Ma gli attimi? Che fine fanno quei frammenti di tempo rubati all’oblio del sonno? Gli attimi, quei brandelli di pazzia che ti fanno cambiare strada e perderti, quelli resteranno per sempre scritti in una memoria che non svanirà mai. Negli attimi si rinchiudono le emozioni, in quelle lacrime di gioia rubate allo stagno dell’incoscienza. Negli attimi si accende la luce e scorre la rugiada. Negli attimi la vita resiste.
L’incedere nelle tenebre mi fa sentire più leggero del solito, come se la gravità avesse rallentato la sua presa concedendomi il privilegio di assaporare una passeggiata spaziale. Il passo è lieve, preciso e coordinato ma i pensieri sono ancora pesanti e contorti macigni, affastellati confusamente nei diversi comparti dello zaino. A volerli trovare non ci riuscirei; sono consapevole della loro presenza ma non sarei capace di tirarli fuori. Usciranno da soli, camminando troveranno anche loro la strada giusta da seguire; al momento però li sento ancora incatramati in un solidissimo cemento, intrappolati nelle sabbie mobili della psiche oscura, nei condizionamenti, nei pregiudizi, nelle recriminazioni, nelle paure nascoste, nelle parole taciute, nelle occasioni sprecate, nelle ferite ancora aperte. Sono pensieri cupi, più scuri della volta della Terra che ancora concederà qualche ora di sonno al mondo.
Alle mie spalle si allontana sempre di più casa che diventa una debole lanterna che si affievolisce metro dopo metro, un evanescente raggio di sicurezza dal quale devo distaccarmi per entrare nell’incertezza feconda che solo le più oscure tenebre possono concedere. In mente mi tornano le parole de “Il sermone dell’addio” de Il profeta di Kahlil Gibram: il vento mi ordina di lasciarvi. Io non ho la sua fretta, ma debbo egualmente partire. Per noi viandanti, alla continua ricerca dei più solitari cammini, il giorno non inizia dove è terminato quello precedente e l’aurora non ci trova nel medesimo luogo in cui ci ha lasciati il tramonto. Noi viaggiamo anche quando la terra dorme. Noi siamo i semi della Pianta Perenne e, non appena maturi e gonfi, il vento ci sparge sulla superficie della terra.
I miei passi si alternano cadenzati lungo un sentiero che ad ogni centimetro cambia in qualcosa: nella composizione della ghiaia, nelle ondulazioni dei diversi dislivelli, negli squarci sul selciato, nelle strozzature improvvise. Non ho modo di vedere nulla; i miei occhi possono aprirsi solo nei padiglioni auricolari dove i suoni si trasformano in immagini. L’udito è la cartina che mi consente una navigazione in sicurezza. Potrei anche chiudere le palpebre perché le pupille non possono amplificare nessuna fonte luminosa e quei puntini di ghiaccio incastonati nel cielo, seppur splendenti come diamanti, non sono sufficienti a far luce. L’istinto mi impedisce di serrare le sottili membra che ricoprono completamente la parte anteriore del globo oculare e così gli occhi, anche se inutilizzabili, sono sgranati come quelli di un lemure curioso. Nella morbida oscurità vago, in una tenue calma che vibra di significati profondi, di sottili incertezze, di domande inespresse, di dubbi necessari.
Cammino, cammino…
Il canto del gallo è il terzo suono distinto che percepisco, dopo quello dell’aria che fluisce negli slarghi delle narici e il crepitio dei legnetti che si spezzano sotto il peso dei miei scarponi. Resto in ascolto, ma non odo altre sinfonie; tutto è fermo, solo la mia sagoma scura attraversa lo spazio disturbando una quiete che senza la presenza di quest’homo sapiens sarebbe stata assoluta. Gli spiriti della notte non sembrano farmi alcuna paura rispetto ai demoni che serpeggiano nella mia pancia, inquietudini che vagano nei labirinti viscidi delle interiora che li ospita di malavoglia ma che, in un certo qual modo, intuisce che è giusto che siano lì. Il ventre mi parla, mi tranquillizza, mi consola con gorgoglii che sembrano sicuri di ciò che fanno, anche se ho l’impressione che brancolino nel buio. In effetti lì giù luce non ce né mai. Le budella sembrano attorcigliarsi ancora di più, diventando più contorte di come madre natura le ha create; le sento come una matassa gelatinosa ingarbugliata che dovrà essere districata in qualche modo. Questi visceri tortuosi, conoscono il motivo della presenza di tali impulsi, sono loro a produrre tanta turbolenza per fare in modo che io avverta il disagio, che mi possa accorgere della presenza dei turbamenti e così condurmi verso interrogativi scomodi ma necessari; domande che provochino terremoti tali da far cascare le vecchie convinzioni e quindi poter creare una voragine dove poter costruire nuove e più solide fondamenta dell’essere.
La natura, attraverso questi brontolii messaggeri, mi dice che devo ospitare ancora per qualche tempo quei demoni, che devo intrattenerli e intrappolarli per poterli digerire e quindi trasformali in altre tipologie di scarti. Forse non sarebbe neppure giusto chiamarli scarti ma piuttosto, componenti essenziali del processo di trasformazione.
Non riesco a distinguere quale dei due cervelli, se quello superiore imprigionato nella scatola cranica o quello inferiore che si nasconde dietro l’ombelico, sia in maggior turbolenza; a pensarci meglio, entrambi sono fratelli gemelli. Hanno caratteri molto simili oltre ad avere una somiglianza fisica impressionante. Entrambi stanno elaborando nei loro rispettivi labirinti, intelligenze che operano al servizio di una imminente pulizia e rigenerazione emotiva che attendo con fiducia, che abbraccio con la speranza del naufrago che finalmente riesce ad accendere un fuoco su un’isola deserta. In effetti loro sono il centro della ragione, della capacità di discernimento e sono animati da una profonda coscienza che è in grado di separare abilmente il puro dall’impuro. Lascio ragionare in pace questi due vecchi saggi secondo quelle che la medicina tradizionale cinese definisce linee meridiane, in modo che sovrintendano all’eliminazione del Qi stagnante, ovvero l’energia vitale interiore intrappolata. Mentre le orme dei miei passi scompaiono nel buio, penso a tutta questa sapiente biologia che lavora gratuitamente per tenermi in vita, che orchestra e coordina le funzioni anatomiche e psicologiche, che unisce insieme solido e liquido, energia e spirito, materia e antimateria. Gli organi, immersi in un buio perenne, di concerto si adoperano senza alcuna pausa o retribuzione per far funzionare nel migliore dei modi questa macchina di carne in continua metamorfosi. Il loro è un amore incessante, autentico, incondizionato.
Cammino, cammino…
Una piccola sporgenza di pietra, spuntata su questa strada chissà quanti milioni di anni fa, destabilizza il mio equilibrio sbilanciando il corpo di qualche centimetro verso destra, inquinando quell’andatura perfetta che sino a quel momento era stata impeccabilmente dritta, retta come un tronco di cipresso.
Il buio continua ad avviluppare i miei passi che, dopo la piccola sbandata, tornano ad essere ritmici, simmetrici, cadenzati come se fossero inquadrati in una parata militare. Mi piace camminare a luci spente perché questo mi fa sentire più sincero, più libero di non indossare maschere inadeguate o paramenti scomodi per ricorrenze non richieste; mi sento più a mio agio con le lacrime o semplicemente l’oscurità mi permette di non vergognarmi per lo stupore o la paura di aver udito il quarto suono della notte, quello di un cane non molto lontano. Un cane o un lupo? Non sono così sicuro di aver sentito un abbaio, sembrava più un malinconico ululato. Camminare nella notte può farti provare la sensazione di essere smarrito nel vuoto dello spazio, può non offriti punti di riferimento ma può anche essere l’occasione giusta per essere ciò che sei senza vergogna, senza timidezza, senza alcun imbarazzo di sentirti inadeguato, imperfetto, carente o diverso. Nella notte tutto è oscuro per tutti! L’oscurità è davvero democratica!
I riflettori accesi troppo a lungo mi stressano perché mi obbligano a tenere pantomime inopportune e fuorvianti sul palcoscenico del mondo che si aspetta, o meglio pretende, che io faccia sempre la cosa giusta, quando in realtà spesso dubito persino del mio nome. La società vuole certezza, brama sicurezza, coltiva perfezione, rivendica convinzione; dove posso inserirmi in questo modello? Come posso attraversare tanta tranquillità, seppur rigida e artificiosa, con la mia viandante incertezza?
Nella notte si celebra il dubbio e l’indeterminatezza, nella notte sono semplicemente colui che cammina, nella notte sono sottilmente quella manifestazione invisibile e anonima del creato che scivola via nello spazio infinito, dove tutto ha lo stesso peso. Uomini, formiche, civette, querce, pietre, argilla, polvere e stelle, nell’oscurità siamo entità mimetizzate che partecipano alla meravigliosa danza della vita senza alcun protagonismo. Du skal ikke tro du er noget! – non credere di essere qualcosa di speciale, recita una delle regole del principio di Jante, con il quale i popoli scandinavi annullano l’individualità a favore di una identità collettiva e una coscienza universale che oltrepassa l’ego del singolo.
Con il sopraggiungere della luce, l’uomo prende il sopravvento e la poesia svanisce… la verità si dissolve e quello che prima era unito in un Uno indivisibile, si disgrega in un colossale inganno che passa inosservato. Con l’arrivo del sole i bipedi si ergono sulle loro zampe per recarsi in luoghi adibiti alla produzione di beni o servizi che utilizzano per edulcorare le loro vite, per allontanarli da quell’anima selvaggia che ripugnano ma che comunque conservano e conserveranno per sempre nella loro memoria genetica. Un istinto che cova silenzioso nel buio del petto e che spesso salta fuori famelico e inferocito schiumante di rabbia per portare caos e paura. L’uomo non è più abituato a comprendere e a elaborare la sua natura animale, a dare voce ai suoi bisogni, e quando questa viene fuori, non potendo più essere riconosciuta e compresa, colpisce in maniera brutale e spietata. Con l’arrivo del sole sopraggiunge quindi l’umanità, quella massa informe di carne pensante che protegge la sua pelle con colorate stoffe che vengono cambiate tutti i giorni; li chiamano vestiti e servono per difendere il corpo nudo. Ma l’espressione “mettere a nudo” non vuol dire portare allo scoperto, liberare? Non è per caso la manifestazione metaforica della verità?
Io credo che la funzione dell’abito, più che protettiva, sia trasformativa; esso, infatti, mi appare come una maschera per coprire qualcosa, per camuffare, per proteggere una scomoda verità che resta celata da indumenti che hanno solo superficialmente una funzione di decoro sociale. Nel profondo i vestiti sono corazze che coprono un’anima fragile. In fin dei conti non penso che si possano definire neanche indumenti ma, piuttosto, uniformi; divise dietro le quali gli uomini perdono la loro identità, dimenticando chi sono.
Con l’arrivo del giorno i rumori si moltiplicano e si amplificano rendendo il silenzio solo un meraviglioso ricordo; la calma, la serenità, la saggia segretezza che regnava sovrana nella notte, si infrange nel caos della frenesia umana, nella sterile corsa verso la distruzione. Gli impeccabili equilibri cosmici, che attraverso il buio della notte avevano trionfato grazie al sonno dei bipedi, ora scricchiolano nuovamente con i primi raggi del sole che colorano il cielo di un timido arancio. Adesso però una preoccupazione invisibile e tangibile allo stesso tempo mi travolge: mi piacerebbe sapere dove sia il mastino di cui ho udito il verso poco fa, non vorrei essere la sua colazione. Un non identificato insetto mi colpisce dietro l’orecchio sinistro e mi fa torcere il collo quel tanto che basta per crearmi una lieve contrattura. Interrompo il moto per qualche minuto per massaggiarmi delicatamente il trapezio sinistro; oscillo delicatamente la testa da un lato e dall’altro e successivamente la faccio roteare disegnando nell’aria dei piccoli centri concentrici. Questa tensione muscolare ha una origine certamente meccanica, ma credo che indichi anche un non perfetto equilibrio psichico. Così, oltre alle manovre improvvisate per sciogliere rapidamente i muscoli, decido di farmi anche qualche scomoda domanda che possa andare a scavare nel profondo significato della contrattura stessa: “sto sostenendo un carico emotivo eccessivo?”, “c’è qualcosa che mi fa sentire a disagio, vulnerabile o in una situazione di compromesso che faccio sempre più fatica a reggere?”, “ho qualche passione che non riesce ad esprimersi o una carica di energia che non riesco o non posso convogliare nella giusta direzione?”. Mi metto in ascolto del cuore perché so che lì troverò risposte coerenti alla mia felicità; sono certo che saranno risposte amare, che pungeranno dolorosamente il nucleo di ogni cellula, che lo spaccheranno e lo trapasseranno aprendomi a nuovi confini inesplorati della coscienza. Le sentenze del cuore sono dolorose ma sempre sincere e colpiscono direttamente la bocca dello stomaco, la sede delle emozioni genuine, il luogo dove avviene il discernimento tra verità e menzogna, dove il puro viene assimilato in nutrienti e l’impuro preparato per essere eliminato definitivamente.
La sincerità ha però sempre un prezzo da pagare e una sofferenza necessaria di cui patire; questo modo di giungere al cuore di noi stessi è anche l’unico modo per conoscere l’eterno, quel tempo che sfugge al tempo.
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