I
La storia che vede come protagonista Anelpide è probabilmente ignota a te, lettore, e sicuramente a me, scrittore.
Nulla di strano o incredibile ha avuto luogo quella notte, forse banale esito di un malessere corporeo o mentale.
Aveva fatto uno strano sogno, che lo vedeva come protagonista nelle vesti di un sovrano,
riverito e servito da un largo stuolo di fedeli cortigiani.
Si era appena alzato dal suo sfarzoso letto adorno di morbide coperte di seta e lino purissimo, decorate con un regale ricamo color porpora.
«Ben svegliato, Sua Maestà. Mi sembra ancora intontito dal sonno».
«Ma dove mi trovo?».
«Oh, Maestà, credo che una sostanziosa colazione la farà rinvenire totalmente dall’intorpidimento».
Sorrise. L’aggraziata serva guardava Anelpide con occhi ridenti e di un colore ceruleo guizzante. La sua veste, di scadente tessuto bianco, era avviluppata dal vento proveniente dalla finestra spalancata dinnanzi al letto del sovrano.
Era pieno giorno, la calda aria proveniente dal vasto deserto dorato poco riusciva a penetrare fra le stanze del castello, protetto da spesse mura di roccia che riuscivano a mitigare l’afa di quelle giornate.
Riluttante, Anelpide si alzò dal letto e fu subito aiutato dalla serva, pronta a sostenere ogni suo assonnato passo, che gettava a fatica.
Bastò un gesto della mano della donna affinché quattro esseri, chiamarli umani era un’iperbole, giungessero in tutta fretta nella stanza: erano di non ben chiaro sesso, molto esili e di statura bassa, coperti da capo a piedi da un lungo abito di sottile raso bianco, ben più usurato di quello della prima serva che aveva accolto Anelpide al risveglio, coperti in volto da una particolare maschera, molto simile a quelle usate dagli Elleni nei loro antichi spettacoli teatrali, più scura della pece, zigomi molto marcati, un piccolo foro rotondo ad altezza della bocca e due fessure poco più grandi a forma di mandorla ad altezza degli occhi, anch’essi corvini.
Con movimenti rapidi ma aggraziati due servi gli misero le scarpe basse, di camoscio morbidissimo, e la vestaglia da camera, mentre gli altri due, rimasti dapprima in disparte, portavano fra le mani con rispettosa riverenza un piccolo scettro dorato impreziosito da diversi rubini e smeraldi.
Poiché vedeva che i servi indugiavano, Anelpide chiese smarrito:
«Ma cosa dovrei farci con questo scettro?».
«Come, Maestà?». Chiese incredula.
«Lo regga e mi segua, prego».
Dopo un lungo corridoio senza aperture esterne, costellato da alcune fiammelle danzanti che provenivano dai candelabri del tetto e delle mura, giunsero dinnanzi ad un portone.
Presto i servi mascherati invitarono il Re con gesti accorti a fare qualche passo indietro, affinché potessero aprirlo.
Dopo un lungo cigolio, la vista di Anelpide e di tutti gli altri servi accolse una meravigliosa sala conviviale: la porta era esattamente al centro della parete e appena entrati il tavolo, fatto di una strana roccia gialla e arricchito da numerosi ghirigori e incisioni lungo tutte le gambe, si lasciava ammirare; avrebbe tranquillamente potuto accogliere più di cinquanta convitati.
Sotto al tavolo ecco un tappeto porpora, contornato da corti fili bianchi, nei lati più corti, tutti intrecciati fra loro, e con diverse scene di vita regale: una battuta di caccia, l’incontro col popolo, una battaglia e un sovrano che pacificamente stava sul trono.
A capotavola vi era una sedia dallo schienale molto alto, con un rigonfiamento in pelle rossastra in corrispondenza della schiena e della seduta.
Era l’unica sedia presente attorno ad esso.
«Suppongo che mi debba sedere in quella sedia lì». Disse Anelpide, stranito da quella bizzarra visione di un immenso tavolo con una sola enorme sedia.
«Di certo, Maestà, abbiamo anche ritoccato quell’imperfezione sulla verniciatura del legno che ieri l’aveva profondamente turbata».
Disse l’unica serva che interloquiva con lui.
Anelpide, sempre più stranito, si adagiò sulla morbidissima sedia, che gli fece quasi ritornare il desidero del letto tanto era comoda.
«Presto, voi!».
Quando si rivolgeva ai cortigiani la serva cambiava totalmente tono.
«Avvisate le cucine, Sua Maestà desidera che gli sia servita la colazione».
Ogni volta che Anelpide udiva quella parola, “Maestà”, era come se provasse un sussulto, quasi un rigetto, sentiva che la parola “sovrano” non apparteneva alla sua vita e al suo essere.
Magari la colazione lo avrebbe aiutato a riflettere.
Dovette aspettare qualche minuto, che in una situazione quotidiana normale equivalgono ad un battito di ciglia, ma che nel deserto, senz’alcuna indicazione di tempo e senz’alcuna distrazione, equivalgono ad un’insopportabile eternità.
«Ma allora! Perché mai tardano?!».
Come la serva, anche lui si sentì incoraggiato ad utilizzare quelle parole dure con i cortigiani, ma nonostante ciò lo fece con poca decisione, poiché anche quel tono non era nelle sue corde.
Subito uno dei servi vestito di stracci malconci si avvicinò inchinandosi alla serva maggiore, bisbigliandole qualcosa all’orecchio.
«Baggianate! Sua Maestà ha ordinato quelle prede più di sei ore fa, dovrebbero essere ben più che pronte».
Disse urlando la serva maggiore, e scacciò via con un violento strattone il povero servo che cadde a terra.
Ed ecco che introdotte da un delicato scampanellio si aprirono le porte della cucina.
Cinque camerieri seguitavano quello che sembrava essere il cuoco di corte, per via dell’alta toque immacolata che portava sul capo.
«Carissimo Re Koùros, con non poche difficoltà, ma con immenso piacere, la cucina di corte è fiera di poter presentare al cospetto del Suo raffinatissimo palato le rare prelibatezze richieste».
Adesso lo sguardo di Anelpide divenne più che dubbioso:
«Come mi hai chiamato?».
«Cosa intende dire, Sua Maestà?».
La voce del cuoco era tremolante, come le fiammelle che rischiaravano il corridoio.
«Quello strano nome che avete usato qualche secondo prima…».
«Koùros, Maestà?».
Il cuoco strabuzzò gli occhi.
«Mi perdoni, non volevo in alcun modo mancare di rispetto alla sua persona chiamandola per nome, ma vede, ho voluto arrogarmi questa libertà vista la nostra datata conoscenza…».
Gli occhi di Anelpide erano divenuti due fessure; «Re Koùros, ma questo non è il mio nome! E poi Re? Ma sovrano di cosa? Ma dove mi trovo?».
Mentre Anelpide bisbigliava le sue confuse considerazioni, mentre lo sguardo guizzava da un volto all’altro dei presenti, i camerieri servirono con professionalità e dedizione tutto ciò che occorreva per la colazione, comprese le posate, i vari calici, un piatto e diversi piattini e dinnanzi ai piatti vi era un vassoio dorato coperto da una grande cloche.
«Permette, Maestà?».
Poiché vide che il Sovrano era totalmente immerso nei suoi pensieri, il cuoco si limitò ad adempiere i suoi compiti.
Sollevò la cloche e rivelò agli occhi dei presenti e di Anelpide un piatto che gli provocò non poco raccapriccio. Erano servite, allineate e ben presentate, delle grandi code di scorpione, alcune con uno strano liquido verdastro ancora grondante dal vistoso pungiglione, alcune con la quello che sembrava essere il sangue delle povere bestie.
«Vede, Maestà? Io e il mio gruppo di lavoro abbiamo impiegato ore ed ore per riuscire ad acchiappare quanti più scorpioni possibili, da quel grande nido che ieri le aveva provocato quell’orrenda piaga, mentre faceva la sua quotidiana passeggiata».
Anelpide aveva uno sguardo sempre più schifato ed inorridito, ma il cuoco non ci fece caso.
«Non con poche difficoltà, dicevo, poiché due camerieri della sua servitù si sono congedati nelle loro stanze per via delle dolorose punture. Spero possa essere misericordioso con loro, hanno sofferto molto, anche se data la loro insolenza nell’eseguire una missione reale in modo così superficiale non sarei stupito se decidesse di punirli».
Il cuoco sorrise cordialmente.
«Ciò detto, la lascio al suo pasto. Ossequi».
Ma Anelpide non aveva proferito parola, poiché da quando il cuoco ebbe sollevato la cloche dal vassoio non faceva altro che fissare inorridito quelle estremità anatomiche orribilmente mozzate, con ancora i liquidi vitali sgorganti da più parti.
«Io… Non capisco».
Disse inorridito Anelpide.
«Ma, Re Koùros, vede, era stato lei stesso a richiedere…».
«NON CHIAMARMI PIÙ CON QUEL NOME!» .
Da quelle parole lo stesso Anelpide rimase sbigottito, ma non tanto la sua servitù, che sembrava avvezza ad essere redarguita.
Dopo un profondo respiro, Anelpide disse:
«Io non so chi mai sia Koùros, il vostro sovrano, né tantomeno perché abbia deciso che gli venisse servita questa colazione».
Quasi allo stremo delle forze mentali e in preda a confusione, un barlume di ragione balenò nella mente di Anelpide:
«Che sia forse un sogno?».
E tutto si fece nero.
Enrico Finocchiaro (proprietario verificato)
Un libro da leggere tutto d’un fiato, una lettura capace di ampliare le proprie prospettive.
Sono tanti i motivi, ma centrale è il modo in cui l’autore è riuscito a trattare il tema del rapporto tra sogno e realtà, incrociando due diverse dimensioni che vanno ad intrecciarsi e confondersi efficacemente… perché Ivan Di Marco non solo ci è riuscito brillantemente, ma l’ha fatto in maniera davvero unica e speciale.
Nel libro sono messi in gioco diversi elementi, tra cui i sentimenti umani, la logorante vita che fa da necessaria routine e il bisogno dell’umanità di considerare un’altra dimensione, tra il reale e l’irreale.
Tutto in una prospettiva sempre a cavallo tra due poli, mai contrapposti, ma efficacemente alternati.
Sofia Morreale (proprietario verificato)
“Sabbia liquida” è uno di quei romanzi che coinvolgono il lettore e lo trasportano nello stesso ambiente dei personaggi. Anelpide è il personaggio che più mi ha colpito, disposto a commettere follie pur di raggiungere la sua meta. La sua è una lotta tra i propri sogni e la ragione, un’inquietudine che lo tormenta così tanto da portarlo a desiderare la fuga dalla vita quotidiana per trovare rifugio in quella parallela, ovvero i sogni.
Consiglio questo romanzo perché la lettura è scorrevole, con momenti di riflessione introspettiva e profonde descrizioni dettagliate che lasciano il lettore col fiato sospeso fino alla conclusione.