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Rose e il fabbricante di ombrelli

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La Ragazza dei Fiori è la musa custode del Prato Fiorito, tappa essenziale per le persone alla ricerca di se stesse. La ragazza cura le sue piante e accoglie con gioia i viaggiatori e i loro accompagnatori: gli psicopompi. Ride quando questi atterrano a bordo dei mezzi più disparati, perché nel Prato Fiorito è normale che le piante vengano nutrite con musica e poesia e che le persone volino per mezzo di valigie, ombrelli e carriole. Ma questa routine quasi normale viene interrotta dall’arrivo solitario dell’Uomo con l’Ombrello. Tocca a lui, lo psicopompo prediletto della Ragazza dei Fiori, recapitarle un messaggio inaspettato: è chiamata a una missione vitale che la proietterà sulla Terra. Perduta tra le vie buie della Città di Polvere, in fuga da esseri bislunghi e malefici, riuscirà la Ragazza dei Fiori a risvegliare il vecchio fabbricante di ombrelli e a sciogliere il nodo che strangola le esistenze degli esseri umani bisognosi di Bellezza?

IL PRATO FIORITO

Crome, semicrome, minime e semiminime sfarfallavano nell’aria. Le note volavano frenetiche come una nuvola di farfalle persa nel venticello della primavera più tiepida. Sbattevano le proprie codine come ali, scorrendo sui filetti fluidi della corrente d’aria come se questi fossero le righe invisibili di un pentagramma. Le più avventurose e spavalde si alzavano verso l’alto mentre le più pavide guardavano verso il basso per la paura di perdere il punto dal quale erano partite.

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La musica era un flusso diretto a una destinazione sconosciuta che al suo passaggio diffondeva vibrazioni melodiose scorrendo sopra le chiome degli alberi, dentro le nuvole e poi giù verso i fili d’erba che oscillavano come capelli in un giorno di vento. La musica volava, veleggiando sull’aria come un airone, planando dolcemente durante gli “andanti”, per poi cabrare improvvisamente spinta da un “forte con brio”. Era La mer di Claude Debussy.

Tutto scorreva: le note, il tepore e i profumi. Se quella musica fosse stata un airone si sarebbe gettato in picchiata per poi risalire verso l’alto la corrente di quella splendida sinfonia, avrebbe virato seguendone le note per poi planare sulle cime dei grandi platani che circondavano il Prato Fiorito.

Il grande uccello avrebbe poi virato in discesa disegnando ampie spirali mantenendo il lungo becco puntato al centro del prato, come a indicare i fiori e le cose che spuntavano tra i fili d’erba. Questi oggetti sembravano un’allegra congrega di esseri magici radunatasi in quel luogo per un qualche festeggiamento propiziatorio.

La recinzione naturale delimitata dai grandi platani dava al prato una forma ovale, perfetta per il suo volo in planata, perché le leggi dell’aria non permettono raggi di virata precisi e per un uccello è molto più naturale volare descrivendo un’ellisse piuttosto che un cerchio perfetto. Scendendo in volo radente sull’erba sfiorerebbe così i fiori, che farebbero “ciao-ciao” oscillando sui propri gambi.

Nel Prato Fiorito le stagioni non venivano applicate dalla natura e vi si potevano trovare tutte le specie floreali possibili. C’erano le spighe di grano dorate che si dividevano lo spazio con i papaveri rossi di Siviglia. C’erano le primule con i loro petali di tutti i colori. C’erano i fiordalisi e intere cascate di mughetti profumati che oscillavano come spuma di mare a ogni soffio della brezza. C’erano le stelle di Natale, le più spavalde nel mostrarsi al di fuori delle festività comandate. E poi tulipani, iris, rose, calendule, crisantemi, gigli, orchidee e tutti i fiori che un fioraio potrebbe immaginare.

Ma la presenza di tutte le specie di fiori esistenti non era l’unica caratteristica magica di quel prato. Sparpagliati tra i ciuffi d’erba e le aiuole si potevano riconoscere oggetti che sarebbero stati bene in una casa di campagna. C’erano infatti dei libri dalle copertine rigide con i titoli impressi con la foglia d’oro; molti avevano illustrazioni disegnate a mano dai primi grafici britannici o da qualche artista parigino che per sbarcare il lunario accettava commissioni dalla stamperia sotto casa. Erano sparpagliati tra l’erba ma non avevano un aspetto trascurato; si vedeva che erano stati adagiati lì con cura. Alcuni erano in piedi sulla costa, appoggiati spalla a spalla gli uni agli altri, come tanti soldatini in pausa tra una lettura e una battaglia.

Vi erano poi delle scalette a tre o quattro gradini sparse qua e là in mezzo al prato. Erano di quelle che si aprono a compasso e che stanno in piedi da sole, con i gradini abbastanza alti da fare da sgabello. Erano dipinte a mano di un arancione vivace che faceva pensare subito all’estate, alle arance e alle spiagge. I loro gradini erano perfetti anche come scaffali, infatti vi erano appoggiati alcuni gruppetti di libri radunati per argomento.

Ma la carrellata degli oggetti apparentemente “fuori contesto” non era finita. Insieme ai libri di tutte le forme e colori e alle scale, spuntavano anche moltissimi dischi di bachelite e di vinile. Provenivano da epoche diverse e la loro età si poteva riconoscere dallo spessore, dal loro peso e, chiaramente, dal tipo di copertine. I più antichi erano infilati in buste di carta di forma quadrata che sembravano fatte dello stesso materiale usato per i sacchetti del pane. Queste erano semplici e con un foro circolare al centro che permetteva di leggere l’etichetta rotonda incollata nel mezzo del disco.

Altri avevano copertine molto più elaborate e artistiche, che si avvicinavano per contenuti ai libri con i quali condividevano lo spazio sul prato. Vi erano stampate le note biografiche degli artisti, i testi delle canzoni e, in alcuni casi, fogli di partitura. Quando un tempo le persone si dedicavano all’ascolto dei dischi in vinile non facevano altro: si sedevano nella loro poltrona più comoda, calavano la puntina nel solco e si lasciavano andare all’ascolto. Spesso capitava che si innamorassero di quella musica ed era in quel momento che la copertina del disco diventava un’importante fonte d’informazioni da leggere avidamente, alla ricerca di notizie, aneddoti e spiegazioni che trasformassero un semplice ascolto in un vero e proprio innamoramento.

Ma avrebbero avuto senso quei dischi di varie epoche senza un qualche strumento che ne permettesse l’ascolto? Certo che no! Infatti, a ben guardare tra le aiuole, oltre alle scalette si potevano scorgere anche alcuni strumenti ben noti: un grammofono, un mobile stereo in teak, un giradischi portatile di plastica e, stupore, un cilindro fonografico, di quelli che registravano e permettevano di riascoltare il suono su dei cilindri di cera, gli antenati dei dischi in vinile. Alla luce del sole, l’ottone dei coni diffusori del grammofono e del fonografo era di una bellezza abbagliante e non ci sarebbe stato da stupirsi se quelli fossero gli strumenti preferiti di chi abitava in quel posto.

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Paolo Agazzi
Nasce a Torino nel 1967 e, da dopo il diploma, la sua quotidianità è immersa nella tecnologia. Superati i quarant’anni, incontra il teatro e si riavvicina alla scrittura, scoprendo che i suoi testi sono molto adatti al palcoscenico. Dopo l’esordio con il suo primo spettacolo, “Cinquanta”, nel 2018 scrive e interpreta “Due uomini, un ombrello e una valigia”. Durante la quarantena del 2020, il copione viene sviluppato in quello che diventa il suo primo romanzo omonimo, e oggi, a distanza di tre anni, vede la luce la seconda opera della saga.
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