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Sette giorni di vita

Sette giorni di vita
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Consegna prevista Aprile 2024
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“Pozzanghere di sangue, vetri ovunque, puzza lacerante di benzina e di gomma bruciata, lamiere sparpagliate sulla strada e nei campi. Due auto ridotte a metà e il buio al loro interno. Questa è la scena che mi trovo di fronte mentre percorro la strada verso casa dopo il lavoro, la mattina di quel sette novembre duemila venti”.
Comincia quel giorno il nuovo pellegrinaggio esistenziale di un’anonima e insoddisfatta infermiera bolognese.
Ignara di trovarsi di fronte al bivio più perentorio della sua vita, deve scegliere se restare prigioniera del suo passato o tentare di riscattarlo. Mentre il tempo è scandito dal pendolo ospedaliero che si muove inesorabile tra la vita e la morte, lei lotterà per trasformare i suoi demoni in angeli custodi. Si risveglierà dal torpore per licenziare l’infelicità certa e assumere, a tempo indeterminato, la felicità dubbia. Scegliere se sopravvivere o vivere è come scegliere se essere o non essere.
Una decisione che tutti, prima o poi, dobbiamo prendere.

Perché ho scritto questo libro?

L’essere psicoterapeuta mi rende custode privilegiata di innumerevoli storie di vita, spesso drammatiche.
Amo scrivere condensati delle trame terapeutiche che vivo quotidianamente, esempi reali di viaggi dell’eroe. Trasformazioni evolutive emblematiche, corredate da strumenti concreti per poter gestire la vita, anziché subirla.
In questo romanzo vi racconto come la costruzione dell’autostima sia la via maestra per dare all’esistenza un significato da assaporare appieno.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Pozzanghere di sangue, vetri ovunque, puzza lacerante di benzina e di gomma bruciata, lamiere sparpagliate sulla strada e nei campi. Due auto ridotte a metà e il buio al loro interno. Questa è la scena che mi trovo di fronte mentre percorro la strada verso casa dopo il lavoro, la mattina di quel sette novembre duemilaventi.

Il turno di stanotte in ospedale è stato massacrante e ora, poco prima delle otto, sogno una doccia calda, la mia zuppa preferita con zucca e zenzero per colazione, un bel film romantico che mi faccia sognare un futuro più roseo. Ma la vita ha in serbo un programma differente. Percorrendo la strada di campagna che mi separa solo di pochi chilometri dall’agognato ristoro, sono costretta improvvisamente ad accostare nello slargo compiuto dalla strada perché due auto incidentate sbarrano il passaggio. Mi sento catapultata in un film dell’orrore in cui aleggia l’assenza spettrale di esseri umani. Esco dall’auto col cuore in gola e l’intorpidimento di gambe e braccia si trasforma rapidamente in una paralisi che mi impedisce di urlare, piangere, scappare, chiamare qualcuno. E mi impedisce anche di avvicinarmi a quello che resta delle due auto per vedere chi contengano, o cosa resti di loro.

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La casa più vicina è quella rossa che invidio da sempre, di proprietà dell’uomo che ho sempre amato e immaginato come principe azzurro, nonostante le tenebre che mi ha fatto vivere a più riprese. Anche se volessi accantonare i pochi scampoli di orgoglio rimasti e raggiungerla per chiedere aiuto, non potrei perché sono completamente priva di forze.  Totalmente inerme.

Senza accorgermene, mi ritrovo accasciata per terra a pensare alle emergenze che sono abituata ad affrontare ogni giorno in prima linea; alle vite che contribuisco a salvare; alle vite che cerco di strappare alla morte e a quelle che, col cuore in gola, devo concedere alle sue braccia. Rimugino su tutto quello che dovrei fare, ma che mi è impossibile fare in quel preciso momento.

Ogni mia funzione vitale sembra essere in stand by, come la morte apparente degli animali quando restano immobili di fronte al loro predatore più feroce sperando di dissuaderlo dal mangiarli.

Nell’ospedale in cui lavoro da tre anni sono apprezzata per la dolcezza con cui tratto i pazienti ma, allo stesso tempo, per la prontezza di riflessi e per il coraggio che dimostro di fronte alle scene più pulp, alle vite senza speranza e agli annunci più ardui da comunicare e far digerire ai parenti delle vittime. Dov’è finita quella reattività? Dov’è finita quella forza? Cosa ne è stato della mia esperienza? Tutte le mie facoltà sembrano avermi abbandonato senza preavviso. Come un partner stanco che non riesce più a sopportarti e un bel giorno se ne va senza nemmeno lasciarti un post-it telegrafico sul tavolo di cucina. A nulla serve invocare quella temerarietà e richiamarla all’ordine: non abita più dentro di me e ha cancellato ogni traccia della convivenza pregressa.

Non mi sarebbe richiesto chissà quale atto eroico, basterebbe tornare in auto a prendere il cellulare nella borsa e digitare le tre cifre necessarie a chiamare l’ambulanza. Ma il mio corpo pesa una tonnellata e non riesco a muovere neanche il mignolo di un piede. Nel frattempo, la nebbia intorno a me diventa sempre più densa e risucchia voracemente la mia ombra. L’unico riflesso tangibile della mia anima.

Non riesco nemmeno ad arrabbiarmi con me stessa. E questo mi pare ovvio, dato che la rabbia è energia pura che ha abdicato al suo ruolo emotivo. Devo rassegnarmi. Aspettare. Non posso fare altro che cedere al colpo di stato dell’immobilità.

Il tempo sospende il suo giudizio e si fa sempre più impalpabile fino a quando il mio stato di shock viene illuminato dai fari accecanti di un’auto che si ferma a pochi passi da me.

Un signore distinto sui sessant’anni scende in fretta e si precipita a chiedermi cosa mi è successo, se sto bene, se sono ferita, dove sono e come stanno le altre persone coinvolte. Sento la sua voce come un’eco lontana e non riesco a rispondere. Zero assoluto. La voce ha raggiunto il corpo nel suo oblio. L’uomo, risoluto, mi muove le braccia e le gambe, poi però si rassegna e si accontenta di sistemarmi sdraiata per terra, con la sua giacca sotto la testa. Ora può correre verso le carcasse delle due auto sconosciute.

Non sento quasi nulla, eccetto una voce che si dispera. Parole che rimbombano nell’aria torbida, scoppiettanti come lugubri fuochi d’artificio che nessuno è interessato a vedere, né a sentire. Rimango sdraiata e sovrastata dal rumore di quel tentato soccorso angosciato, dagli odori persistenti che mi trafiggono la gola e dal congelamento che mi ha rapita, ma non si decide a chiedere il riscatto per la mia liberazione.

Poi il volume dei rumori si abbassa sempre più, fino a quando la mia radio sensoriale si spegne del tutto.

Fuori e dentro di me regna il silenzio. La mia memoria si mette in aspettativa e il ricordo di quella mattina resta rarefatto come l’ombra delle nuvole.

Mi risveglio in un letto dello stesso ospedale in cui lavoro. Questa volta sono una paziente, questa volta sono io a dover suonare il campanello se ho bisogno, a chiedere aiuto per andare in bagno e a mal tollerare l’ago della flebo che somiglia ad un carica batterie del futuro. Non c’è nessuno intorno a me quando apro gli occhi, eccetto una signora nel letto di fronte che sta dormendo. Non ho idea di che giorno e di che ora sia, tutto tace intorno a quella camera con una finestra alla mia sinistra e la porta del bagno alla mia destra. Provo a pensare al reparto in cui ci troviamo io e la mia coinquilina, al numero della camera che ci è stata assegnata, al nome della caposala e dei colleghi che devono occuparsi di me. Mi sforzo, ma non ne ho la minima idea. La mia energia infinitesimale non è sufficiente a chiamare qualcuno per esternare le migliaia di domande che mi ronzano in testa. Mi sento bene, non ho dolori e riesco a muovere tutti e quattro gli arti, la testa, le mani, i piedi e il bacino. Mi auto sottopongo a qualche test psicomotorio: riesco a stringere i pugni, a toccarmi il naso volontariamente, a sollevare il lenzuolo verso l’alto, a cantare un pezzo di canzone di Cremonini, a ritirare l’addome, a pronunciare la mia data di nascita, il nome dell’ospedale in cui mi trovo, i gusti del mio gelato e della mia pizza preferiti.

Non capisco. Poco dopo, la signora del letto di fronte apre gli occhi e mi sorride chiedendomi come io stia. Rispondo che mi sento bene fisicamente, ma non capisco perché mi trovo in ospedale come paziente, dato che io sono l’infermiera in genere.

Le chiedo se le hanno raccontato cosa mi è successo, se qualcuno della mia famiglia è stato avvisato, o magari è passato a trovarmi mentre dormivo. Mi racconta che mi hanno portata qui perché ero sotto shock dopo qualcosa che mi è successo. Sono stata ricoverata poiché al pronto soccorso non sono riusciti a risvegliarmi da un prolungato stato di incoscienza. Non sa cosa mi sia accaduto di preciso, ma verso l’ora di pranzo ha conosciuto mia madre che si è fermata una mezzora a vigilare in silenzio su di me. Mi dice: “Tua madre era molto preoccupata, ma il dottore le ha detto che ti riprenderai in fretta se collabori e lei si è tranquillizzata”.

“Se collabori”. Cosa significa? Dalla parte dei bottoni siamo soliti chiedere ai pazienti di collaborare avendo pazienza, cercando di sopportare il dolore, la mancanza dei propri cari, un luogo diverso dalla propria casa, la possibilità di un recupero lento, dei vicini di letto fastidiosi o sofferenti, il cibo insapore, i rumori notturni, la latitanza della nostra gentilezza, gli orari di visita limitati, la nebbia riguardo il futuro. Ma io in cosa devo collaborare esattamente? E, soprattutto, da cosa dovrei riprendermi?

Mentre attendo le risposte, faccio conoscenza. Un’attività che mi ha sempre allietata, nonostante la timidezza congenita.

La mia compagna di stanza mi racconta che è in ospedale da due mesi a causa del covid-2019. È stata prima in terapia intensiva attaccata al filo sottile che unisce la vita e la morte, ma poi è riuscita a sopravvivere e ha continuato il suo pellegrinaggio ospedaliero regredendo prima al reparto di terapia semintensiva, fino a sbarcare in quello di medicina generale che ora coabitiamo. Suo marito, purtroppo, di fronte al medesimo destino, non ce l’ha fatta ed è deceduto un mese fa. Me lo dice con un’aria serena e con un piccolo sorriso accennato sulle labbra. I miei occhi, invece, si riempiono li lacrime, non solo per l’esperienza drammatica che questa donna ha dovuto affrontare e sta affrontando in relazione a se stessa e alla perdita del marito, ma anche perché mi commuovo moltissimo quando le persone si raccontano a me in maniera così estemporanea, naturale e limpida.

Le rivelazioni sono la mia corda sensibile. Una delle cose per cui credo valga la pena calpestare questa terra. Mi fa sentire utile essere la custode di segreti significativi e mi piacerebbe pensare di essere proprio io a infondere la fiducia che incoraggia questa possibilità, ma temo non si tratti di me. Ritengo che il merito sia interamente dell’ospedale: un contenitore che abbatte i muri e azzera le difese, spingendo soavemente le persone a denudarsi, anche di fronte a sconosciuti, come se fosse la cosa più facile del mondo. Come se fosse una necessità terapeutica. O una prescrizione tacita.

Questa donna sembra una fata buona. È minuta e magra, lo si vede dal movimento impercettibile che compiono le sue membra al di sotto delle lenzuola quando si muove. La lunga degenza ha sbiancato e scompigliato i suoi lunghi capelli ondulati, ma sono visibilmente soffici e forti.  Ha una fronte piccola, gli occhi vicini tra loro, azzurri e vispi, un naso perfetto e molte rughe che le impreziosiscono il viso perché più simili alle sfumature di un incantesimo che agli autografi implacabili della sofferenza. Nonostante la visibile, veneranda età, sembra una fanciulla sovrannaturale.

Trovo che negli esseri umani sia l’espressione emotiva ad unire, come fossero puntini, tutti i tratti del viso conferendogli morbidezza o rigidità. È il sentire che trapela dalle forme dei nostri corpi a dare ragione, o a smentire, la loro geometria. È il modo di parlare o di stare in silenzio tipico di ogni persona a creare quell’arcobaleno di sfumature, ostentate o riservate, di cui tutti disponiamo. Beh, gli orpelli non verbali della fata sono molto pacati, dolci e rasserenanti. E anche la sua voce è una messaggera di pace.

Cerco di asciugarmi le lacrime che rischiano di sgorgare sfacciatamente dai loro dotti, poi le chiedo come si sente e se suo marito le manca.

Mi rivela che erano sposati da oltre cinquant’anni. Soffre, ma pensa di essersene fatta una ragione anche se sono trascorsi solo trentadue giorni dalla sua dipartita. Un’occasione importante per lei, la morte del marito. L’opportunità preziosa di fare i conti con lo spirito di sacrificio che l’ha guidata per tutta la vita. La possibilità di scovare i suoi bisogni e desideri in tempo, per essere pronta qualora riesca ad uscire dal purgatorio di questo ospedale.

Continua a parlarmi dell’uomo con cui ha condiviso gran parte della sua vita, dicendo che alcuni significati dati nel tempo alla loro relazione sono stati seppelliti con lui. Non è stato un matrimonio tutto rose e fiori. Lui l’ha tradita più volte in quel lungo viaggio condiviso, non hanno potuto avere figli, i soldi non hanno mai raggiunto l’abbondanza, i parenti si sono spesso immischiati nelle loro faccende. E un anno prima di ammalarsi in contemporanea, a inizio settembre, ha scoperto l’esistenza della seconda famiglia di lui, figlia ventenne inclusa. A svelargliela una coincidenza fortuita.

 

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Lara Ventisette
Psicoterapeuta di professione, affiliata al Centro di Terapia Breve Strategica di Arezzo, diretto dal Prof. Giorgio Nardone.
Mamma, insegnante di yoga, formatrice e organizzatrice di eventi per passione.
Dopo aver scritto due saggi, ho cominciato a scrivere romanzi che hanno come trama le storie cliniche di cui mi occupo quotidianamente. Il mio obiettivo è donare ai lettori strumenti concreti che, pur non potendo sostituire una psicoterapia ad hoc, agevolino il superamento delle difficoltà, o la risoluzione dei problemi, prima che questi divengano patologie.
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