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Sasso Carta Forbice

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Forse avrà a che fare con quei bifolchi avvinazzati, con il sindaco tronfio e ridicolo oppure con le superstizioni e le risse, ma Giacomo Zatti si è messo in testa di costruire la miniera e così farà. Con gli occhi rivolti al benessere futuro, Giacomo convince i suoi compaesani a partecipare all’impresa che porterà ricchezza e riscatto a tutti. A lui, in particolare. Il sito è stato identificato e i soldi hanno messo a tacere ogni dubbio. Allora da dove viene l’inquietudine che circola nel paese? Cosa significano i fatti misteriosi e violenti che a ritmo serrato funestano la valle? Cosa hanno a che fare con lui e con la miniera?

CAPITOLO 1
LA FINE È IL MIO INIZIO

Andavano e sempre camminando cantavano eterna
memoria, e a ogni pausa era come se lo scalpiccio,
i cavalli, le folate di vento seguitassero quel canto.

Boris Pasternak, Il dottor Živago

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«Anìn

La parola si ripeteva tra le case, tra gli usci sbrecciati, gli infissi sconnessi, le pietre malmesse cementate dalla fatica e dalla miseria vecchie di secoli.

Da dietro i muri sbucavano gli uomini dai lineamenti rozzi scavati con la vanga, le barbe ispide tenute lunghe per combattere il freddo pernicioso che non se ne voleva andare.

Si misero in cammino verso la Forcja uno dietro l’altro, il sentiero che portava al passo e poi menava a Villa era stretto e due persone alla volta facevano fatica a starci. Il cielo grigio, dove il sole non aveva dimora, percorso da una bava di vento gelido che insisteva tra le fronde dei faggi scheletrici, non invitava alla conversazione.

Mise giù la tazza e si pulì la bocca col dorso della mano: non c’era nulla da fare, per quanto l’avesse fatto innumerevoli volte non riusciva proprio ad affrontare l’incombenza senza una cospicua dose di rosso. Sbirciò dalla finestra e gli sembrò improvvisamente di essere tornato bambino: quei personaggi che scendevano da Cretis in fila indiana gli ricordavano la Schola del bon dhuac, la leggenda dei morti che escono dal cimitero di notte in corteo per assalire chi si avventura per le strade.

Stava per valutare l’idea di farsi una seconda tazza quando lo vennero a chiamare. Era ora di prepararsi, inutile traccheggiare.

Giunta finalmente a Villa, dove il sentiero finiva per riallacciarsi a un simulacro di civiltà, la processione si sfaldò; tuttavia, nessuno andò troppo distante, forse non volendo abbandonare il confortante riparo offerto dal gregge.

Passarono a fianco all’osteria di Zuanne, ognuno lanciando furtivi sguardi carichi di bramosia, cercando di non farsi scorgere dagli altri. Era la stessa sensazione che si prova quando, dopo lungo attendere, finalmente si scorge l’amante a lungo concupita, ed essa si para davanti, chiedendo un ultimo sacrificio, un’ultima attesa.

Due carradori, appoggiati con indolenza alle sponde della vettura, li stavano attendendo poco discosti, ben sapendo che quella sarebbe stata una tappa obbligata.

Don Mauro, ormai abbandonata definitivamente l’idea di una seconda tazza di rosso, indossò i paramenti e mandò fuori il chierichetto a controllare che gli uomini fossero arrivati. Ottenuta conferma diede una voce al campanaro affinché desse inizio al suo ufficio. Sebastiano prese a tirare la corda con lentezza, con la stessa solennità che suo padre, quando era ancora un ragazzo, gli aveva mostrato molti lustri addietro.

Gli uomini, all’esordire dei rintocchi, si mossero verso il carro per porre fine alla questione, non comunque senza prendersela comoda: d’altro canto, per morire c’era sempre tempo.

Accompagnati dalla campana a morto, si diressero verso il sagrato della chiesa, dove un capannello di perdigiorno attendeva la bara.

Dopo aver benedetto il feretro, don Mauro andò verso l’altare e diede il via al funerale, maledicendo il suo vice che aveva ritenuto opportuno svignarsela accampando scuse puerili e al limite dell’insensato: gliel’avrebbe fatta pagare, questo era certo. Se c’era una cosa che non sopportava celebrare erano i funerali: non gli faceva né caldo né freddo andare a dare l’estrema unzione a gente che si contorceva dal dolore, né dover benedire le salme di pastori e boscaioli che erano rovinati giù per burroni al punto tale da essere a malapena riconoscibili; persino i neonati che non erano riusciti a superare la prova del parto non gli facevano particolare impressione.

Ma il funerale no, non riusciva a sostenere tutti quegli sguardi puntati verso di lui, quasi gli chiedessero chiarimenti su cosa sarebbe successo da lì in avanti al caro estinto e di lì a qualche anno a tutti quanti.

Nel tentativo di tagliare corto incespicò su un gradino e poco mancò che finisse lungo disteso; nessuno si permise nemmeno il più timido dei sorrisetti, questo non era il pretino che veniva su da loro a settimane alterne, costui era don Mauro, dalla nerissima barba da mangiafuoco, un delinquente prestato al mondo ecclesiastico, e farlo incazzare sarebbe stato pericoloso.

Questo prete che arrivava da una remota valle ai confini col Veneto coltivava numerose passioni non propriamente in linea con l’abito talare: se provocato menava le mani con dolorosa efficacia, amava il vino ed era un eccellente giocatore di morra.

Per finire, nel tempo libero scalava le montagne, intagliava il legno e non disdegnava andare a caccia, attività quest’ultima nella quale riscuoteva un discreto successo. Come fosse finito a fare il ministro di dio e riuscisse a mantenere la carica di parroco faceva parte del novero dei misteri e delle questioni irrisolte sulle quali invano si scervellavano quei poveri diavoli che si affidavano alle sue cure.

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Fabio Mario Bullo
nasce a Venezia a metà degli anni Ottanta. Figlio e nipote di avidi lettori, si appassiona alla carta stampata fin dall’età prescolare e dopo il diploma si cimenta, negli anni, in varie prove di scrittura, partecipando a qualche concorso letterario.
Grande amante della montagna selvaggia, ne ha tratto ispirazione per scrivere Sasso Carta Forbice, il suo romanzo d’esordio.
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