Nel divenire della nostra esistenza non concepiamo mai pienamente le nostre potenzialità, facciamo esperienze per arricchire i nostri bagagli sempre troppo tardi. Avrebbe detto mio nonno: « bisognerebbe essere prima boi e poi giovenche», quello che l’esperienza insegna nella maggior parte dei casi non ti servirà mai più nella vita e diventerà buona per dare consigli a qualche giovane che neanche ti ascolterà. Banalità e retorica nella frase: «la vita è troppo breve!», ma sei troppo preso dalla tua inadeguatezza al mondo e incapace di lungimiranze quando hai vent’anni per programmare il tuo futuro e se per caso lo fai, vuol dire che sei già vecchio. Il giorno in cui ti rendi conto che nella tua mente ci sono più ricordi che aspettative ed eventi futuri da coltivare ed attendere, ti sei già arenato nella spiaggia degli sconfitti. Allora se sei conscio di questo è già un punto da cui ripartire. Potresti non accorgerti mai degli errori che hai fatto e trascinare in giro come un cartello pubblicitario su un autobus il tuo sorriso ebete e scioccamente compiaciuto. Sapere realmente cosa è giusto o sbagliato per noi, non è così scontato, dovremmo accumulare innumerevoli esperienze per far venire a galla le nostre qualità (ammesso che ve ne siano) per girare con un sorriso ebete ma guadagnato. In tutto questo, quello che ci allontana di più dalla piena conoscenza di noi stessi, non è tanto la pigrizia, ma l’insieme di eventi esterni che spesso non ci aspettiamo.
Non siamo dei cani di Pavolov, abbiamo sempre possibilità per autodeterminare il nostro atteggiamento e non sempre ciò che la vita ci impone ha un’accezione negativa, ma per trovare una soluzione dovremmo avere sempre più tempo e invece ne senti sempre l’incessante e snervante ticchettio. Il mondo è pieno di personaggi che sono o sono stati dei perdenti, ma imparano convivere con le loro sconfitte anche se ciò implica il fallimento di altre persone. I buddisti affermano che da ogni avversità nasce un’opportunità, personalmente ho sempre avuto difficoltà a crederlo. Non c’è mai nessuna redenzione, nessun lieto fine, nessuna verità assoluta, solo vittorie effimere a addolcire queste sporche e pesanti vite; comunque meravigliose fino all’ultimo desiderio insoddisfatto prima di morire.
IL BAR
Entrò nel bar che fuori il cielo si stava gonfiando di scuro, appoggiò la sua valigetta nera sul bancone e bastò un’occhiata al barista per avere il suo Stravecchio.
Mise i gomiti sul banco, sfilò una sigaretta dal taschino della sua giacca, la accese e si stropicciò nervosamente gli occhi stanchi sotto gli occhiali. Ingurgitò il contenuto del bicchiere e ammiccò per averne un altro. Quel pomeriggio non aveva il suo solito fare giocoso e becero, sembra teso, nervoso, amareggiato e al tempo stesso stanco. Il Mondo probabilmente quel giorno non girava come avrebbe voluto e di riflesso a lui giravano visibilmente le palle. La smorfia sulla sua faccia era la somma delle sue rughe e delle sue delusioni, il rimedio più rapido per sciogliersi dalla sua condizione era una buona dose di alcol consolatore in luogo a lui tanto familiare. Davanti a sé lo scaffale pieno di bottiglie e dietro il vetro sporco che le rifletteva, le sigarette, le caramelle e alle sue spalle le vetrinette con le carte da gioco, la schiuma da barba, i biscotti ormai scaduti da tempo e sopra le bottiglie a forma di coppa del mondo commemorative dei mondiali dell’82’. La vecchia cabina insonorizzata del telefono, in giro sulle pareti la foto della Fiorentina del 55’, foto di viaggi e di gruppi di caccia. Tutto la dentro era rimasto fermo a circa quarant’anni prima soltanto più liso e consumato. I tavoli con le gambe metalliche sottili, sopra la formica sbocconcellata e bruciata dalle molte sigarette dimenticate accese, le sedie di plastica colorata, i riquadri amaranto scuro contornati da cornici piramidali in acciaio del bancone erano reduci dal rinnovamento del bar degli anni sessanta. L’odore lieve e quasi piacevole di muffa e quello forte di fumo stantio appiccicato alle pareti si mescolava al dopobarba “Acqua belva” dei vecchi e all’odore di ramato intriso nelle camice, creando un’essenza virile e unica. I colori più accesi erano: nel rosso fuoco del Campari, nel verde brillante della menta Fabbri e nel giallo fluorescente delle cedrate Tassoni, fermi nei loro recipienti di vetro a ravvivare l’ambiente cupo e fumoso.
Guardando le bottiglie, una in particolare colpì la sua attenzione, l’etichetta raffigurava una giovane ragazza bionda e immaginò sua figlia. Era tanto che non la vedeva o almeno questa era la sua sensazione. Pensò a lei in parco assolato in città, seduta su una panchina con un ragazzo a scambiarsi baci e promesse, che lui non avrebbe mantenuto; l’avrebbe usata, tradita e poi lasciata. In quel momento gli scorse addosso un odio e una rabbia folle ma fu solo un attimo. Era giusto che una ragazzina di sedici anni facesse le sue esperienze, i suoi errori e che si illudesse sull’esistenza dell’amore o che comunque continuasse a sognarlo. Da quando aveva divorziato, sua figlia era stata affidata alla sua ex moglie e vivevano a Firenze. Gli mancavano entrambe; la sua bambina e un po’ anche quella “vecchia stronza” come era solito chiamarla lui. Quando si erano sposati lui cercava una donna che gli potesse dare del sesso e che sopportasse i suoi vizi, lei si sentiva già in ritardo per sposarsi e cercava qualcuno a cui non importasse della sua vita sregolata e tormentata.
Inizialmente tutto era andato secondo le migliori previsioni ma dopo qualche anno i problemi e la mancanza di sentimento avevano stritolato le loro vite e di conseguenza il loro matrimonio. Ormai di loro insieme era rimasto qualche foto, le telefonate formali, l’assegno per gli alimenti con cadenza regolare e soprattutto la piccola Samantha, l’unica cosa che li legava orgogliosamente. Mentre era assorto nei sui pensieri il barista si sporse dal bancone, appoggiò una mano sulla valigetta nera e disse:
«Come è andata oggi Vasco?»
«Non bene! Sono sempre stato avanti e poi un tiro sfortunato e ho perso la concentrazione.»
«Era più bravo di te?»
«No ma…….» prima che potesse finire, lo interruppe.
«L’ha sempre detto i’ tu babbo che eri il meglio fico di’ bigoncio»
e continuò perdendo per un attimo la voce.
«È che ti distrai troppo facilmente!»
indicò la valigetta
«C’è Tosca dentro?!?»
Fece cenno di sì con la testa. Tosca era il nome di sua madre e lui aveva voluto chiamare così la sua prima stecca da biliardo in suo onore; era solo un pezzo di legno d’ulivo regalatagli da suo padre per il suo diploma di ragioneria ma lui c’era molto affezionato e sentiva che non solo giocava meglio con essa ma gli portava anche fortuna.
Fin da bambino era stato affascinato da quel grande tavolo coperto di verde, quando riusciva appena a vedere solo il bordo e metà di quelle palle colorate che correvano rotolando. Per eseguire i suoi primi tiri doveva stare in piedi su una sedia e già a dodici anni riusciva a battere tutti gli amici di suo padre.
Era un piccolo fenomeno nel bar e la gente lo incoraggiava a diventare sempre più bravo, ma dopo qualche tempo il circolo ristretto di giocatori dilettanti di quel posto non gli bastò più e così cominciò a iscriversi a i tornei nelle grandi sale biliardi cittadine.
Prima di diventare maggiorenne era suo padre che lo accompagnava orgoglioso della dote di suo figlio, poi cominciò a viaggiare da solo e soprattutto a incrementare i sui vizzi. Ricordava quel periodo come il più felice della sua vita: vivere della propria passione, l’incontro di sua moglie e il primo rapporto di confidenza e complicità con una donna e soprattutto la nascita di sua figlia. Tornare a casa la sera, quasi sempre dopo aver spolverato i birilli sul tavolo, trovare sua moglie che preparava la cena, stendersi sul divano di pelle e prendere in braccio sua figlia, coccolarla e emozionarsi ogni volta rispecchiandosi in quegli occhietti così simili ai suoi. Gli anni a venire sarebbero stati una caduta verso gli inferi: l’abuso di alcool, sua moglie che se ne andava e lui che sempre più spesso si presentava completamente sbronzo ai tornei; perdendo nella migliore delle ipotesi oppure diventando rissoso e violento verso chiunque e brandendo la sua stecca come una spada. Ormai godeva ricordando quando era un giocatore riconosciuto e stimato, ricordava gli avversari più tosti e i tiri migliori fissando i sui trofei d’orati ma ormai appannati dalla polvere. Solo dentro a quel bar si sentiva a casa fra chi ancora lo salutava con affetto e un briciolo di ammirazione. Quei vecchi che lo ricordavano bambino, si erano tanto divertiti con lui prima che le cataratte, i reumatismi e i tanti acciacchi gli togliessero la forza e la gioia.
Lui era: “i’ meglio”, “l’unto dal signore”, ”il bocciatore” e tanti altri erano i suoi soprannomi. Era nato e cresciuto lì fra contadini filosofi, cacciatori avvinazzati e operai che si sentivano borghesi. Le storie che si raccontavano erano sempre le stesse, gli eventi pure. Per Natale ad esempio dopo che suo padre lo aveva portato alla messa, più per consuetudine che per spirito religioso. Si trovavano tutti nella sala in cui si giocava a carte, spostavano lungo le pareti tutti i tavoli, lasciandone solo uno al centro e a quel punto compravano da Alfio qualche panforte, si posizionavano a circa 5 metri dal tavolo e iniziava il gioco. Il tutto consisteva nel lanciare uno alla volta il panforte verso il tavolo e chi riusciva a farlo rimanere sopra aveva in premio il panforte. Il gioco veniva chiamato struscino. Tutti poi rammentavano di quando durante una partita di briscola in cui erano scorsi due fiaschi di vino, suo padre aveva sostituito gli occhiali di Meozzi con quelli di Galli che avevano la stessa montatura. Con il risultato che uno era ruzzolato in un fosso tornando a casa e l’altro concepì il suo terzo figlio, infervorato dal vino e dal fatto che sua moglie non gli era mai apparsa tanto bella. Si facevano ancora grandi risate rotte dal catarro e da varie imprecazioni le volte che veniva fuori quella storia e tutti si tiravano pacche sulle spalle. Solitamente lui era lì in mezzo a riascoltare per la milionesima volta quella storia ma li assecondava e rideva con loro perché non voleva svilirgli quel ricordo che celebrava suo padre e quel bar.
Aveva la maggior parte della sua vita là dentro. Da lì derivava anche la sua prima curiosità sessuale il giorno in cui spiando dal buco della serratura del bagno; vide la moglie di Alfio che si tirava su le mutande dopo aver pisciato. Lei non era certo una Dea greca ma quello spacco ricoperto di pelo aveva suscitato in lui una grande confusione: in parte per l’idea di fare qualcosa di sbagliato e di proibito, dall’altra per quell’ardore naturale e istintivo che muove ogni uomo a rientrare nel grembo di una donna. Non era mai stato un Casanova, non ne aveva avuto il tempo, i suoi passatempi erano prettamente ludici: la caccia, la pesca, le carte e naturalmente quel verde in cui lui dominava come un sovrano. Nelle sue trasferte di gioco capì velocemente che poteva sostituire il corteggiamento e le attenzioni per una donna con dei biglietti di banca, non poteva certo comprarsi il calore di un rapporto umano ma certamente poteva mescolare i suoi caldi liquidi con quelli di signorine compiacenti e venali. Adesso che ci pensava, anche il suo primo bacio gli venne dato là dentro, dalla figlia di Alfio, non aveva niente della femmina e tutto avvenne un po’ per scommessa e un po’ per curiosità.
Quella sera di luglio sembrava che l’estate dovesse ancora arrivare, l’aria era colma di umidità e il freddo si faceva sentire come in un giorno di fine settembre e un altro rovescio era pronto sotto il cielo. Forse la stramba e surreale situazione meteorologica, la consapevolezza di non essere più un giocatore di alto livello e il fallimento della sua vita sentimentale, lo spinse a riesumare vecchie situazioni gioiose legate al Bar Sport. Tutto era lì accatastato nella soffitta dei ricordi e a momenti trovava qualcosa di dimenticato da così tanto tempo da sembrare nuovo e intatto come quando vi era stato riposto. Riprese a guardarsi intorno e vide accanto a quelle quattro figure grigie e grinzose con le loro carte in mano e il gotto di vino a fianco; una sedia con una gamba rotta e riattaccata con del nastro adesivo marrone chiaro. L’aveva rotta lui quando giocavano ai cowboy e indiani e le sedie fungevano da cavalli immaginari; gli sembrò di sentirlo ancora Massimo che diceva:
« sparagli, smetti di farlo soffrire!».
«questo brocco zoppo non può esserci utile per la fuga…»
Non aveva ancora terminato la sua frase che le loro fantasie di colpi di pistola e di echi di zoccoli scalpitanti vennero bruscamente interrotte da Alfio che imprecava e gli urlava contro:
« delinquenti! E ve la fò pagare la seggiola.».
Sempre con lo stesso gioco una volta avevano creato delle frecce incendiarie e dato fuoco al pagliaio di un loro vicino di casa. I pompieri avevano impiegato due giorni per spengere il fuoco e nessuno ancora conosceva i colpevoli. Massimo era l’unico amico d’infanzia che gli era rimasto, forse perché affine a lui e devoto a quello strano Dio fatto di alcol, gioco e vizio che ha il suo tempio nei bar e nelle sale corse. Il suo viso era sempre paonazzo e cianotico, il naso e le guance rosse come un pomodoro maturo. Contava le coliche e ulcere come si può contare la sabbia nel deserto ma ancora quando capitava di vederlo entrare nel bar alzava il pugno e lentamente tirava su pollice e il mignolo come quando si mima una cornetta del telefono e diceva:
« Due dita di whisky, grazie!».
Aveva avuto anche lui il suo risicato angolo di paradiso, purtroppo la stessa donna che glielo aveva donato era la stessa che lo aveva ripreso e da allora bere era diventato non solo un passatempo gustoso ma una necessaria esigenza per il suo corpo e la sua mente.
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