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Romantici stronzetti in via di estinzione

Romantici stronzetti in via di estinzione
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Consegna prevista Febbraio 2024
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Marco ha venticinque anni, non è ancora laureato ed è astemio: tre condizioni esistenziali che non hanno niente a che a fare l’una con l’altra, eppure, in una Cosenza gialla e smunta, alla fine di un venerdì sera di un gennaio del duemilasei, Marco ha stampato in faccia un sorrisino da stronzetto che non vuole andare via.
Lui sa il perché, ma ancora non l’ha realizzato del tutto.
Marco ha conosciuto Deb: una diciassettenne fidanzata che ha una ossessiva passione per il porno e una spiccata propensione all’insicurezza emotiva e quindi al tradimento. In una parola: una stronzetta.

Perché ho scritto questo libro?

“Romantici stronzetti” è l’ultima storia d’amore possibile prima dell’avvento della tempesta perfetta dei social. Dopo, niente è stato più come prima, e provare a salvare qualcosa dall’estinzione ha trasformato un’esigenza in un’urgenza. La storia di Marco e Deb corrisponde al mio tentativo personalissimo di fissare nel tempo delle emozioni estinte. Scriverlo mi ha permesso di ritornare in quel passato come un documentarista del futuro: emozionato spettatore e ironico complice.

ANTEPRIMA NON EDITATA

1. Stronzetti

Le mezze misure non esistono:

o è tutto subito, o è unico così.

Inklassificabile – Piccolo Gruppo Intimo

Nel tentativo di essere all’altezza della stronzetta che ho di fronte, recito come ho sempre fatto, la parte del finto interessato: strabuzzo gli occhi o li stringo forte; dico Ma va? Oppure, Dai? Metto una mano sulla bocca al momento giusto, oppure mi strofino la nuca con la sinistra. Un repertorio di gesti ampiamente studiato nel corso degli anni e messo in pratica con metodo ed esperienza. A ogni argomento introdotto nella conversazione, tendo a dare l’impressione di un ascoltatore con un QI a metà strada tra un abitatore del profondo e un tuttologo. L’effetto ricercato è quello di apparire come un verginello alla sua prima volta: tremendamente curioso e mortalmente intimorito.

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Quindi, inequivocabilmente affascinante.

Stasera però la strategia non funziona.

Con la stronzetta di cui sopra, la mia superiorità nei suoi confronti – e in generale verso questo tipo di casualità sentimentali da venerdì sera post-concerto – è inutile: preferibile è, invece, un livello standard, più umano: all’altezza di due persone che preferiscono guardarsi negli occhi, restare qualche secondo in silenzio, mettersi in ascolto l’una dell’altra. Due persone che decidono senza dirselo, di dimenticare tutto quel bouquet di sovrastrutture che costituiscono l’ossatura di qualsiasi conversazione pronta a schiantarsi a centottanta contro il muro del niente, e rallentano l’andatura dei loro passi, per godersi meglio un bel paesaggio.

L’Irish pub è denso di fumo e di persone con pochi margini di spostamento. Il DJ set martella senza pietà bassi indie rimbalzanti tra schiene sudate, cosce velate da nylon trenta denari e magliette nere con stampe fluo, saturando ogni interstizio della sala concerti e garantendo un clima tropicale e appiccicoso. All’esterno, Cosenza concede dieci gradi a un inverno particolarmente rigido mentre qui, al calduccio, il bancone di legno Belfast style è asserragliato da ragazzi che cercano di scambiare i loro scontrini con birre medie in boccali di plastica morbida.

I Plebiscito Station hanno finito una mezz’ora fa di vomitare sul pubblico la loro elettronica sintetica partenopea e, per essere un gruppo che arriva dalla vicina terra dei fuochi, l’accoglienza è andata ben oltre le più rosee aspettative.

Avevo ancora addosso l’anonimo piumino blu della Nike quando, intorno alle undici, dal fondo della sala, li ho visti salire sul palco: sono arrivato giusto in tempo per perdermi l’apertura dei Losty. Quando si sono spente le luci, il ragazzo dietro al synth ha detto Preparatevi a scopare! Vi faremo scopare! Tradendo un accento tutt’altro che nordico. Il pubblico cosentino sembrava non aspettasse altro che un incoraggiamento orgiastico alla trasgressione, per sentirsi autorizzato a perdere il controllo. Io guardavo le nuche scoperte della gente che avevo davanti a me e gettavo occhiate salvifiche verso il banchetto del merchandise: unico punto luce fisso, in mezzo a una giungla di strobo. Poi, lo scrosciare degli strumenti e la pessima acustica dell’Irish hanno fatto il resto: a serata iniziata, mentre mi interrogavo su come avrebbero fatto i Plebiscito Station a farci scopare tutti quanti, mi levavo tre strati di vestiti fino a mostrare orgoglioso il logo del C64 stampato sulla mia t-shirt gialla.

Le panche ai margini della sala concerti dell’Irish sono montagne di maglioni arrotolati a felpe con cappuccio sorrette da torri instabili di Eastpak e borse verde militare ricoperte di pins. Quando tutto finirà, ognuno andrà a cercare le proprie divise, rovistando in mezzo a cumuli di vestiti come farebbe un robivecchi di Porta Palazzo, alla ricerca di qualcosa che gli ricorderà quello che indossava prima che la serata iniziasse: un indumento che riconosce suo, perché fintamente unico. In alternativa, complice la stanchezza alcolica e la voglia di respirare aria sana, frettolosamente ne sceglierà uno somigliante. Una felpa, un piumino, un maglione slabbrato, qualunque cosa andrà bene, basta che si esca fuori il prima possibile. Indumenti, vestiti e felpe sono in sharing e quindi sempre le stesse, così come sono sempre le stesse le persone che frequentano i soliti locali. Si scambiano i vestiti in una lotteria silenziosa, senza che nessuno decida davvero qualcosa o, peggio, infili, in mezzo alla questione, delle regole.

Funziona così nei weekend d’inverno di questi primi anni zero.

Il venerdì cosentino che non finisce all’Irish Pub, ma che sfila via dall’altra parte della città, verso una periferia ormai conurbata e disegnata a carboncino, per un’ultima birra, un’ultima discussione spenta, per alcuni una canna disperata in attesa che quel qualcosa di migliore finalmente accada, ma senza fretta, che certe cose a volerle davvero c’è il rischio che succedano veramente.

Lei non l’avevo mai vista prima, eppure Cosenza non è una metropoli come Torino. I ragazzi frequentano l’università-ponte e i posti dove passare le serate si contano sulle dita di una mano. Di vista ci si conosce tutti e i gradi di separazione difficilmente superano il tre. Spesso capita che spunti una ragazza, un’amica di amici, che, sfuggita al rastrellamento sociale di città piccole come Cosenza, dopo essersi presentata, dice Da qualche parte ci siamo già visti. Oppure capita che arrivino ondate di ragazzi dall’entroterra della disperazione che, con la scusa di un concerto, riscattino un giorno della settimana alla noia del vivere quotidiano in province ai margini della riconoscibilità, come Lamezia o Catanzaro.

Quando noto il suo fermacapelli rosso in mezzo al mare di capelli neri del pubblico dell’Irish, ho la netta sensazione di averla già vista almeno tre o quattro volte in giro: alla discesa di piazza Kennedy, oppure al bar sotto l’aula Caldora, o ancora al Prince. Accade sempre così con tutte.

Quello che mi colpisce di lei è un’alchimia di posture, empatia ed estetica che destabilizza ogni mia certezza sui motivi del mio essere lì in quel momento e, in generale, su cosa stessi facendo della mia vita.

(Detta così, sembrerebbe davvero tirata via. Eppure, solo guardando la cosa da una certa distanza temporale ed emotiva, ho realizzato che fu quel dettaglio, la prima cosa di lei che mi colpì: un fermacapelli rosso in mezzo a un mare di capelli neri.)

Si chiama Deb. Ma non lo saprò fino a quando non ci saluteremo poco prima che questo venerdì sera ci lasci in bocca il sapore metallico della fine.

– Comunque, io sono Marco.

E, nell’istante stesso in cui realizzo di averle teso la mano per stringere la sua come se fossimo amici di lunga data, mi rendo conto di essere caduto nel tranello della formalità da cui avevo cercato di tenermi lontano per tutta la serata.

È lei a tirarmi fuori. Sorride e mi dice che gliel’ho già detto che mi chiamo Marco e che se domani dobbiamo andare a vedere La Febbre, è il caso di scambiarci i numeri.

Io ritiro la mano e la metto in tasca con un movimento ampio e goffo mal celato da scusa per prendere il cellulare.

L’ultimo punto della serata è suo. Incasso, ma ormai non ha più nessuna importanza vincere o perdere questa partita.

Mi rannicchio dentro un piumino anonimo della Nike che sembra proprio il mio e che saprà di fumo per le prossime ventiquattr’ore, e aspetto che il parabrezza della Twingo finisca di sbrinarsi. Ripenso con intensità inedita ai passaggi che mi hanno condotto fin qui. Esalto in particolare tutti quelli dove il pubblico immaginario ha apprezzato e applaudito i migliori scambi di battute del protagonista con la ragazza dal fermacapelli rosso, mentre riposiziono tutti gli altri, dentro la cornice di una messa in scena teatrale di uno spettacolo immaginifico, roboante, al limite del grottesco.

Eccomi, dunque. Regista inconsapevole di quello che sarà, all’inizio di qualcosa che c’è: seduto, infreddolito, senza nessuna voglia di andare dall’altra parte della città per prolungare la serata a tutti i costi. Io, in attesa: con il rumore della ventola a farmi da colonna sonora e la strada illuminata che prende forma attraverso il vetro, in uno screensaver costituito da milioni di pixel-goccioline d’acqua. Io, l’alieno dentro la sua astronave, incapace di fare ritorno su Marte. Ho venticinque anni, non sono ancora laureato e sono astemio. Tre condizioni esistenziali che non hanno un cazzo a che fare l’una con l’altra.

Ma allora, perché non riesco a togliermi questo sorrisino da stronzetto?

2. Tony Russo

Sono in macchina. È il millenovecentonovantuno. Sta guidando papà, al suo fianco c’è mamma. Siamo stati alla Standa e adesso torniamo a casa. Io sto facendo dei cerchietti sulla condensa del finestrino e ho ancora con me, da stamattina, il mio nuovissimo Jolly Invicta giallo, stracarico di libri di scuola. Ho il raffreddore e penso al tema di domani.

E io il tema non lo so fare. Non so cosa scrivere nel tema. Non so quali dei miei pensieri scrivere e non so neanche quali siano davvero i miei pensieri. Poi il tema di attualità: a me l’attualità non interessa mica. Cosa racconto domani? Farei mille compiti di matematica al posto di uno d’italiano. Come si fa a conoscere l’attualità? L’algebra è più facile: studi, fai gli esercizi, controlli le soluzioni e se il risultato è quello lì, vuol dire che hai fatto bene. Italiano non è così. Italiano devi scrivere i pensieri, stando attento a non sbagliare le doppie. Anche se provo a controllare, sul Piccolo Palazzi non riesco a trovare le parole subito. Ci metto troppo e perdo un sacco di tempo.

In mezzo ai libri di scuola, so esserci un fumetto. Un fumetto di un supereroe che si chiama Necron. Abbiamo fatto uno scambio con Tony Russo: io gli ho dato Hellingen, il più bel numero di Zagor che mi ha regalato mio zio, e lui mi ha dato Necron – la Nave dei Lebbrosi.

Tony Russo ha tre anni più di me e fa ancora la prima media. È stato bocciato anche l’anno scorso e siamo quasi compagni di banco. Tony Russo siede sempre in ultima fila vicino a Cianciaruso, ma la professoressa di matematica crede che obbligandolo a cambiare posto durante le sue ore e affiancandolo al sottoscritto, egli possa, per induzione, imparare, tra le infinite possibilità, il segreto delle operazioni con i numeri con la virgola. Per questo motivo, io e Tony siamo quasi compagni di banco.

Tony si muove con agilità. Nell’ora di educazione fisica è quello che gioca meglio a palla a mano. Riesce a tenere il pallone tutto dentro un palmo. E salta, salta alto e segna, segna sempre. L’ultima volta, mentre si formavano le squadre, lui mi sceglie prima di chiunque altro e mi ordina di andare in porta, che si vede, dice, che sono un portiere nato. Io sono basso e la porta per me è fuori misura, ma quando la palla è alla mia altezza, nonostante il cemento brufoloso del campetto nel cortile del comprensorio scolastico Misasi, io mi butto. Mi butto perché penso che la fiducia che Tony ha riposto in me, debba essere ripagata con la stessa moneta: lui segna e io non faccio segnare.

Questa sintonia nell’ora di educazione fisica mi ha fatto evitare ogni vessazione che indiscriminatamente lui elargiva ai miei compagni di classe. Grazie alla sua aura benefica, ero immune anche al bullismo senza senso di alcuni ragazzi della terza media. Ero in qualche modo un suo protetto e in questo ruolo secondario mi crogiolavo ignaro di quando sarebbe arrivato il giorno del contrappasso. Devo aver guadagnato ancora più punti-rispetto nei suoi confronti, il giorno che mi portò con lui nel bagno dei maschi del secondo piano per stampare una canna, insieme a dei suoi vecchi compagni di classe. Un invito a un club esclusivo di gente all’alba dei tredici anni. Non so cosa mi fece propendere per un secco No all’invito di Tony a fare due tiri, ma capii dal modo in cui mi guardò, attraverso una coltre di fumo denso che gli usciva dalla bocca, stingendo un occhio e sforzandosi di tenere aperto l’altro, che quel mio diniego era stato apprezzato.

– Non c’è problema, Marcoli’.

Per la prima volta non mi chiamò per cognome, pratica usuale tra compagni di classe per tutta la durata degli anni della scuola media e del liceo, ma usò quel diminutivo tronco dal retrogusto di vezzeggiativo di vicinanza, che mi fece sentire per un attimo al suo stesso livello.

Non ci fu nessun problema nel bagno e non si fece nessun problema neanche quando, vedendo dei miei grezzi disegni che avevo fatto sul mio diario di Goldrake, me lo sottrasse davanti ai miei occhi increduli, durante l’ora di matematica.

– Te lo faccio io, un disegno.

Non fu importante se volessi o meno un suo disegno a fianco delle firme colorate di Elisa o Stefania, o a margine dei miei dozzinali tentativi di disegnare Topolino o Zio Paperone. Tony aveva voglia di disegnare la testa di un coniglio enorme sulla pagina corrispondente al giorno del suo compleanno. Lo fece in modo preciso, nonostante la sua incapacità nel fare qualsiasi azione che richiedesse l’uso di una manualità creativa. Marcò i contorni, soffermandosi sui dettagli come se una presenza invisibile guidasse i suoi gesti. Solo molti anni dopo, capii che la sua rappresentazione così precisa e meticolosa era una sorta di grande cazzo antropomorfo. Un totem fallico che solo un ingenuo sbarbo come me avrebbe potuto scambiare per il volto caricaturale di un innocuo coniglio, sebbene l’opera d’arte del Russo giocasse proprio verso questa ambiguità della rappresentazione.

La mia ingenuità Tony l’aveva capita bene e aveva capito che, dopo essere stato già bocciato due volte, se non voleva perdere ancora un altro anno, aveva bisogno di validi alleati nella guerra contro il corpo docente incarognitosi nei suoi confronti. La mia persona, assolutamente ignara delle cospirazioni perpetrate alle sue spalle, era lo scudo ottimale della crociata del Russo: ben voluto dalle professoresse, quasi primo della classe, figlio di genitori benestanti.

La strategia messa in atto, funzionava perfettamente.

Tony era il vate del mio ingresso all’interno di una società gerarchizzata dalla forza bruta, in cui, per non venire schiacciato, dovevi essere protetto e, per superare lo spietato triennio della scuola media in una città come Cosenza, dovevi essere amico delle persone giuste.

Niente di troppo diverso da un virtuoso sistema Stato-Mafia, sebbene in scala minore.

E io, ci stavo dentro fino al collo.

2023-05-24

Aggiornamento

Secondo aggiornamento sulla campagna. Obiettivo 20% raggiunto e superato. Grazie. =) Il prossimo è fissato al doppio: 40%. Al raggiungimento del 40% ho deciso di fare un regalo a tutti i miei sostenitori. Vi sarà inviato il pdf di un racconto inedito dal quale sono partito per scrivere i Romantici Stronzetti che state sostenendo. Il titolo del racconto breve è Pantaloni Neri, Luce Gialla. Inoltre a breve, ci saranno delle novità "musicali" che vi accompagneranno nella lettura. Tenete d'occhio Insta. Un paio di piccoli incentivi intimi per far sì che con il passaparola si possa raggiungere un altro obiettivo di questa campagna. Ci vediamo al 40%! D'
2023-05-13

Aggiornamento

Primi sostenitori e prime sostenitrici - o in due sole parole prim* sostenitor*- , una grande G che sta per Grazie! A 24H dal lancio della campagna abbiamo raggiunto e superato la soglia del 10%. Sembra pochissimo, ma in realtà è davvero tanto considerando che molti di voi avevano già letto in anteprima i romantici qualche anno fa. Per gli altri vi ricordo che preordinando una copia avete sbloccato il pdf contrassegnato come "bozze". In realtà non sono bozze, ma è il testo ancora non editato dalla casa editrice, quindi di fatto l'intero romanzo così come l'ho scritto. Ora non crediate che il vostro dovere sia finito qui. =)) (emoji anni 90 da sturbo). Vi terrò aggiornati sulla campagna e nel frattempo voi diffonderete al meglio il verbo nelle vostre cerchie più prossime. Se leggendo i romantici vi viene in mente qualcosa che potrebbe aiutare la campagna, oppure avete voglia di lasciare un commento caustico su quello che ho scritto, c'è tutto lo spazio del mondo nella sezione commenti. Grazie ancora. Al prossimo aggiornamento. D'

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Giuseppe Franco
Giuseppe Franco è nato a Cosenza il 3 febbraio del 1977, vive a Torino da sedici anni. Diplomato in tecniche della narrazione alla Scuola Holden, è scrittore, sceneggiatore e insegnante. Laureato in ingegneria, ha diretto cortometraggi, scritto lungometraggi e numerosi racconti, molti dei quali pubblicati in antologie da Feltrinelli, Postcart Edizioni, Giulio Perrone Editore, Terre di Mezzo, Albus, Edizioni Erranti, Le Nuvole, Flashfiction. Ha tenuto diversi corsi di scrittura creativa e
narrazione a Cosenza, Torino e Potenza. È stato storyteller del progetto Hangar Torino della Regione Piemonte ed ha insegnato per tre anni Narrazione per immagini all'Università Popolare di Torino. Oggi è insegnante di Fisica alle scuole superiori e continua incessantemente ad occuparsi di scrittura.
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