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La nuova stagione di Pro14 è alle porte e il Rugby Varese è pronto a scendere in campo. Leonardo, per tutti Leo, è un nuovo giocatore della rosa; giovane e acerbo ma disposto a lottare per guadagnare un posto in squadra. Chiara, di fronte a un bivio della sua vita, entra a far parte dello staff come nuova fisioterapista. Leo per tutta la vita ha passato la palla indietro correndo avanti; Chiara odia dal profondo del cuore il rugby.
Mentre la squadra lotta per raggiungere l’obiettivo della stagione, Leo e Chiara si trovano ad affrontare molte scelte di vita. La fine di una storia, trovare il proprio posto in squadra oltre a una stagione sportiva massacrante e impegnativa.
Quando undici anni sono quasi una generazione, il campo erboso di Varese sarà in grado di accorciane le distanze? Diventerà il luogo perfetto, per due persone così diverse, per trovare il proprio posto nel mondo (e nel cuore)?

Perché ho scritto questo libro?

Il rugby è una parte importante della mia vita. Mi sono domandata: “Perché non raccontarlo a modo mio?”. Mentre immaginavo e scrivevo la storia, l’obiettivo che mi ero posta era quello di sfatare il mito più fastidioso che aleggia intorno al rugby. È sì uno sport duro, di contatto, a volte spietato, ma per niente violento. Leo e i suoi compagni di squadra mi hanno mostrato come raccontarlo e Chiara ha aperto le porte verso questo mondo pieno di sfaccettature.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Capitolo 13

Leo si sedette sul lettino, in attesa di iniziare la terapia.

Fortunato aveva avuto ragione. Era uno strappo muscolare, niente di più.

Aveva tirato un sospiro di sollievo. La paura di rimanere fermo a lungo e affrontare un infortunio più grave si era sgonfiata come un palloncino. E con lei anche l’ansia di mamma Marzia che da Mantova gli inviava costanti influenze negative.

«Quando tornerai in campo?» gli aveva chiesto apprensiva.

«Mamma, ci vorranno tre settimane come minimo. Stai calma». “Pensa solo a farmi giocare”.

«Chi ti seguirà nel recupero?»

«Chiara».

«La nuova? Ma scherziamo?» replicò perplessa.

Senza conoscerla, aveva deciso che non era all’altezza di occuparsi di suo figlio.

«Maurizio ha detto che è la persona giusta. E mi fido di lui».

Sua mamma aveva sbuffato ma aveva incassato la replica senza aggiungere nulla. Di Maurizio si fidava anche lei e non osò brontolare ulteriormente.

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Argomento chiuso.

Leo si sgranchì le spalle e osservò la stanza della fisioterapia. Le pareti erano bianche e ricoperte di foto e tavole anatomiche. In un angolo si trovavano un paio di scrivanie con fascicoli, penne e referti medici. Di fianco alla porta, erano stati posizionati sei armadietti e l’attaccapanni era avvolto da giacche e felpe. In un angolo si trovava un lavandino minuscolo. Un foglio di carta per asciugarsi le mani penzolava dalla custodia.

Vicino al suo lettino, si trovava il macchinario della Tecar e un mobiletto pieno di bende, garze e cerotti.

Il suo sguardo fu catturato dalla foto che capeggiava sopra la sua testa. Il Doc con molti anni in meno, una birra in mano e lo scudetto vinto dalla squadra nell’altra. Era datata 1989.

Stava ciondolando le gambe, sfiorando il pavimento con i piedi, quando Chiara entrò. Lo salutò, si legò i capelli e mise la cartella col suo nome sopra ad altre simili.

“Lì dentro c’è la mia vita sportiva”.

«Come stai oggi?»

Lo sguardo fisso sulla scrivania, poi Chiara si tolse la felpa e si lavò le mani.

«Bene».

«Il ginocchio?»

«Fa ancora male».

«Ma dai?» lo schernì. «Che tipo di male?»

«Quando lo piego. Non riesco a fare le scale e a infilarmi i pantaloni».

«Hai messo il ghiaccio?»

«Sì, come mi hai detto».

«Sei stato a riposo?»

«Sì. Ho lavato le mutande di Raniero. Di solito ci pensa Federico, ma ci ha abbandonato per il raduno della Nazionale».

Chiara alzò lo sguardo e sorrise.

«Vivete insieme?» gli chiese, afferrando un nuovo pacco di carta per asciugare le mani.

«Sì, da cinque anni».

«Ecco perché sei abituato all’invadenza di Raniero» osservò e si accostò al lettino. Leo scoppiò a ridere.

Si sdraiò e osservò i movimenti sicuri di Chiara e lo sguardo deciso. Era tornata seria, come lo era stata nei due giorni precedenti.

Si era trovato da solo con lei, mentre Maurizio e Riccardo seguivano i compagni in palestra. Pensava che sarebbe stata più loquace e invece si era limitata ai saluti e a chiedergli come stesse.

«Per prima cosa, togliamo l’infiammazione al ginocchio» aveva detto con fare sicuro. «Poi, se Fortunato darà l’ok, potrai tornare ad allenarti gradualmente. D’accordo?»

“Il massimo della nostra conversazione”.

Eppure, non gli dispiaceva. Era abituato a essere circondato dal vociare e dalle urla tanto che il suo mutismo era piacevole.

Chiara canticchiò sottovoce un motivetto che Leo non riconobbe. Controllò il tubetto di crema per la Tecar e schioccò la lingua quando constatò che era vuoto. Recuperò una nuova crema e la rigirò tra le dita, prendendola al volo prima che cadesse a terra.

In quei due mesi e mezzo dal suo arrivo, non l’aveva osservata poi così bene. Non aveva fatto caso al colore dei suoi occhi o alle espressioni concentrate che faceva. Si ricordava solo del suo profumo. Ma in soli due giorni aveva recuperato; a stretto contatto aveva avuto modo di soffermarsi a guardarla e si era accorto che era proprio una persona in gamba. Oltre che bella.

“È sempre così seria”.

Non lasciava mai trasparire quello che pensava, sempre concentrata. “Mi piacerebbe entrare nella sua testa”.

«Tu come stai?»

Aveva voglia di chiacchierare e di sentire la sua voce. Era calda e profonda, e se si concentrava su di lei non sentiva il dolore penetrargli nella carne.

«Bene» rispose sorpresa.

Prese la gamba e la piegò delicatamente.

Non riuscì a fare a meno di studiarle le labbra, serrate e incurvate, e la mascella contratta. Era concentrata sui gesti e sul ginocchio. Osservò le sue mani, bianche e delicate, in contrasto col tatuaggio scuro della sua gamba.

Percepiva ogni movimento e il leggero fruscio dei pantaloni che sfregavano sul lettino. Quel silenzio lo rilassava da morire e avrebbe pagato per poter essere seguito sempre da lei.

“Mi piace il suo profumo di cocco”. A ogni movimento, una folata di aroma tropicale gli solleticava il naso.

Il dolore gli pizzicò la mente e grugnì quando Chiara gli piegò il ginocchio.

«Scusa».

Lo distese con cura sul lettino.

“Oggi voglio proprio riempire questo silenzio”.

Chiara avvicinò la macchina della Tecar, strumento che avrebbe utilizzato per aiutarlo a ridurre l’infiammazione più velocemente. Posizionò l’elettrodo sotto il ginocchio, l’accese impostando il tempo e la potenza, e collegò l’altro elettrodo, quello che avrebbe utilizzato per massaggiargli il ginocchio.

«Tu non hai coinquilini invadenti?»

«No, nessuno». “Interessante”.

Era già tremendamente curioso.

Chiara studiò il macchinario, poco convinta della sua scelta. La vide aggrottare la fronte e mordersi il labbro. Schiacciò qualche pulsante e mise un po’ di crema sull’elettrodo, pronta per iniziare.

«L’hai fatto per coprire la cicatrice?» Aveva accarezzato il tatuaggio con la mano.

Leo annuì, sorridendo. Era la prima volta che gli rivolgeva una domanda personale.

«Hai fatto una cosa semplice» continuò, ricambiando il sorriso.

«Già. Ho usato la scusa della cicatrice per farlo».

«Che cos’è?»

«Un tributo al mondo del rugby. Ho preso i disegni caratteristici delle più importanti nazioni rugbistiche e li ho combinati in questa onda che mi circonda la gamba. Bello eh?»

Andava molto fiero del suo tatuaggio. Lo aveva studiato nei minimi dettagli ed era unico al mondo.

«Qua, dietro il polpaccio, ho fatto un disegno Maori».

Chiara seguì con lo sguardo la sua mano e non riuscì a trattenere un sorriso. “Ho catturato la sua attenzione”.

«Qui una rosa, simbolo dell’Inghilterra, e qui invece il cardo, simbolo della Scozia» proseguì spostandosi verso il ginocchio e la coscia.

«Notevole, ma iniziamo che poi arrivano i tuoi colleghi».

Leo si sistemò sul lettino e mise le braccia dietro alla testa. Così riusciva a vedere cosa faceva ma soprattutto poteva parlarle guardandola in volto.

«Hai tatuaggi?»

“Continua a parlare con me, dai. Non far tornare il silenzio”.

«No, nessuno».

Posizionò l’elettrodo sul ginocchio e iniziò il massaggio.

«Sei contro?»

«No. Ho paura degli aghi».

«Sei seria?» chiese, scoppiando a ridere.

«Non ridere».

“Eccolo”. Gli piaceva il suo sorriso. Le faceva arricciare il naso e le ammorbidiva i lineamenti. Non lo faceva spesso ma Leo lo ricordava bene. Chiara aveva lasciato da parte l’espressione infastidita sfoggiata nel loro primo incontro. Dalla prima lezione di rugby di Raniero il suo atteggiamento era cambiato.

«Quando lo hai fatto?» continuò Chiara.

«Questo durante il recupero dall’infortunio».

«Questo? Ne hai altri?»

Leo annuì soddisfatto. Adorava i suoi tatuaggi.

«Ne ho uno sul petto, il primo che ho fatto. Sulla scapola e un altro in fase di studio. Lo farò nei prossimi giorni».

Chiara muoveva l’elettrodo sul ginocchio e si allungò per pendere uno sgabello e sedersi.

«Cosa vuoi fare?» gli chiese.

«È un segreto. Ma te lo mostrerò una volta fatto».

I loro sguardi si incrociarono e Leo sentì un leggero imbarazzo invadergli la faccia.

“Che cavolo ti prende?” tuonò nella sua testa. Non aveva detto nulla di male; eppure, il suo cuore iniziò a palpitare incontrollato.

«Mi racconti del tuo infortunio?»

Leo fece una smorfia. «Non è stato niente» rispose spavaldo.

«Ti scoccia parlarne?»

«Un po’».

Chiara non replicò.

“Non fare lo stupido. Sta chiacchierando da venti minuti con te, vai avanti”.

«Mi sono infortunato quando giocavo a Parabiago».

Aveva appoggiato la testa al lettino, le braccia lungo il corpo, e osservava il soffitto. Non gli piaceva proprio ricordare quel giorno, così si concentrò sul dislivello impercettibile del muro e le pennellate di vernice bianca.

«Hai sbagliato un placcaggio?»

Leo si mise a giocare con i laccetti dei pantaloncini. Li rigirava tra le dita e la mente tornò indietro nel tempo.

«No, magari. Stavo provando un recupero durante una ruck. Nel tentativo di pulirla, due della squadra avversaria mi sono volati addosso. Ho cercato di spostarmi per tempo, ma ormai era troppo tardi. Sono dovuto uscire in barella».

«Prognosi?»

«Lesione del legamento crociato del ginocchio destro». Chiara annuì.

«Quanto sei stato fuori?»

«Sette mesi. Sono tornato in campo all’inizio del nuovo campionato. Ho saltato una stagione intera».

Sentiva la curiosità nelle domande di Chiara. Una curiosità professionale, anche se Leo sapeva che nella cartella c’era già scritto tutto.

«Hai avuto paura?»

La voce uscì delicata, un soffio che lo colpì in pieno petto.

Gli aveva messo i brividi. Aveva proprio centrato il segno e lo aveva fatto con una sensibilità che non si aspettava. Voleva parlare con lei ma non aveva messo in conto di rivivere il momento più brutto della sua vita sportiva.

Sollevò le spalle con fare indifferente.

Solo Raniero e Federico avevano saputo che temeva di non poter tornare a giocare. Quando pensava a quel periodo sentiva ancora il dolore provato dopo l’operazione e le voci lontane dei medici.

«Il 99% degli atleti che hanno subito il tuo stesso infortunio sono rientrati in campo senza problemi».

E mentre aspettava di poter iniziare la riabilitazione, quell’un percento era diventato il numero più terrificante della sua vita. Neanche i tre che aveva preso a scuola gli avevano fatto così paura.

Quei giorni gli erano sembrati infiniti. Il sole sorgeva, le ore trascorrevano sempre uguali e il tramonto scandiva la fine della giornata.

Per settimane.

Poi, finalmente aveva avuto la data di rientro e aveva gioito quando aveva ripreso ad allenarsi.

“Una gioia pura. Come quando aspettavo i regali la mattina di Natale”.

La prima volta che aveva rimesso piede in palestra si era commosso. E anche se quel primo giorno aveva faticato parecchio e la forza non era al cento per cento, l’emozione gli aveva dato la spinta per non mollare.

Affrontare il recupero era stato come scalare l’Everest. Era arrivato al traguardo con un senso di stanchezza e di voglia di ritornare alla normalità.

«Ho avuto una paura fottuta quando sono entrato in campo la prima volta» esclamò. Chiara gli aveva trasmesso un senso di fiducia e pensò che potesse essere sincero con lei. Avrebbe capito quello che aveva provato.

«Sì? E come mai?»

«Hai presente la stazza di Raniero? Dopo mesi fuori, placcarlo mi sembrava spaventoso».

Un giorno di maggio particolarmente caldo aveva accompagnato il suo rientro in campo. I tacchetti che calpestavano l’erba verde e la nostalgia per il gioco non erano stati abbastanza forti da impedirgli di non essere spaventato. Aveva tirato un sospiro profondo e pregato che il ginocchio reggesse a quel primo ritorno alla realtà.

Ricordava il brivido che gli aveva paralizzato la schiena e la nausea che gli aveva attorcigliato lo stomaco.

Aveva visto Raniero venirgli incontro e si era preparato a placcarlo, cercando di eseguire il gesto nel modo corretto. E quando riuscì a farlo cadere a terra e a rialzarsi senza sentire male, si era sentito leggero.

Più giocava, più prendeva confidenza col suo ginocchio e la sensazione di paura non si era più riproposta davvero, ma sapeva che languiva quanto le insicurezze dell’adolescenza. Giocava a nascondino e faceva “tana libera tutti” quando meno se lo aspettava.

«Gli infortuni sono così. Ti costringono a tornare con i piedi per terra e a scoprire che sei umano» dichiarò Chiara.

«Già. È proprio vero».

«Hai ancora paura?»

«Ogni tanto. Ma poi passa, mi piace troppo giocare a rugby».

Chiara spense la macchina della Tecar e la spinse verso la parete. Prese un paio di fazzoletti di carta e gli pulì il ginocchio dalla crema lasciata dall’elettrodo.

«Abbiamo finito» esclamò, sedendosi di nuovo sullo sgabello.

Leo si mise seduto e si stiracchiò. Lasciò penzolare le gambe dal lettino e fece roteare le caviglie, facendole scrocchiare.

“Non sono abituato a stare così tanto fermo”.

«Posso?»

Leo aggrottò la fronte ma annuì.

Chiara appoggiò la mano sul ginocchio e passò il pollice sulla cicatrice, rapita da quel piccolo segno sulla pelle.

Il tocco leggero, appena accennato, lo fece sentire incapace di muoversi. Cercò di non darlo a vedere, rimanendo impassibile.

“Peccato sia più grande di me” si sorprese a pensare. Ci avrebbe provato, non poteva negarlo. Se solo non avesse avuto quegli anni in più e non fosse stata una sua collega, gli sarebbe piaciuto scoprire di più su di lei e scalfire la sua corazza d’acciaio.

«Sei una feticista delle cicatrici?» le chiese. Doveva smorzare l’imbarazzo che provava e farla allontanare per non sentire l’impulso di prenderle la mano.

“Ce la fai, Leo? Rilassati”. Chiara scoppiò a ridere.

«No. Ho fatto un corso in cui parlavano delle cicatrici e…sto notando come sono diverse da persona a persona».

«È stata una cosa parecchio strana, sai» le disse divertito.

Chiara si allontanò e si accorse che era arrossita. Cercò di nasconderlo prendendo in mano la cartella appoggiata sulla scrivania.

Era la prima volta che succedeva.

«Ci vediamo domani, ok? Stai a riposo e niente sforzi. Fai lavorare Raniero, nel caso». Si ricompose e si sedette alla scrivania.

“Devo già andare? Inventati qualcosa Leo”.

Scese dal lettino e si infilò le scarpe. Stavano per arrivare i suoi compagni per la seduta della settimana e per lui era arrivato il momento di tornare a casa.

«Sei stata chiacchierona oggi».

Sbuffò per il dolore, il ginocchio era legnoso e pulsava.

Chiara sollevò la testa. «Visto che siamo entrati in confidenza, mi permetto di dirti una cosa».

«Certo».

“Oddio, cosa vuole dirmi?”.

Un certo nervosismo navigò nella sua mente.

“Possibile che abbia capito in qualche modo i miei pensieri?”.

«Dovresti essere un po’ più serio durante gli allenamenti».

«In che senso?»

«Passi troppo tempo a fare il giullare e non fa una buona impressione sugli allenatori».

Leo si irrigidì sentendosi punto nel vivo.

«Per quel che ne posso capire, sei un giocatore talentuoso. Ma devi impegnarti di più. C’è un tempo per scherzare e uno per darci dentro».

Si guardarono negli occhi. Il tono di Chiara non era di rimprovero, eppure le sue parole lo infastidirono ugualmente.

Mai nessuno aveva osato dirgli che doveva impegnarsi di più perché in realtà lo stava facendo.

Stava per ribattere quando sentì la voce di Raniero in corridoio e decise che era arrivato il momento di levare le tende.

Rimase sulla porta per salutare i compagni e se ne andò, ripensando alle parole di Chiara.

“Sei un idiota Leo. Già ti immaginavi chissà cosa”.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Ho letto già un anno fa la prima stesura del libro, lettura piacevole e coinvolgente, si riesce ad immaginare ogni azione di gioco (rugby), e si rimane col fiato sospeso per capire come evolverà la storia d’amore tra i protagonisti, che gira intorno al mondo del rugby. Consigliato vivamente.

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Alessia Ferrario
Sono Alessia, ho 35 anni e vivo in un paesino della provincia di Varese.
Tutti i giorni ho a che fare con numeri, pratiche e scritture di partita doppia; vivo una faticosissima vita da impiegata contabile di uno studio commercialista (spoiler: non era il sogno della mia vita!).
Alla metodicità e precisione dei numeri, ho affiancato una passione per qualcosa che è più viscerale e primitivo.
Troppo facile dire la scrittura.. Troppo comune dire che amo i libri, le serie tv e i film, amo in modo viscerale le storie ben raccontate. E come Rory Gilmore mi ha insegnato, "vivo in due mondi...". Nel mio, in uno di essi c'è il rugby.
Il rugby è il cuore pulsante della mia storia, oltre che del mio tempo libero. Una passione distante anni luce dalla scrittura e che invece ne ha risvegliato la voglia di mettermi di fronte a un foglio bianco e digitare freneticamente parole su una tastiera.
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