Io posso dirlo e posso anche giurarlo. Perché dopo tanti barcamenamenti (e questa parola penso esista ma non riesco a trovarla sul dizionario) ci sono finito davvero sul fondo del baratro più lurido. E non sto per niente cercando di fare leva con le ginocchia per spingermi verso l’alto. Anzi, sto grattando il fondo con le unghie per scoprire se riesco a scendere più in basso di così. Ora la domanda è: sono io il caso disperato, l’eccezione alla regola, o quanto si dice è solo una falsa convinzione? Oh, quanto non tollero le false convinzioni, mi danno il voltastomaco. Come quella tizia che veniva a fare le pulizie a casa mia, quando vivevo con mia mamma. Una mattina la sentii che intonava il brano Hallelujah di Leonardo Cohen mentre lavava il piano della cucina. Mi avvicinai e lei mi rivolse la parola dicendomi:
«Tesoro… mmm… come amo questo brano religioso. Hal-le-lu-jah…hal-le-lu-jah…mmm», e si rimise a canticchiare. Provai a spiegarle che ci sono diverse interpretazioni, diversi significati. Ma nulla, si mise a urlarmi in faccia come se io stessi bestemmiando contro la sacra chiesa cattolica. Avevo manco quindici anni, ma mi appassionavano di già, e non poco, queste cose. Leggevo tanto e ogni cosa. Me ne andai dalla cucina con il vomito in bocca dalla rabbia. Brutta stupida ignorante: urla al cielo il momento in cui godi perché qualcuno te l’ha imbucato in quel posto. L’ignoranza, le false convinzioni, o le convinzioni a prescindere. Il dubbio regna, solo il dubbio.
Quando dico che raschio il baratro parlo sul serio. Quando parlo non dico mai le cose tanto per dirle. Ricordatevelo questo nel prosieguo. Io scavo il pavimento con le unghie, che sono affilate e dure come quelle dei maiali. E faccio rimanere male coloro che hanno creduto fosse una metafora. Mi piace far finta che quello che scrivo qui verrà mai letto da qualcuno. Qualche anno fa ero a casa di un mio amico quando vidi le sue cagnette che freneticamente tentavano di scavare con le zampe le piastrelle di ceramica, e le unghie si incastravano quasi sempre in mezzo alle fughe e sembravano spezzarsi tanto facevano con frenesia e forza. Raschiavano, raschiavano in preda alla pazzia forse, come se davvero volessero solo bucare il pavimento per scappare via di là. E io qui ho lo stesso loro diletto. Qui in questo fondo. La differenza con loro è che loro stavano bene, anzi benissimo. Non capisco proprio le ragioni di quel loro scavare, ma ognuno ha le sue di ragioni e io sono l’ultimo al mondo in grado di dare dei giudizi. Quindi zitto.
Silenzio!
Shh!
Poco fa è passato Tarantinella, penso mi abbia sentito mentre dicevo shh e me stesso. Mi zittivo. Questo pensiero che ora ho messo su carta l’ho avuto poco fa mentre faticavo a scavare il pavimento duro di questo tugurio. Tarantinella mi ha chiesto cosa stessi facendo. Proprio così me l’ha chiesto.
Gli ho risposto senza nemmeno renderlo degno d’esser guardato. Non perché non lo sia, povero bastardo, ma perché il più delle volte non ho alcuna voglia di guardare la gente in faccia. Perché si vedono troppe cose guardando la gente in faccia. Il peggio è che quando guardandola ci si rivede quel che non si è; oppure si vede quel che non si ha avuto e mai si potrà avere; o anche peggio: quel che si sarebbe potuti essere; o peggio ancor di più: il perché presto si cesserà di essere. Gli ho risposto:
«Ché non lo vedi?»
«Pure che lo vedo non lo capisco…» ha detto continuando a guardarmi come se al centro degli occhi avessi un porro rosso gigantesco.
«E se non lo capisci, può mai essere un problema mio?» ho detto ancora, senza accennare a fermarmi dal fare la mia attività e senza ovviamente rivolgere a lui lo sguardo.
Tarantinella è l’unica guardia che conserva ancora verso di me leggeri segni di umanità e pare mi guardi come si guardano gli altri: senza pena, senza compassione, senza odio. Mi guarda quasi come se appartenessimo ancora alla stessa specie. Mi sorride spesso. Una volta gli ho domandato perché mi sorridesse sempre e mi ha risposto che ha imparato una cosa fondamentale nella vita: regalare un sorriso a qualunque tipo di persona migliora notevolmente il proprio animo. Quando mi ha detto questa cosa gli ho detto che allora era una malsana forma di egoismo la sua e che avrebbe dovuto vergognarsene. Ecco, nonostante io lo tratti male non mi risparmia mai un sorriso o una frase gentile. Mi piace per questo, perché è convinto delle sue idee e le porta avanti, nonostante lavori in un posto come questo. Nonostante in realtà sia un egoista.
Alla fine, ho deciso di dirgli che facevo:
«Scavo!» ho detto.
«In che senso?» ha chiesto lui.
«Scavo, scavo, S-c-a-v-o» ho detto di nuovo aggiungendo gravità al suono di ogni singola lettera.
Faccio cazzate. Mica non so che è una cosa stupida, ma vengo a saperlo sempre soltanto dopo qualche ora che l’ho fatta. Per quello che dicono i dottoroni qui, vivo un’esistenza alternata tra momenti di lucidità e momenti di oblio.
Tarantinella, sprovvisto per qualche istante del suo sorriso, è rimasto lì a osservarmi più del dovuto, più di quanto io potessi sopportare e per questo mi sono stancato di essere osservato mentre facevo quanto stavo facendo e per questo mi sono scaldato troppo e mi sono messo a urlargli oltre le sbarre cercando, per quanto possibile, di fargli arrivare addosso una discreta quantità della mia saliva. Per fortuna non ha visto il fosso che ho scavato. Mi vede mentre scavo, vedono lo scavo, ma nessuno tenta di fermarmi. Ah, lo so il perché, perché non osano avvicinarsi a me, perché posso divorarli. È proprio vero quello che si dice: che gli uomini le cose meno nascoste non le vedono. Perché ci sono cose che possono essere trovate solo da altre speciali cose.
I mostri vengono a farmi visita di notte, di solito. E più tento di ricordare e più dimentico. Sono cinque lunghi anni che provo a ricordare. Cerco di capire.
Esempio: devo ammettere che Lucrezia mi manca e spesso sento quel bruciore dietro la nuca che è lì-lì per arrivare agli occhi. Mi mancano i capelli che le ondeggiavano davanti al viso, quei capelli che pigliavo con queste mani, glieli tiravo verso il basso affinché le si scoprisse bene il collo e le baciavo il rigonfiamento della trachea fino a divorarle il mento. E le labbra che succhiavo con forza fino a farle entrare nella mia bocca. Ma quel che più amavo era il collo. A lei non dispiaceva che io glielo baciassi a quel modo, e che la trattassi con irruenza, e che tentassi sempre di morderglielo come se io fossi Dracula e lei Mina. Lucrezia amava i miei modi di fare virili. Lei è un filo d’erba mosso dal vento e quel vento ero io. E passo ora l’indice sulla mia bocca per ricordare ancora meglio quei momenti che sono certo ci furono e che ora si annidano nella più logorante delle nostalgie. Penso alle sue labbra, sempre bagnate, a volte salate anche, come lo erano le sue guance a volte, e a volte anche il suo collo. Quando la baciavo sentivo quel calore umano, caldo, pieno, che ti riempie la bocca di un gusto che non ha gusto per le papille, ma che sazia altri istinti e fa ansimare. E vengo ora nelle mie mani mentre un tempo le venivo dentro, forte, e lei gemeva a volte triste altre volte felice. Lei geme ora nella mia mente, ma lei non viene. Non viene, non è mai venuta qui, perché?
Odio.
Ora provo soltanto odio. Almeno un tempo era odio frammisto all’amore.
È di già un gelido inverno, ma oggi il sole è stato intenso. Perché è così: quando fa freddo in inverno il sole è radioso. E prima mi è venuta in mente quella frase scritta da Albert Camus, quando in una sua opera poetica scrive:
«…nel bel mezzo dell’inverno ho scoperto che vi era in me un’invincibile estate». Se solo fosse vero per tutti. Da che ne ho memoria vivo solo gelidi inverni, ma non ho mai trovato alcuna estate in me. Eppure, l’ho cercata; ora ho smesso da un pezzo. Lurida estate introvabile perché lurido me. Sono un reietto della società, un insetto viscido, emarginato e solo. E ricerco amicizie impossibili, sognando che un giorno qualcuno possa leggere questi miei scritti ed essermi amico. Oh, lettore che forse sei più simile a me di quanto credi, non posso essere l’unico verme di questo mondo.
Chi striscia nella propria mente è condannato a strisciare fuori. Sia dannata la gente che se la ride.
È il primo giorno di questo sporco diario di uno sporco uomo. È l’undici novembre, il mese che appartiene ai morti e forse anche a quelli che come me sono morti ancora solo dentro e vivono nell’attesa di trovare quel coraggio di morire del tutto.
13 novembre
Ieri non ho avuto tempo di scrivere. Sono stato troppo indaffarato. Sono nel pieno della mia vita e sono uno pieno di impegni. Oh, sia chiaro, tutti impegni umili, gli impegni che hanno tutti. Non come quelli che credono di avercelo più sopra e che millantano di essere più impegnati di chi li circonda. E anzi, anzi, che è peggio, molto peggio, vanno a dire in giro che loro hanno tali impegni qui, tali impegni là, più di altri. No, io non appartengo a questa categoria umana che reputo feccia. Perché questi sono ignoranti e non conoscono i mostri che ogni altro consimile combatte quotidianamente, e quindi farebbero ben meglio a starsene zitti. Ma tanto, questi, è vero che imputridiscono dentro ben prima di fuori.
Ieri sono stato tutto il giorno a compiere il mio quotidiano mestiere attuale e poi mi è successo un fatto strano; no, due fatti strani. Comunque, non mi sono divertito per niente, perché ogni volta quando sono a lavoro viene a disturbarmi una che tra poco conoscerete e che è abilissima a farmi sentire piccolo e a rendermi pensieroso. È quel tipo di soggetto in grado di ingarbugliarti i pensieri. Riesce, dal niente, come succede con il filo da pesca, a creare tanti nodini indistricabili nella mente.
Ho consumato una enorme quantità di fogli inutilmente, per scrivere. Ho cancellato e riscritto più volte. Quanto posso concentrare i miei pensieri su un lavoro mi sento meglio e inizio a provare un po’ di sollievo, giusto un poco però. Il vero sollievo appartiene agli scanzonati. Quando scrivo concentro tutti i pensieri su un foglio, e gettandoli lì sopra sembra quasi che per un attimo si stacchino dal loro creatore, per qualche momento sembra che si allontanino da me. Se solo si potesse incatenarli per sempre tra le trame della carta, se solo l’inchiostro avesse questa abilità. Li butto giù, ma poi ritornano, trovano la strada maledetti e si ficcano di nuovo in me, o dalle orecchie, o dal naso, o dalla bocca mentre dormo. Una strada la trovano sempre. Si liberano dal foglio, sgusciano via dalla leggera pressione che una pagina esercita sull’altra, volano poi fino a me che ignaro li riaccolgo. Il conforto, lor signori, lo si sappia in giro, è il più fumoso dei miraggi, lo guardi, ti illudi, lo brami, e per quei momenti quasi quasi pensi di esserne fuori, ma poi scopri che era solo un fenomeno ottico atmosferico. Sfere di luce coperte dalle ombre. Respiri liberi durante una continua apnea.
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