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Sasso Carta Forbice

Sasso Carta Forbice

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Consegna prevista Luglio 2023
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Il sasso è quello della montagna, la vera protagonista di questo romanzo, la carta è quella dei soldi, solido miraggio capace di abbacinare l’uomo fin dai tempi più remoti, la forbice il simbolo di un taglio netto con il passato. La quotidianità di un minuscolo paese di montagna del Friuli, dove la miseria fa da padrona da secoli, viene improvvisamente scossa dalla costruzione di una miniera, che garantirà lavoro e prosperità a tutti. In bilico tra commedia e tragedia, tra maestosi panorami e grottesche vicende personali, la storia pian piano precipita in una serie di avvenimenti infausti, in un crescendo sempre più inquietante.

Perché ho scritto questo libro?

In verità io non ho deciso niente, è stato il finale del libro a decidere di intrufolarsi nella mia testa, una fredda mattina di gennaio cinque anni or sono, quando stavo ancora facendo i conti con la paternità.
Probabilmente la spinta finale a scrivere Sasso Carta Forbice, che all’inizio doveva essere solo un racconto breve, è stata data dal desiderio di zittire chi mi esortava da anni a partorire qualcosa. Va a loro la mia riconoscenza per avermi donato un anno di ossessione creativa.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Giacomo Zatti era andato via da Cretis per fare il militare e, invece di finire in fanteria o in montagna, si era trovato imbarcato su un incrociatore. Le dicerie su questa bizzarra destinazione si sprecavano: qualcuno ipotizzava fosse colpa di una colossale svista al distretto militare, secondo altri c’era lo zampino del segretario comunale, un personaggio subdolo e infido che ricordava molto un roditore rachitico al quale Zatti aveva sedotto la figlia.

Sta di fatto che, malgrado le iniziali proteste (come tutti gli abitanti della valle non aveva mai visto il mare e non sapeva nemmeno nuotare) si era dovuto sorbire due anni di leva per poi finire sbarcato a Venezia.

Memore della miseria sofferta a casa, si era stabilito nella città lagunare e aveva cominciato a fare il manovale per poi frequentare i corsi serali, dove aveva appreso le basi del disegno geometrico. Con la nuova qualifica in tasca era diventato muratore e, grazie a una combinazione di talento e fortuna, si era messo in proprio diventando in breve tempo ricco da fare schifo.

Molti anni dopo, al suo ritorno in paese, era stato trattato alla stregua di un fantasma: i pochi che si ricordavano di lui si facevano il segno della croce, qualcuno invece, più pragmatico, aveva provato a prenderlo a sassate.

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Superata l’iniziale diffidenza era finalmente venuto a capo della faccenda: suo fratello aveva messo in giro la storia che era annegato durante il servizio militare, circostanza alla quale era effettivamente andato vicino in più di un’occasione.

Nemmeno il gusto di fargliela pagare aveva potuto assaporare: l’infame, a forza di augurare disgrazie ai consanguinei, aveva fatto una brutta fine mettendo un piede male sul sentiero che andava al Fontanon del Vuar e finendo giù per il dirupo rompendosi l’osso del collo.

L’avevano trovato dopo quasi una settimana ormai mezzo imputridito, robe che veniva da dare di stomaco solo a parlarne, trasportarlo era fuori discussione, si era quindi deciso di seppellirlo così dov’era; se non che il prete, insospettito da alcune voci e da un paio di personaggi che si erano inerpicati coi badili, li aveva seguiti e li aveva beccati nell’atto di scavare la fossa.

Ne era venuto fuori un pandemonio, avevano scongiurato il curato di lasciare lì il cadavere marcito, che a spostarlo si disfava, ma quello era stato irremovibile e li aveva costretti a portarlo a Villa affinché ricevesse degna sepoltura cristiana. Facile parlare, avevano masticato tra i denti quelli, tanto mica doveva sobbarcarsi lui quella schifosa incombenza.

I suoi compaesani avevano assistito perplessi al suo ritorno, dopo aver capito la portata delle sue fortune, e a rigor di logica non erano da biasimare: Zatti non aveva nemmeno la scusa degli affetti che lo legassero a quel paese, dove il prete veniva a settimane alterne, isolato dal resto del comune da un sentiero scomodo sul quale persino i muli facevano fatica a salire, senza uno straccio di servizio e imbevuto di miseria. Non era rimasto nessuno della sua famiglia, le sue due sorelle lontane migliaia di chilometri, una aveva sposato un tizio di Villa che l’aveva portata via con sé nelle Americhe; l’altra invece, che fin da piccola era stata una di facili costumi, aveva conosciuto, mentre era a servizio in Veneto, un tipo della bassa Italia, uno di quei personaggi dalla pelle scura e dalla parlata incomprensibile che Zatti aveva incontrato un sacco di volte mentre era in marina, ed era andata via con lui chissà dove.

L’altro fratello, quello che non era precipitato dal Fontanon dal Vuar, l’ultimogenito, si era preso una febbre da cavallo che l’aveva strappato a questa valle di lacrime nel giro di una settimana, notizia che Zatti aveva ricevuto con mesi di ritardo, mentre era sotto le armi. La madre, devastata dal dolore, l’aveva seguito di lì a poco; il padre, che già aveva il vizio di alzare il gomito, si era buttato anima e corpo sull’alcol, fino a che un giorno non era collassato sugli scalini di casa e a nulla era valso tentare di rianimarlo.

A maggior ragione quindi, che senso aveva esser tornato? E soprattutto, restare? 

“Qui almeno so chi sono gli stronzi, e sono in numero circoscritto”, era stata la sua risposta.

Tuttavia, il lungo periodo passato fuori da Cretis gli aveva cambiato per sempre la mentalità: sebbene fosse scevro da ogni impegno lavorativo non finiva ad ammazzarsi di vino nel tempo libero come i suoi compaesani, bensì passava la giornata in giro per boschi e versanti, indugiando spesso e volentieri sui pascoli dell’Alaç, dove il monte aveva quelle strane venature. La spiegazione ufficiale di queste peregrinazioni sembrava fosse l’andare a caccia ma non teneva: il fucile, per quanto ne sapevano, lo utilizzava molto di rado.

Chi lo incontrava riferiva di averlo visto scrivere alacremente su un taccuino seduto tra le rocce, concentrato al punto tale da rispondere a malapena al saluto, saltando a piè pari ogni possibile spiegazione su cosa stesse facendo. Il figlio del mugnaio, che era impareggiabile come ficcanaso, aveva provato a sbirciare sul foglio per vedere cosa ci fosse scritto ma aveva definito la sua grafia, per dirla con un eufemismo, poco intellegibile.

Quando poi Zatti aveva cominciato a portarsi dietro un binocolo le malelingue si erano scatenate: si arrampicava là sopra per spiare i pascoli dall’altra parte del Chiarsò, quelli dei Feniloni, che si trovavano esattamente davanti.

Che gliene fregava dei pascoli, con tutti i soldi che aveva? Al che partivano le risate di scherno: quello mica spiava i pascoli, quello spiava la minore dei Feniloni, Agnese.

Anche questa diceria era stata però presto smentita: il binocolo lo teneva puntato in direzione contraria e passava ore a scrutare la roccia. Oltretutto se proprio avesse voluto spiare la Agnese avrebbe fatto prima a inerpicarsi su dalle parti del Fontanon del Vuar, alla stessa maniera del fratello defunto e precipitato. A questo punto, terminate le argomentazioni valide, la faccenda era stata liquidata dicendo che a forza di andare per mare doveva essersi completamente rincitrullito.

Già dal pomeriggio aveva cominciato ad annuvolarsi pesantemente, i più accorti avevano preso la via del ritorno prima di doversela fare sotto l’acqua per i ripidissimi pendii che caratterizzavano la valle.

Un refolo malvagio, inusitato per la stagione, aveva risalito il Chiarsò e di lì a poco aveva cominciato a scrosciare la pioggia, accompagnata da un vento che non lasciava presagire nulla di buono.

Zatti, seduto in disparte in un angolo, ascoltava la pioggia sferzare con violenza le finestre, com’era differente il ticchettio furibondo delle gocce in montagna… In pianura, per quanto tempestasse, la pioggia aveva sempre un che di leggero, quasi di allegro, qui invece assumeva i contorni di una manifestazione arcigna, austera.

Si guardò attorno: il mulino non era cambiato di una virgola, era tale e quale lo aveva lasciato l’ultima volta che ci aveva messo piede, mille anni prima. Lungi dal sopportare allo stesso buon modo le ingiurie del tempo, tutti avevano sceso parecchi gradini lungo la scala della vita: uomini fatti dove già indugiavano fili bianchi tra i capelli li ricordava ancora ragazzini, altri ancora anni addietro uomini robusti e in forze, erano ora ridotti a vecchi che si trascinavano. Poi c’erano quelli emigrati definitivamente, finiti sottoterra o in procinto di andarci di lì a breve come quella specie di mummia accanto alla finestra… Non era Barba Carle? Quello che gli era corso dietro da bambino perché l’aveva chiamato per scommessa “palle sgonfie”? 

Persino il mugnaio, un capolavoro di arroganza, se lo ricordava appena ventenne, l’ombra del padre che angariava lui e i fratelli non lesinando la cinghia quando lo reputava necessario, cioè molto spesso; ora invece se ne stava tronfio nel locale, mandando i figli e la moglie a sgobbare mentre lui se la prendeva comoda al mulino.

Abbarbicato vicino al fuoco faceva bella mostra di sé Bepi Bidoli; Zatti all’inizio aveva pensato si trattasse di un suo parente che gli somigliasse parecchio, convinto com’era che l’interessato fosse finito sottoterra da un pezzo, visto che era già anziano quando lui era ancora un ragazzino.

Invece no, era proprio Bepi in persona, straordinariamente uguale a quando Zatti l’aveva salutato l’ultima volta, la morte si era dimenticato di venire a prenderlo, quanti anni doveva avere? Più di novanta, garantito. Pareva avesse fatto un patto col diavolo, peccato l’avesse fatto evidentemente troppo in là: al posto dell’eterna giovinezza gli era toccata l’eterna vecchiaia.

Lì vicino c’era Adriano, detto Vescul per un certo colorito paonazzo che denotava una propensione per gli spiriti etilici, piuttosto che religiosi. Un esempio paradigmatico del detto “il lupo perde il pelo ma non il vizio”: i capelli se ne erano andati e un fitto sentiero di rughe gli solcava il volto ma l’incarnato vermiglio era lo stesso di quando erano ragazzi.

Alla sua sinistra Battista, in sempiterno battibecco col mugnaio, circostanza che comunque non pregiudicava la frequentazione dei suoi locali, se non altro per non far morire la fiamma della polemica, tanto cara a entrambi.

Più in là Madrac, basso e atticciato, l’espressione stolida di chi sembra sempre in ritardo cinque minuti sull’interlocutore.

In fianco alla porta Cucudin l’avvelenato, in preda a una veemente discussione su chi fosse stato l’ultimo a venire dentro senza essersi preso l’incomodo di serrare l’uscio, costringendo lui, che aveva mal di schiena, ad alzarsi. Il mugnaio, spazientito, gli aveva intimato di chiudere la bocca assieme alla porta.

Entrarono entrambi i fratelli Salvan, fradici di acqua e ricoperti di fango e si diressero immediatamente verso il fogolar, tremando.

Alla domanda su come avessero fatto a ridursi in quello stato avevano vuotato il sacco: all’approssimarsi del temporale avevano rinviato la partenza in quanto in altre faccende affaccendati, non potevano certo mollare tutto per questioni di poco conto come un po’ di pioggia. Quando il tempo era seriamente voltato al peggio, non  trovando ripari di alcun tipo, si erano finalmente decisi ad alzare i tacchi ma ormai la situazione era bella che compromessa, la visibilità era scarsa e con gran fatica si erano incamminati per il sentiero alto al fine di rientrare a casa.

Quello che restava della loro baldanza si era esaurita appena usciti dalla protezione del bosco: ad attenderli c’era un lungo tratto esposto alle intemperie, e la tempesta non accennava a calmarsi. Percossi dalla pioggia feroce e maltrattati dal vento che muggiva sempre più cattivo, erano stati colti da un tremendo schianto alle spalle che li aveva convinti a tagliare in discesa e scendere in paese senza perdere ulteriore tempo; operazione che avevano condotto correndo come dei forsennati e concluso rotolando per diversi metri fino quasi alla porta del mulino.

Zatti li squadrò furtivamente, difficile credere al fatto che quei due personaggi, l’ultima volta che aveva avuto l’onore di incontrarli, fossero dei mocciosi a stento capaci di reggersi sulle gambe. Ora invece erano due marcantoni pelosi e dall’aspetto selvatico, tali e quali i salvans che secondo la tradizione abitavano i boschi.

Buttò sul tavolo cento lire con calcolata noncuranza, come se stesse spalando una badilata di letame; un silenzio di tomba piombò nella stanza, interrotto solo da qualche occasionale peto.

L’effetto era quello voluto: qualcuno si leccò le labbra, altri avevano un’espressione bovina, altri ancora sembrava avessero visto l’Arcangelo Gabriele apparire nella stanza suonando il mandolino.

Nemmeno il mugnaio, relativamente benestante in confronto a quei poveracci, era rimasto indifferente per quanto cercasse di fare l’impassibile, con risultati abbastanza penosi.

Zatti non perse tempo:

– Li vedete questi? Questa è la paga di un operaio qualificato in città, ma dovreste saperlo già, no?

Molti annuirono, qualcuno storse la bocca, altri bestemmiarono a mezza voce.

Per la maggior parte dell’anno i maschi adulti percorrevano la via dell’emigrazione, come taglialegna o operai per la ferrovia in Nord Europa; solitamente quelli che non erano morti sul lavoro o ne avevano avuto abbastanza del paese tornavano per qualche mese.

– Non serve che me lo diciate, esattamente come voi ho fatto l’operaio emigrante e questo stipendio me lo sognavo, senza contare quello che vi fregano sul cambio.

Le bestemmie aumentarono di tono e di intensità.

– In verità, in verità vi dico che questa potrebbe essere la vostra paga, e senza nemmeno muovervi da qui.

Si scatenò un pandemonio, i pochi che non sbraitavano erano impegnati a cercare di non soffocarsi col vino che era andato loro di traverso al momento dell’annuncio. Il mugnaio, brandendo il randello che teneva sotto il banco per le grandi occasioni, vibrò un colpo secco per indurre i facinorosi al silenzio.

– Fatelo parlare, Cristo di un Dio.

Zatti prese un attimo di pausa, voleva lasciarli cuocere.

– Volete fare la fine di Nane? Sputare sangue per anni sotto quei merdosi dei tedeschi per poi finire per crepare come un cane per strada?

Il ricordo del funerale e della mancata bevuta da Zuanne riaccese gli animi, lo scotto bruciava ancora e la sete di vendetta nei confronti del sagrestano era ancora alta.

– Non vorreste poter lavorare qui tutto l’anno, senza dover lasciare le vostre case?

Al che gli cadde l’occhio su Vescul, il vasto livido sullo zigomo lasciava credere che l’ultima discussione avuta con la moglie, un’energumena particolarmente irascibile, non dovesse essersi risolta a suo favore. Distolse lo sguardo e riprese velocemente a parlare.

– Sui pascoli dell’Alaç la montagna è piena di piombo e zinco, c’è lavoro per tutti.

Si riaccese il brusio, ecco cosa andava a fare tutti i giorni fino là sopra, altro che rincitrullito, questo era un gran dritto, altro che.

Il mugnaio, che si era investito del ruolo di moderatore, vibrò un altro colpo di randello per ottenere silenzio.

Qualcuno, appartenente alla schiera degli scettici, approfittò della situazione:

– Quindi noi dovremmo rinunciare al lavoro sicuro che ci dà da campare, e chi ci dice che tu non abbia preso una cantonata?

Zatti aveva previsto tutto, cavò dalla tasca un foglio e lo porse al figlio del mugnaio, visto che il resto degli astanti era pressoché analfabeta; questi, ringalluzzito, gonfiò il petto e lesse un’esauriente relazione da parte di un perito minerario.

Tanto valeva che leggesse una messa cantata in latino: tra termini tecnici e poca dimestichezza con l’italiano, la maggior parte capì poco o nulla, ma nessuno voleva fare la figura dell’ignorante quindi non vennero sollevate obiezioni. Zatti rise sotto i baffi, aveva previsto questa reazione.

Non era finita qui, i petulanti di turno avevano ancora diversi colpi da sparare:

– Io non ho visto nessun perito ultimamente.

Qualcuno ridacchiò: e cos’era il perito, una specie a parte riconoscibile a distanza? Il dileggiato stava già impugnando la spalliera della sedia per ristabilire il rispetto quando il mugnaio, dopo aver vibrato il solito colpo d’ordinanza, rispose:

– Settimane fa è venuto su un forestiero accompagnato da uno di Villa, me l’ha detto quella sgualdrina di mia figlia, che ha la brutta abitudine di guardare i maschi.

Zatti, che ne aveva abbastanza del contraddittorio, calò il carico di briscola:

– Vi dirò di più, ho già avuto autorizzazione da parte del sindaco.

Nessuno si stupì del fatto che il sindaco non si fosse fatto vedere: si trattava di un individuo pingue e pigro all’inverosimile, piuttosto di muovere il deretano e salire fin da loro si sarebbe fatto crocifiggere sul portone del municipio.

Senza dire una parola Angelo, il capofamiglia dei Feniloni, che era stato in disparte e in penombra tutto il tempo senza aprire bocca, si alzò per andarsene. Il Vipera, un individuo basso, storto e malevolo, lo provocò:

– Che c’è, avete paura di farvi male alle mani in miniera?

– Non mi interessa, se volete rompervi le ossa all’Alaç è affar vostro, io e la mia famiglia stiamo bene dove siamo.

– Eh certo, grazie al cazzo, voi avete tutti i pascoli esposti a sud che rendono bene, non hanno mica bisogno di emigrare i signorini.

Angelo si girò e lo squadrò con un viso di marmo:

– Dillo a quel fesso di tuo nonno, che si è giocato i terreni a carte.

Per la seconda volta nella serata calò il silenzio ma stavolta non era quello religioso, quasi mistico, di quando Zatti aveva tirato fuori i soldi, questo era un silenzio carico di astio, figlio di rancori ancestrali che covavano mai sopiti.

La storia la conoscevano tutti: i Feniloni erano gli ultimi arrivati in paese, i vecchi ancora ricordavano il capostipite, il quale era giunto lì da un’altra valle con qualche soldo in tasca, circostanza che non era sfuggita al nonno del Vipera, un mezzo farabutto.

Costui, in quella stessa stanza, sessant’anni prima, aveva sfidato a carte il nuovo arrivato pensando bene di spillargli il contante, ma gli aveva detto male: aveva perso tutto quello che aveva ed era stato costretto a cedergli i terreni che si trovavano in ottima posizione sull’altra riva del Chiarsò.

Da lì in avanti i Feniloni avevano prosperato restando piuttosto sulle loro, al punto da privilegiare l’endogamia per evitare di disperdere il patrimonio.

Si assomigliavano tutti: alti, magri, biondi e con gli occhi chiari. La figlia di Angelo, Agnese, sembrava sfidare tutte le regole delle unioni tra consanguinei: era di una bellezza che rasentava la stregoneria al punto che molti in paese la chiamavano la Agana, la ninfa che abitava i corsi d’acqua.

Un guizzo e gli fu addosso, ma esattamente come suo nonno aveva fatto male i conti: Angelo si voltò di scatto e lo gettò a terra tirandogli un paio di diretti in faccia che lo inchiodarono al pavimento. Dopo di che, senza proferire una sillaba, infilò la porta e se ne andò.

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Fabio Mario Bullo
Sono nato in un freddissimo giorno di San Valentino sull'orlo della laguna veneta, nella prima metà dei rutilanti anni ottanta. Provengo da un antico casato di avidi divoratori di libri, e la lettura è ciò che mi ha impedito di diventare un perfetto buzzurro, visto che mi sono diplomato a stento all'istituto professionale.
Quando non sono impegnato nelle mie attività principali (cercare di fare soldi e stare con moglie e figlie) me ne vado in montagna tra zecche, sentieri dismessi e asocialità rampante.
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