Vivi questo libro senza cercare di cogliere ciò che voglio dirti, senza pensare a tediosi dogmi esistenziali sul pensiero dell’autore, perché, semplicemente, in me non c’è niente di tutto ciò. Perché io non sono né scrittore, né autore. Altro non sono che un cantastorie che ci teneva a narrarti un racconto lunghetto. Avrei senza dubbio preferito farlo davanti ad un fuoco mentre si beveva qualcosa, ma la realtà dei fatti mi incatena alla penna e questo è.
Ciò che invero vorrei che ti rimanesse è il concetto di scardinarsi da tutte le pippe mentali che caratterizzano la rigidità di chi produce e fruisce i libri. Non credi che sarebbe meglio leggere per il semplice gusto di farlo, spinti dal recondito ed infantile desiderio di scoprire come va a finire? Non sarebbe meglio vivere l’attimo dimenticandosi di morali, conflitti e robe simili? Credo che il piacere del momento debba oltrepassare questi assiomi, superare la concezione che il libro aveva qualche decennio fa ed accettare che oggi il mondo è cambiato. Va veloce, è consumista, è sfrenato, è tutto e subito. Siamo rimasti in pochi a gioire grazie ad occhi che setacciano pagine tinte d’inchiostro. Ancorarsi a regole date da matusalemme del passato per farne delle leggi di inalienabile veridicità rappresenta il più grande ostacolo alla creatività di chi scrive, nonché un limite al giudizio di chi legge.
I grandi vanno studiati con ferrea contestualizzazione, vanno compresi e tradotti in citazioni ed ispirazioni. Nessuno tra l’olimpo degli autori dovrebbe rappresentare un limite alla fantasia di metriche strampalate, pena la fine inesorabile della scrittura che è, per definizione, creativa.
Detta in altre parole,
Leggi ed Enjoy!
PROLOGO
Lalazonia, Terre di Metallia
Tommaso, Timoteo e Gianmario erano coperti di merda e sangue e avevano così tanta fame che persino le betulle vicino al loro muso gli parevano succulente.
I tre fratelli si erano persi ormai da molto tempo e non sapevano bene dove si trovassero, tanto meno avevano idea di come tornare a casa.
Una cupola di foglie e fronde li riparava dai cocenti raggi del sole, che altrimenti avrebbero scottato la loro pelle in un attimo.
Il terreno era molto più compatto rispetto alla fanghiglia cui erano abituati e il manto di fili smeraldo faceva d’ogni movimento una goduria per gli stinchi.
La loro casa non gli mancava, né tanto meno desideravano che la guerra finisse. La guerra, che da centinaia di anni contrapponeva omini e bestie, continuava ora più che mai a adornare Metallia di cadaveri.
I tre fratelli erano tipi semplici e di strette vedute, abituati a maneggiare la terra e non al mestiere delle armi, che tuttavia gli riusciva piuttosto bene. Non comprendevano bene le tattiche militari, gli piaceva arrivare subito al dunque, e facevano sempre sgorgare sangue.
Tanto sangue.
Sangue del nemico, l’unica altra razza intelligente dell’arcipelago. Mostri orribili e malvagi che sbranavano quelli come loro in uno sterminio di razza crudele e insensato.
La prima volta che si erano scontrati contro i mostri era stato vicino alle paludi a est di Passobruno, dopo aver seguito le loro tracce per un paio di giorni. Ed era stata un’orgia di sangue, subito; quelli avevano tentato di sopraffarli con spade e frecce, ma loro erano abituati alla vita da campo e la guerra non li impensieriva del dipiù.
E adesso, buco di erba per buco di erba, bisognava combattere e sterminare l’invasore, con i denti e con le zampe. Ordini semplici per esseri semplici, gli unici che Tommaso, Timoteo e Gianmario avrebbero potuto capire nella loro minuta testicciola.
Erano coperti di merda e sangue e avevano così tanta fame che stavano per mangiare i sassi che si accatastavano a formare una catapecchia pochi metri più in là.
Il sole coceva sulla radura e una lieve brezza cullava i freschi fili di prato tra le loro zampe. E fu proprio il venticello a fargli percepire un odore acre, sporco.
Il tipico odore di mostro.
Stavano all’erta, pronti a caricare al primo avvistamento.
Non sapevano bene dove si trovassero, tanto meno avevano idea di come tornare a casa.
Ma non importava, la priorità era fare la pelle ai bastardi.
Si lasciarono la cupola di foglie e fronde alle spalle e si trovarono in una radura, sotto il sole cocente che faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica.
Fu solo allora che videro quattro orribili mostri bivaccare sotto un albero, vicino alla darsena del fiume Albula. Se ne stavano sdraiati a far niente e non sembravano averli notati.
Gianmario, il più robusto del trio, fece cenno ai fratelli di caricare i due a destra. Lui avrebbe preso quelli sulla sinistra.
Presero la rincorsa e caricarono all’unisono, piombando sui nemici come maiali sul limo.
Non diedero tempo ai quattro disgraziati nemmeno di tentare di difendersi che già era finita.
Gianmario stava facendo festa sul suo doppio bottino, mentre Tommaso si apprestava or ora a staccare la testa al suo bersaglio. Anche Timoteo riuscì a trionfare sulla sua preda, anche se dovette inseguirlo per qualche metro perché non fuggisse.
La creatura che ora giaceva ai suoi piedi stava crepando in una pozza di sangue e budella. Era più minuto degli altri tre, meno della metà, ma non meno terrificante.
Rantolando, Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano prima di spirare, poi smise di contorcersi e lasciò che le viscere gli fuoriuscissero del tutto dal ventre.
Il verso e la vista del cadavere fecero rabbrividire Timoteo. I suoi fratelli, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con zampe senza zoccoli, bipedi, quella pelle d’un bianco nauseante, e senza cotenna. Ma nonostante fossero orribili, erano comunque succulenti.
Timoteo si unì all’orgia di sangue insieme ai suoi fratelli. Preferiva la ghianda, lui, ma in tempo di guerra ogni omo è una razione. E poi, se avessero disubbidito agli ordini del Generale Sporcotus, sarebbero diventati loro stessi la cena.
CAPITOLO I – ANGELA STRAUSSEN
Agunnaryd, Svezia, 4 maggio 2023
La punta del piede tintinnava in maniera così precisa da sembrare un metronomo, mentre i timori ancestrali trovavano sfogo nelle gore di sudore sotto le ascelle.
Si passò tra le dita il cartellino plastificato che gli ciondolava dal petto.
L’ansia era tale che voleva essere sicuro di non aver dimenticato il suo nome, così lo lesse tra sé e sé Dott. Rupert Gash. Gli dava conforto come la sicurezza infantile del grembo materno.
Ripensò a quante volte aveva inventato gingilli da premio Nobel, senza mai vincerlo. Si figurarono nella sua mente le notti insonni passate a sviluppare Melia. Così aveva chiamato il suo programma, valido ad automatizzare la maggior parte delle mansioni aziendali. Compresa la sua e quella dei suoi diciannove colleghi licenziati nell’ultimo anno.
L’asettica sala d’attesa profumava velatamente di lilla e uva spina, odore turbato dal cipollino tanfo del Dottor Gash.
La sepolcrale porta davanti a Rupert si aprì in un sussulto.
Scatto meccanico per apertura a distanza. Marchio: iKrenia.
Le luci tagliate di metà pomeriggio si riflettevano sulla targhetta incollata alla porta, rendendone impossibile la lettura. Quando vi passò davanti, il cambio di prospettiva rese visibile ciò che prima non lo era.
Un nome, senza dottore a fargli da apripista.
Lettere angeliche che di celestiale hanno solo la cadenza:
Angela Straussen.
L’ultima persona da incontrare quando sei nel bel mezzo del cammino della tua vita. Presagio di sventura se hai due pargoli, due mutui e due mogli.
In un istante, il disgraziato varcò l’uscio.
Forme angeliche delineavano un metro e settanta di gnocca.
Boccoli dorati piovevano su labbra carnose. A nord, naso puntuto. Ancora più a nord, fessure perfette incorniciavano iridi zaffiro.
Rupert si sforzò per non colare bava dalla parte destra della bocca.
Il turbinio ormonale fece passare ogni preoccupazione, ma non placo l’esalazione cipollina.
“Buon pomeriggio, Signorina Straussen.” esordi impacciato il programmatore.
“Buon pomeriggio, Dottor Gash. Si sieda.” la gnocca gli fece cenno di accomodarsi.
Ufficio asettico, quello di Angela. Scrivania al centro, libreria a destra, ampia vetrata dietro a dipingere grigi orizzonti.
Nessuna pianta, nessun ornamento.
Nessuna distrazione.
Sedie da esecuzione accolsero il condannato, che tentò di dare sfogo a giustificazioni elaborate durante l’attesa.
La voce angelica stroncò ogni iniziativa e incalzò:
“L’analisi della performance degli ultimi sei mesi ha visto aumentare la produttività complessiva del gruppo del 9%. Un risultato davvero strabiliante, i miei complimenti Dottor Gash. Non avevo mai visto nulla del genere”
Rupert fu colto da un qualcosa di adolescenziale, che gli ricordò tutte quelle volte che aveva superato un esame senza studiare.
“Grazie signorina, ma posso ancora migliorare. Sto lavorando ad un aggiornamento per Melia che rivoluzionerà tutto!”
Angela non sorrise e apostrofò:
“Non ce ne sarà bisogno. La sua creatura è diventata abbastanza intelligente da riuscire ad aggiornarsi da sola. Il suo lavoro nel gruppo iKrenia può ritenersi concluso.”
Seguirono attimi di silenzio.
Quei momenti gelidi non raffreddarono le forme della gnocca. Pugnalarono però Rupert, carico dell’effimera speranza ritrovata poco prima.
Il dottore farfugliò:
“Non è… Possibile… Melia non è ancora pronta. Serviranno almeno due mesi di incessante lavoro prima che possa fare una cosa del genere…”
“È qui che si sbaglia. Ho usato il backup del suo computer e ho lavorato io stessa all’aggiornamento. Trovo il suo lavoro impeccabile, ma piuttosto confusionario. A Stanford dovrebbero insegnarvi più disciplina, Dottor Gash.”
La lingua di Rupert non si mosse. Le ascelle spruzzavano liquido cipollino come se piovesse.
“Il contratto che la vincola all’azienda prevede che Melia sia di proprietà del gruppo iKrenia. Inoltre, non può inserire gli altri programmi da lei sviluppati in questi dieci anni nel suo curriculum, sa come funziona il segreto aziendale. Prenda, questa è la sua ultima busta paga, ci tenevo a dargliela di persona.”
Occhi spenti fissarono il pezzo di carta. Millecentocinquantasette euro costituivano una paga indegna per una delle menti più brillanti del pianeta.
Rupert ripensò a quando dieci anni prima accettò quel lavoro, convinto che fosse temporaneo. Non lesse le milletrecentonovantotto clausole del contratto diabolico che lo vincolarono al gruppo iKrenia. A vita. Non riuscì a dar voce alla frustrazione che lo attanagliava. Trovò conforto nelle forme della gnocca, ora più provocante che mai.
Per svariati istanti osservò la camicia di Angela, bianchissima e priva di gore. Si accorse che era la stessa di dieci anni fa, quando era ancora stagista alle risorse umane.
La stessa stagista che gli fece firmare il patto con il diavolo. La stessa stagista che ora ricopriva una delle posizioni più alte del gruppo iKrenia.
La mente di Rupert avrebbe potuto riflettere su molte cose. Prima fra tutte, la vita agiata che avrebbe vissuto se avesse lavorato in proprio. O il Ferrari che avrebbe potuto comprare. Ma lascio invece che fossero istinti omicidi a colorargli l’anima. Desideri malvagi non rivolti all’azienda che l’aveva prosciugato, ma verso la donna angelica che lo rese possibile.
Centoventi kilogrammi di bove americano si levarono dalla sedia da esecuzione e sbatterono i pugni nella scrivania.
Mobile asettico, inamovibile come la padrona. Solido stampo iKrenia.
“Qualcosa non la convince, dottor Gash?”
Nessuna risposta. Per ora.
“Le assicuro che le nostre pratiche di licenziamento sono conformi alla normativa centotrentadue tris, varata un lustro fa dal governo Svedese” toni gelidi, marmorei, frutto di emozioni placate dalla pratica.
“Lurida sgualdrina… Come hai potuto mettere le mani sulla mia Melia?”
Lacrime copiose sudarono dagli occhi coperti di vetro e metallo. Il ricordo di tutte le nottate passate a completare la sua creazione si faceva pulsante.
Legame passionale, quello tra il Dottor Gash e le sue macchine.
“Lei era la mia più grande creazione e tu l’hai insudiciata… ” per la prima volta in dieci anni diede voce ai suoi pensieri: “Ma più che altro… come può una succhiacazzi come te essere riuscita a terminare la mia arte?”
L’espressione asettica rimase tale:
“Sa dottor Gash, io non ho legami. Non perdo tempo a badare né ai mocciosi, né ai compagni. Non vado a cena fuori, non ho amici. Non vedo i miei familiari da parecchio e non ho un cane. In questi dieci anni ho osservato il suo lavoro ogni giorno in silenziosa umiltà. Mi sono applicata fino a notte inoltrata e ho appreso tutto ciò che lei poteva sapere. Lei ora è inutile, Dottore.”
Rupert sbatté di nuovo i pugni sulla scrivania.
La figura angelica non si scompose, le gambe incrociate regalarono attimi di canonica bellezza. Rimase seduta ad osservare la montagna che le si parava davanti e apostrofò poi con parole argute:
“Lei fino alle diciannove in punto di oggi è ancora un dipendete di iKrenia. Non le è permesso pronunciare vocaboli del genere, Dottor Gash. Trovo le sue affermazioni tanto fuori luogo quanto prive di fantasia, ma sorvolerò data la situazione.” Angela indicò i pugni, ancora serrati sul tavolo, e continuò: “Di questo, invece, dovremmo parlarne.”
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