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Sette giorni di vita

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In una fredda mattina di novembre, un’infermiera bolognese, testimone di un tragico incidente stradale, perde la memoria a causa del violento shock. Mentre cerca di riavvolgere il nastro dei suoi ricordi, si ritrova a condividere la camera d’ospedale con un’anziana e particolare donna, che le pone una domanda in grado di scuoterla nel profondo: «Cosa faresti se ti restassero sette giorni di vita?». Inizia così una settimana intensa di riflessioni e cambiamenti e la scelta tra sopravvivere e vivere diviene la chiave di volta dell’intera esistenza della protagonista. Esplorando la forza impareggiabile della memoria e la determinazione necessaria per rinascere, il romanzo offre una prospettiva illuminante sulla reale possibilità di trasformare la propria vita.

7 NOVEMBRE 2020

Pozzanghere di sangue, vetri ovunque, puzza lacerante di benzina e di gomma bruciata, lamiere sparpagliate sulla strada e nei campi. Due auto ridotte a metà e il buio al loro interno. Questa è la scena che mi trovo di fronte mentre percorro la strada verso casa dopo il lavoro, la mattina di quel sette novembre 2020.

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Il turno di stanotte in ospedale è stato massacrante e ora, poco prima delle otto, sogno una doccia calda, la mia zuppa preferita con zucca e zenzero per colazione, un bel film romantico che mi faccia sognare un futuro più roseo. Ma la vita ha in serbo un programma differente. Percorrendo la strada di campagna che mi separa solo di pochi chilometri dall’agognato ristoro, sono costretta improvvisamente ad accostare nello slargo compiuto dalla strada perché due auto incidentate sbarrano il passaggio. Mi sento catapultata in un film dell’orrore in cui aleggia l’assenza spettrale di esseri umani. Esco dall’auto con il cuore in gola e l’intorpidimento di gambe e braccia si trasforma rapidamente in una paralisi che mi impedisce di urlare, piangere, scappare, chiamare qualcuno. E mi impedisce anche di avvicinarmi a quello che resta delle due auto per vedere chi contengano o cosa resti di loro.

La casa più vicina è quella rossa che invidio da sempre, di proprietà dell’uomo che ho sempre amato e immaginato come principe azzurro, nonostante le tenebre che mi ha fatto vivere a più riprese. Anche se volessi accantonare i pochi scampoli di orgoglio rimasti e raggiungerla per chiedere aiuto, non potrei perché sono completamente priva di forze. Totalmente inerme.

Senza accorgermene, mi ritrovo accasciata per terra a pensare alle emergenze che sono abituata ad affrontare ogni giorno in prima linea; alle vite che contribuisco a salvare; alle vite che cerco di strappare alla morte e a quelle che, col cuore in gola, devo concedere alle sue braccia. Rimugino su tutto quello che dovrei fare, ma che mi è impossibile fare in quel preciso momento.

Ogni mia funzione vitale sembra essere in stand by, come la morte apparente degli animali quando restano immobili di fronte al loro predatore più feroce sperando di dissuaderlo dal mangiarli.

Nell’ospedale in cui lavoro da tre anni sono apprezzata per la dolcezza con cui tratto i pazienti ma, allo stesso tempo, per la prontezza di riflessi e per il coraggio che dimostro di fronte alle scene più pulp, alle vite senza speranza e agli annunci più ardui da comunicare e far digerire ai parenti delle vittime. Dov’è finita quella reattività? Dov’è finita quella forza? Cosa ne è stato della mia esperienza? Tutte le mie facoltà sembrano avermi abbandonato senza preavviso. Come un partner stanco che non riesce più a sopportarti e un bel giorno se ne va senza nemmeno lasciarti un post-it telegrafico sul tavolo di cucina. A nulla serve invocare quella temerarietà e richiamarla all’ordine: non abita più dentro di me e ha cancellato ogni traccia della convivenza pregressa.

Non mi sarebbe richiesto chissà quale atto eroico, basterebbe tornare in auto a prendere il cellulare nella borsa e digitare le tre cifre necessarie a chiamare l’ambulanza. Ma il mio corpo pesa una tonnellata e non riesco a muovere neanche il mignolo di un piede. Nel frattempo, la nebbia intorno a me diventa sempre più densa e risucchia voracemente la mia ombra. L’unico riflesso tangibile della mia anima.

Non riesco nemmeno ad arrabbiarmi con me stessa. E questo mi pare ovvio, dato che la rabbia è energia pura che ha abdicato al suo ruolo emotivo. Devo rassegnarmi. Aspettare. Non posso fare altro che cedere al colpo di stato dell’immobilità.

 

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Lara Ventisette
È psicologa e psicoterapeuta, ricercatrice ufficiale del Centro di Terapia Breve Strategica di Arezzo. È proprietaria intellettuale del marchio PsicoStyling, un coaching psicologico innovativo dedicato al miglioramento dell’autostima. Dopo i saggi scritti a quattro mani “Sai Osare, genitori e figli alla conquista dell’autostima (Pendragon, 2020)” e “Il peso delle apparenze, perché la prima impressione è quella che conta (Ponte alle grazie, 2021)”, “Sette giorni di vita” è il suo primo romanzo.
www.laraventisette.com
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