali oscuri pensieri. Era ed è tuttora il più rispettato dei registi italiani del secondo novecento. Paul Thomas Anderson dice che se i suoi film avessero anche solo un decimo della bellezza di quelli di Spadafora potrebbe morire felice. Ermanno Olmi, poi, che ebbe la fortuna di incontrarlo, raccontò che fu grazie ad una serissima sbronza condivisa con il maestro a Bergamo che riprese in considerazione l’idea di girare Il Mestiere delle Armi.__________ _                ______
Spadafora, una figura tanto importante quanto misteriosa. Tutto, per me, iniziò con Gli schifosi del West Side, 1974, il più importante del suo periodo americano. Due ladruncoli di quartiere, un italoamericano e un ebreo, erano i protagonisti. La scena d’apertura – la magistrale scena d’apertura – era un lungo piano sequenza. Inizialmente c’è un dettaglio: una mano piccola, sporca ma decisa, che pian piano si avvicina a un cappotto. Sullo sfondo, sfocato, vi sono le luci di Broadway. Un lieve nevischio avvolge la città. Con uno scatto la mano prende un portafoglio, l’obiettivo si allontana, il ragazzo la cui mano ha compiuto il gesto è ora quasi del tutto visibile. La macchina da presa retrocede attraverso la folla.  La vittima dello scippo ora si accorge di aver perso il portafoglio; si guarda intorno, inveisce, ma il ladro si è ormai dileguato. La cinepresa si muove lateralmente, ritrovando lo scippatore, ora nascosto in un vicolo buio e umido dietro uno dei teatri del quartiere. Dall’ombra sbuca un’altra figura.  

“Cohen, guarda, ‘sto stronzo aveva solo cinque dollari. Tanto rischio per niente.” – dice il ragazzo.
“E lo chiami rischio quello? Con tutta quella gente sarebbe stato strano se ti avessero anche solo notato. Guarda questo piuttosto…”  

Il piano sequenza viene interrotto. Dettaglio: mani di Cohen. C’è una borsa piena di gioielli scintillanti. Primo piano dell’altro ragazzo. Gli unici suoni sono quelli del traffico e della folla. Il suo volto racconta tutto: c’è lo stupore per la grandiosità del furto, c’è l’invidia, c’è il rispetto e, soprattutto, c’è la preoccupazione. Una faccia che dice “Ecco, è proprio qui che inizieranno i nostri guai” (un connubio inumano di regia e recitazione, quasi indescrivibile). Non a caso, è proprio nell’inquadratura successiva che il regista decide di far partire i titoli di testa: West Side Scum, directed by Ismaele Spadafora. Il titolo, che potrebbe erroneamente alludere solo ai protagonisti, in realtà si estende a tutto l’ensemble di personaggi miserabili, ma per capirlo bisognerebbe aver visto il film. Difficile riportarlo a parole.  

Dalla strada vedevo gli infiniti binari della stazione che tagliavano in due la città. Centro e periferia. In lontananza c’era il ponte “nuovo” (il suo nome era ignoto ai più, quindi se ne parlava così), con i suoi piloni modernissimi e imponenti, con le sue promesse. Posai lo sguardo su un gruppo di liceali appostati di fronte a me. Nonostante avessero quindici o sedici anni, non vedevo quasi alcuna differenza tra me e loro. Stupidi, arroganti, sanguisughe dei loro genitori. Come me. Un’adolescenza che sembrava davvero non finire mai, forse il vero dramma tangibile della mia generazione. In quel preciso istante l’autobus si fermò e, tra le tante persone che salirono, c’era uno dei rarissimi esempi di ragazzo la cui età anagrafica si amalgamava perfettamente con la sua età mentale: Andrea Messina. Una figura la cui compostezza era una garanzia. Parlava poco, ma parlava bene. Il suo unico vizio era il fumo, ma lo gestiva con un’eleganza tale da renderlo quasi un accessorio. La sigaretta, immancabile, era un’estensione del suo volto e, di conseguenza, della sua personalità. Immaginarlo senza un costante alone di fumo era come immaginarselo senza gambe o senza testa.               _
Mi notò subito. Mi salutò. Si avvicinò quasi volteggiando (aveva probabilmente passato la mattina a meditare in Tibet).  

“Mi hanno appena bocciato in Storia Romana.” dissi.
“Questa è la… seconda? Terza volta?”
“Quinta.”
“Mica male.”
“Ti giuro, sto avendo le peggiori fantasie in questo momento. Non ce la faccio più. Vorrei andarmene, che ne so, in Guatemala e morirci. Ma non qui, ti prego, basta!”  

Rise dietro la sigaretta. Il mio dolore, mi diceva sempre, era il suo balsamo. La trovavo una frase divertente, se non altro servivo a qualcosa.  

Io e Andrea eravamo amici dalle medie. Fu con lui che, tra una rissa e l’altra e religiosamente evitando qualsiasi contatto umano con gli altri compagni, scrissi la mia prima sceneggiatura: The Power – il film. Quel testo – nella sua ruvida essenza tattile, cartacea, reale – è incollato perennemente nella mia memoria, parola per parola, errori ortografici inclusi. Se fosse dotata di ingresso USB, la mia mente potrebbe sicuramente stamparlo.
Aggiungere “il film” ai titoli delle mie opere è stato il mio primo vero feticismo. Le parolacce, il secondo. Dio, quante ne scrivevo. La prima scena di The Power, (il) film supereroistico e adolescenziale, era una vera orgia. Le altre, forse, anche peggio. Colonne di cazzo, di merda, di vaffanculo e di coglione riempivano le mie pagine ribelli. Poi c’erano i punti esclamativi e gli infiniti puntini di sospensione che davano al testo l’aspetto di un’epigrafe babilonese. Fortunatamente il progetto non vide mai la luce (attualmente giace in qualche cartella del mio vecchio pc, probabilmente la stessa dove avevo i miei fumetti e qualche porno).  

Porca puttana! come cazzo è che siamo così fessi da farci fottere il portafoglio?” citò Andrea.
“Oddio… ti ricordi cosa diceva Luigi? Non voleva assolutamente recitare in un film del genere. Ci sono troppe parolacce! Io vorrei farlo leggere a mio padre ma ora con che coraggio, dico, con che coraggio glielo porto?”.
“Quel ragazzo era lungimirante”.
“In un certo senso sì. Chissà cosa sarebbe successo se l’avessimo girato, se l’avessimo mostrato ai nostri genitori. Ecco, mamma e papà, una storia di protesta, di azione e di cazzomerdavaffanculo!  

Furono, nonostante tutto, dei giorni stupendi. E mentre gettavamo la lenza in quel gigantesco lago che era il nostro passato, Andrea, con la sua tipica e quasi orientale compostezza, pronunciò la frase che avrebbe cambiato tutto.  

“Vito, ho deciso di allontanarmi da Bari per un po’, vuoi venire con me?”  

Certo che volevo andare con lui.  

“Non lo so, forse. Dove andresti?”.
“Non importa, basta andarsene. Ho delle idee, ma decideremo lungo la strada. Ho qualche soldo da parte e una macchina”.
“Beh, non so che dire, fammi fare le valigie e fammi parlare con i miei…”
“Domani, quindi?”.
“Domani va bene, ma posso chiederti un favore?”.
“Certo”.
“Dovrei passare un attimo da Triggiano”.  

*** 

Fu un gesto romanzesco e in un certo senso romantico, certo, ma in quel momento avevo davvero bisogno di andarmene, di cambiare aria, di trovare uno scopo o qualcosa che potesse portarmi anche solo vicino a uno scopo. Ringraziai mentalmente Andrea.  

L’auto sfrecciava lungo la corsia centrale della tangenziale, deviando poi verso la Statale 100, a sud. Il suono del contrabbasso di Charlie Mingus riempiva la vettura. Stavo davvero partendo. Solo quindici minuti prima ero in casa mia, vittima del tipico rituale del quindicenne che afferma di non essere solo in una fase particolare della sua vita ma di essere veramente così – con la differenza che io non avevo quindici anni e quella, naturalmente, era una fase – mentre i genitori cercano in tutti i modi di convincerlo del contrario. Un giovedì in casa Lopez.  

“Vito, perché stiamo andando a Triggiano?” 

In effetti mi stavo domandando perché non me l’avesse chiesto prima.  

“Hai presente Ismaele Spadafora, il regista? So che ti sembrerà una stronzata, ma io devo incontrarlo. Voglio imparare il mestiere da un maestro vero e voglio tornare a fare cortometraggi” oltre che dare un senso alla mia vita, evitai di aggiungere.
“Non è una stronzata. Hai un indirizzo?”.
“No, ma grazie a una sua vecchia intervista so che andava al liceo Einaudi di Triggiano, la sua città natale”.
“Stiamo messi bene…”. 

Entrammo nella città delle rotonde. Faceva buio da pochi minuti ma le strade erano già vuote e umide. Poche erano le insegne accese quella sera. Tramite Maps diedi indicazioni ad Andrea e, dopo qualche giro, raggiungemmo il liceo Einaudi. Scendemmo. 

“Cos’è successo a Spadafora?” chiese Andrea.
“Un paio d’anni fa vinse il leone d’oro a Venezia per Do Ut Des, ricordo che te ne parlai fino allo sfinimento. Comunque, subito dopo la vittoria decise inspiegabilmente di allontanarsi dalle scene e di dedicarsi per sempre alla sua vita privata. Scomparve, insomma”.  

Andrea finì la sua sigaretta.  

“Non temi di infastidirlo? Forse c’è un motivo se non si è fatto vivo in questi anni…”.
“Lo so – lasciai fluttuare il mio fiato umido come per imitare il fumo della sua sigaretta – ma voglio rischiare. Stiamo parlando di Ismaele Spadafora! È il maestro! Lasciami almeno tentare, poi andremo dove vuoi tu”.
“Come vuoi”. 

Un lampione proiettava una lunga ombra sulle nostre spalle. Guardando a terra potevo vedere due lunghi tronchi neri e, in mezzo, un terzo che si estendeva sempre di più. Qualcuno si stava avvicinando. Poteva essere proprio Ismaele, e invece era solo un anziano dalle proporzioni titaniche. L’uomo aveva, nonostante la stagione, un lungo trench da pervertito e un cappello nero modello borsalino. Il suo volto, pur nascosto dal buio e dal cappello, era definito e poco rassicurante.
“State cercando Ismaele Spadafora?” disse con una voce talmente rauca e profonda che sembrava rigurgitata dall’inferno. Andrea si fermò immediatamente; io lo imitai, tremando. Chi era quell’uomo? 

 

2023-07-07

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2023-07-05

Aggiornamento

Siamo già al 20%, non so come ringraziarvi!

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Vincenzo Ferrara
Sono nato a Bari nel 1997 e, in un modo o nell'altro, ho sempre trovato scuse per scrivere. Nella mia breve vita, urbana e micro-borghese, caratterizzata da pochi traumi e molta noia, raccontare storie è stato il mio unico tratto costante: dai fumetti disegnati durante l'infanzia fino ai disastrosi film realizzati coi compagni di scuola, sono arrivato alla narrativa in prosa quasi per caso, scoprendo un universo difficile, ma illimitato e bellissimo. Ho scritto "Ride into the sun", molti racconti e, quando non sono troppo preso dalle mie letture, mi dedico a un nuovo romanzo.
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