Luca, Loren, Rick, Fed e Mary sono amici d’infanzia. Partono verso un mondo coloniale (Siderus) per sfuggire all’imminente collasso della società civile del XXIII secolo. Le leggi della relatività, attraverso le quali è possibile il viaggio interstellare, impongono il completo distacco dai propri affetti e la rinuncia ai propri legami. Per sfuggire all’isolamento irreversibile che opprime i viaggiatori, sui nuovi mondi nasce una disciplina in grado di privare l’essere umano delle sovrastrutture psicologiche che lo legano ai suoi simili. Una volta su Siderus, i loro legami si lacerano. Nel disperato tentativo di recuperare i legami perduti, c’è fra loro chi resta e chi fugge. A giocare troppo con le leggi della relatività, però, il tempo a disposizione di un essere umano si esaurisce. Sullo sfondo si consuma una sanguinosa guerra tra civiltà umane in ascesa e in declino.Amici e nemici si confondono. Siderus – Ritorno consegna alla storia l’homo novus, vittima e fautore del proprio tempo.
Perché ho scritto questo libro?
Siderus – Ritorno è il secondo capitolo di una quadrilogia. Conclude le vicende di Siderus – Fondazione, e la sua prima stesura conta ormai vent’anni. Quest’epopea fantascientifica, dalle tinte cupe e realistiche, nasce con l’intento di raccontare il lato oscuro che sospinge i personaggi, e dunque l’essere umano in assoluto, ad agire trasportati dalle proprie paure, sondare la loro psicologia, mostrare quanto il bene di qualcuno possa essere il male per qualcun altro.
ANTEPRIMA NON EDITATA
Nathan Kijostar tirò un sospiro di sollievo: aveva appena finito i compiti di astro-politica e gli esercizi di calcolo tensoriale. La maestra era stata molto chiara: in sesta elementare non si va senza conoscere i fondamenti della storia e della matematica. Nathan, però, non sapeva che farsene del calcolo tensoriale. Che gli importava, poi, della storia antica della Terra, di quando gli uomini andavano in giro con le automobili, inquinavano la superficie del pianeta con la propria spazzatura, e bruciavano le foreste? Dopotutto, ormai, il danno era fatto. Inutile stare lì a piangersi addosso. Quando furono le 23 del pomeriggio (eh sì, l’ora era un po’ cambiata), poté scendere nel campetto giù di casa a giocare a calcio quantistico. Il particolarissimo pallone era fatto interamente di energia, e poteva materializzarsi, in qualsiasi punto del campo, senza che nessuno potesse prevederlo, per poi smaterializzarsi nuovamente. Le due squadre dovevano essere così veloci da segnare il punto finché il pallone era fatto di materia, piuttosto che di energia.
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Tutto questo era possibile grazie a una piccola, piccolissima equazione matematica, di quelle che son pure belle da vedere, l’arte degli uomini che giocano coi numeri, il Michelangelo del segno uguale, il Leonardo dei minuti simboli che rappresentano l’universo. L’erba sintetica scricchiolava sotto le scarpe, e Nathan non sapeva spiegarsi perché si usasse una cosa del genere e con un nome tanto antico. Era una tradizione usare l’erba nel campetto, ma non aveva idea del perché. E non capiva perché avesse quel colore tanto strano: il verde. Una volta gli raccontarono che, al di fuori della biosfera (la grande cupola sotto la quale c’era la sua città), più di mille anni prima, l’erba cresceva rigogliosa. Però, l’erba del campetto non cresceva affatto! Era di plastica! Nathan conosceva benissimo la formula chimica del polietilene che la costituiva, e sapeva che non poteva proprio crescere. Al massimo poteva fondersi o dilatarsi. Ma allora l’erba cos’era? Oltre le camere di equilibrio, che portavano allo spazioporto, c’era solo una distesa di rocce, bollenti di giorno e gelate la notte. L’erba avrebbe vissuto in un posto del genere? Quando fu sera, verso le 4, Nathan accompagnò il nonno a fare un giro nel parco virtuale, situato proprio al bordo della biosfera. Nonno Allen sembrava piuttosto sconsolato. “Che hai, nonno?”
Chiese Nathan, incuriosito.
“Nathan, a te piace vivere qui?”
“Certo nonno. Perché me lo chiedi?”
Il nonno diede una botta leggera, col bastone, alla base di un olo-albero.
“Sai cos’è questo?”
“Certo! È una ricostruzione interferometrica di un albero. Oggi abbiamo studiato le matrici di calibrazione dei fasci luminosi, che consentono di costruire le immagini olografiche!”
Nathan era orgogliosissimo di aver dato una spiegazione tanto precisa. Aveva studiato bene la lezione. Nonno Allen, però, scoppiò a ridere.
“Ah! Bravo! Hai studiato bene! Però, vedi, c’è un piccolo problema: oggi ricostruiscono gli alberi con un laser, un domani caricheranno direttamente le immagini nel nostro cervello. Eppure, né io né tu, abbiamo mai visto, né toccato, un albero vero. Non trovi che tutto questo sia assurdo? Perché abbiamo bisogno di inventarci l’immagine di un albero elettrico, che non serve a nulla?”
Nathan non capiva. Per lui gli alberi erano solo delle figure, delle immagini stilizzate, un po’ come i personaggi dei cartoni animati o dei film. Nonno Allen sospirò, e poi riprese:
“Lo so, è difficile da capire. Gli alberi elettronici non servono a nulla, ma quelli veri, come l’erba e le alghe, prima che fossero tutti bruciati… Erano loro a darci l’ossigeno, e non il reattore della base”.
Nathan non aveva mai visto il nonno tanto pensieroso, e chiese di nuovo:
“Ma allora gli alberi cosa erano? Dei reattori preistorici?”
“No.” disse nonno Allen, sorridendo.
“Erano le colonne che sostenevano il mondo. Quando furono tutti tagliati e bruciati fummo costretti a vivere dentro una cupola, perché il mondo, senza colonne, ci era crollato addosso.”
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